Pubblicato per la prima volta il 27 settembre 2018
Negli anni Sessanta Porto Recanati era un piccolo borgo di pescatori, che durante il boom economico ha deciso di reinventarsi per diventare meta turistica, approfittando dello sviluppo della riviera adriatico e della diffusione del turismo di massa. Così la cittadina, che all’epoca aveva 6000 abitanti, iniziò gradualmente ad investire in servizi per il turismo balneare, dai ristoranti agli stabilimenti con gli “chalet” lungo la spiaggia.
Il borgo, fino ad allora famoso più per la vicinanza a Recanati che per le spiagge, venne interessato da una crescita edilizia. Questo fenomeno coinvolse a partire dagli anni Sessanta non solo Porto Recanati, ma tutta la riviera adriatica, che si è trovata a far fronte a forti interventi speculativi finalizzati a soddisfare la domanda di abitazioni e la richiesta di nuovi impianti da parte del settore turistico. Si è incominciato così a progettare seconde case per accogliere le famiglie borghesi di classe medio-alta, desiderose di alzare il proprio status grazie alla casa al mare. Oltre ai maceratesi dell’entroterra, anche visitatori del Nord Italia e del centro Europa iniziarono ad interessarsi a Porto Recanati come meta per le proprie vacanze estive.
Nonostante la “turistizzazione” del borgo (che puntava a trasformare Porto Recanati in un centro d’eccellenza) all’apparenza solo la presenza di un piccolo grattacielo vicino alla piazza principale (che mal si coniuga con le casette basse e colorate del lungo-mare) fa pensare a una razionalizzazione del turismo di massa. La città, pur essendosi molto sviluppata, rimane lontana dalla forte urbanizzazione che invece contraddistingue le altre città-vacanza della costiera adriatica, come nelle zone di Milano Marittima o di Jesolo Lido.
A Porto Recanati il principale segno tangibile della volontà di trasformazione della costa adriatica in territorio ad uso e consumo del turismo di massa si trova fuori dal centro cittadino, a 2 km più a sud, in un luogo nettamente separato dal resto della città: è l’Hotel House, un ex condominio di lusso che si è trasformato nel corso degli anni nel “ghetto” della città.
Questo enorme edificio si trova oltre il fiume Potenza (la maggior parte della città è invece situata a nord del fiume), ed è difficilmente raggiungibile senza automezzi. Intorno ad esso il nulla: l’edificio è circondato soltanto da barriere naturali, campi e da grandi infrastrutture (l’autostrada, la strada statale e la ferrovia). L’Hotel House è un esempio lampante di architettura razionalista composto da 480 appartamenti distribuiti in sedici piani. Il progetto è ispirato alle Plan Voisin di Parigi, costruite dall’architetto Le Corbusier, famoso per la sua visione degli appartamenti come “machine à habiter” – macchine per abitare. Ad oggi, se ci troviamo di fronte all’Hotel House difficilmente riusciamo a ricollegarlo ad appartamenti di lusso, ideali per una vacanza rilassante. Ma all’epoca non era considerato un “eco-mostro”, ma un’opera avvenieristica, che faceva “onore alla riviera” e che riusciva a coniugare le comodità di un hotel con quelle di un appartamento.
L’Hotel House non era un semplice plesso condominiale ma una visione utopica frutto di un’architettura razionalista che si proponeva di risolvere ogni problema di tensione urbana, sociale e spaziale attraverso un unico gesto creativo: l’Hotel House è l’esempio di una “macchine per abitare”, progettata senza un reale collegamento con il tessuto urbano e senza un passato (Cancellieri p. 28). Nelle intenzioni del suo ideatore, Antonio Sperimenti, l’Hotel House rappresentava infatti un condominio verticale autosufficiente, un’enclave turistica separata dal mondo circostante, che permettesse una “comoda e lussuosa villeggiatura”. Questo permetteva di venire incontro alle esigenze dell’uomo contemporaneo, ossia la solitudine nella comunità:
“Nel suo interno ogni gruppo familiare fruisce senza impedimenti della propria libertà e nello stesso tempo si sente protetto, rassicurato, dal calore delle molte esistenze che si svolgono attorno e accanto ad esso”.
(La Tartana, n. 7-8, 1968)
Secondo il progetto iniziale, l’Hotel House avrebbe dovuto occupare un’area di circa 40.000 metri quadri di terreno, di cui soltanto il 15% dell’area era adibita all’uso abitativo. Il resto della costruzione sarebbe stata destinata per uso ricreativo: nel progetto erano previste la costruzione di campi da minigolf e da tennis, negozi, un parco-giochi per bambini, un distributore di benzina, parcheggi, un laghetto artificiale, un auditorium, una boutique, un ristorante, una discoteca e una sauna. Venne progettato e successivamente realizzato anche un avveniristico autobus-barca collegava gli abitanti del condomino alla spiaggia, per ovviare ai problemi di viabilità, causati dall’isolamento dell’edificio rispetto al resto del paese.
In realtà, come nota Cancellieri, si è trattato di un progetto di speculazione edilizia, avviato non a caso negli ultimi mesi in cui il Comune di Porto Recanati era sprovvisto di piano regolatore. (Cancellieri, p.18) Finito di costruire nel 1967, l’Hotel House divenne abitabile dal 1970, ma già dal 1973, con il fallimento della ditta costruttrice, iniziò il forte declino dell’edificio. Dopo il fallimento Sperimenti (l’ideatore dell’edificio), si suicidò, e con lui morì l’idea che era alla base dell’Hotel House.
Il fallimento era nell’aria: già dai primi anni il residence si era rivelato un investimento poco redditizio, in quanto il condominio, pur accogliendo moltissime persone durante i mesi estivi, durante l’inverno rimaneva vuoto: dei 480 appartamenti (con riscaldamento centralizzato) solo 60-70 erano occupati tutto l’anno. Gli stessi esercizi pubblici che erano stati realizzati al piano terra del residence, (che, vista la lontananza dal centro abitato venivano utilizzati quasi esclusivamente dagli abitanti del Hotel House), non potevano sopravvivere durante il periodo invernale di inattività. Con il fallimento della ditta, i lavori si interruppero e parte del complesso venne separato dal grattacielo principale. Inoltre molti dei servizi che erano previsti nel progetto iniziale non furono mai realizzati, rendendo in questo modo la città-verticale una “cattedrale nel deserto”.
Nella sua Etnografia Cancellieri definisce l’Hotel House come un vuoto urbano che nel tempo è stato riempito da persone che non avevano nulla in comune tra loro, se non la provvisorietà del loro insediamento: gli sfollati del terremoto di Ancona del 1972-1973, ufficiali dell’aeronautica che lavoravano nella vicina Potenza Picena, alcuni collaboratori di giustizia inseriti nei programmi di domicilio coatto e le ballerine dei night clubs della zona. Sembra che vi si trasferirono addirittura alcuni dei membri delle brigate rosse, che utilizzarono come nascondiglio proprio uno degli appartamenti dell’Hotel House.
A partire dai primi anni Novanta l’Hotel House inizia a ripopolarsi e a trasformarsi grazie all’arrivo di crescenti flussi di immigrati da altri Paesi. Porto Recanati divenne infatti una cittadina con molte attrazioni da un punto di vista lavorativo, non solo per la richiesta di manodopera nel settore turistico e dei servizi, ma anche per la vicinanza a tre distretti industriali: il distretto calzaturiero di Fermo e di Macerata, il distretto plurisettoriale Recanati-Osimo-Castelfidardo e il distretto di pelli, cuoio e calzature di Civitanova Marche.
Lo sviluppo economico della Terza Italia si è tradotto in una crescente richiesta di manodopera non qualificata. Ma di fronte alla crescente domanda di lavoratori e al conseguente arrivo di migranti economici, è mancata qualsiasi politica nazionale e locale per assicurare a questi una casa. Le dinamiche di insediamento abitativo sono state lasciate quasi esclusivamente in mano all’economia di mercato e alle reti etniche dei migrati. Il vuoto urbano dell’Hotel House si prestò così ad essere la meta ideale di queste nuove popolazioni.
In questo modo, dopo essere stato per anni un luogo di persone di passaggio e di breadwinners senza famiglia a seguito, gradualmente sono incominciati i ricongiungimenti familiari, e il condominio è diventato sempre più un luogo abitato da famiglie che si sostituirono ai residenti temporanei. Nel 2015 vivevano più di 460 minori all’interno dell’Hotel House, molti dei quali appartenenti alle seconde generazioni (Cingolani – documentario).
Un aspetto interessante sottolineato da Cancellieri è che il turnover di popolazione tra italiani e immigrati ha ben poco di naturale e non è stato favorito solo dal caso: la distribuzione dei gruppi sociali in determinate aree non è solamente determinata dalla libera competizione tra gli attori sociali ma è anche e soprattutto il risultato di pratiche e politiche che favoriscono la concentrazione residenziale di alcuni gruppi. Nel caso dell’Hotel House essa è stata promossa e incentivata dalle stesse agenzie immobiliari, che favorendo la creazione di un mercato delle case specifico per gli immigrati sono riuscite a trarre ingenti guadagni tramite il meccanismo del cosiddetto Block Busting. Questo meccanismo consiste nel incentivare la vendita di appartamenti posseduti da proprietari “nativi” provocando delle “paure etniche” nei proprietari e negli affittuari, al fine di avvantaggiarsi della conseguente caduta dei prezzi degli appartamenti; in questo modo è possibile, in un secondo momento affittare o vendere gli appartamenti agli immigrati a prezzi più elevati. Il periodo di crisi economica ha poi ulteriormente sollecitato questo processo.
Nella stessa zona adriatica altri ex-residence estivi hanno avuto una storia simile, che ha fatto che sì che si trasformassero da appartamenti di lusso destinati alla medio-alta borghesia in appartamenti per “poveri” e marginali: si pensi per esempio al “Lido Tre Archi” di Fermo, che ora è al centro di una riqualificazione da parte del comune per la messa in sicurezza del quartiere e per riportare il “decoro urbano”*.
L’Hotel House, vero e proprio simbolo delle trasformazioni sociali avvenute in quest’ultimi decenni, è entrato a far parte dell’interesse del mondo accademico in quanto il condominio-resort “orgoglio della riviera” si è trasformato in una città-verticale che unisce più di 40 nazionalità differenti, una vera e propria città nella città di più di 2000 persone. Un “ghetto” dove non vi è nessun passaporto prevalente, in quanto nessuna nazionalità supera il 25% del totale delle presenze: un vero e proprio esempio di multiculturalismo.
Attualmente Porto Recanati è una delle città con la maggior percentuale di migranti rispetto alla popolazione (circa il 21% su 21.482 abitanti), la maggior parte dei quali risiede proprio all’Hotel House. Purtroppo l’Hotel House è entrato a far parte degli interessi non solo accademici, ma anche del mondo dei media, che sfruttano la diffidenza verso “l’enclave” del palazzo per far risaltare l’allarme sicurezza.
Se da un lato non si può negare la presenza di irregolarità e spaccio, dovuta anche dal sostanziale isolamento del grattacielo, alla speculazione immobiliare e all’essere diventato una zona franca, ideale per nascondersi e mantenere l’impunità (basti pesare che è un palazzo di 16 piani, senza ascensori funzionanti e più di 2000 abitanti; molti appartamenti, si stima il 40% del totale sono in mano a Banche e non a singoli proprietari) dall’altra parte la sua fama ha contribuito a peggiorarne le condizioni. L’Hotel House ha assunto il ruolo di capro espiatorio, di «“buco nero” della città dove far scomparire, per quanto possibile, i “nemici” dalla società.» (Cancellieri p. 99). Gli stereotipi attorno all’Hotel House vengono inoltre alimentati dalla stampa, che ha iniziato a ricollegare tutti i crimini avvenuti in zona all’Hotel House, inclusi il ritrovamento di alcune ossa umane avvenuto lo scorso marzo.
Si è arrivati a situazioni che rasentano l’assurdo: un blitz dei carabinieri in cerca di eroina è stato “spostato” dal River Village all’Hotel House da una trasmissione di Rete 4 all’Hotel House, con l’obiettivo di rafforzarne la fama di luogo degradato e per rendere più accattivante il servizio**. In un intervista a internazionale*** uno dei residenti racconta come “Tutto quello che avviene vicino all’Hotel House viene ricondotto sempre ai suoi abitanti e assume tinte mostruose”; dalla stessa etnografia di Cancellieri emerge come gli abitanti stessi si vergognano di dire di risiedere nell’Hotel House, per evitare lo stigma.
Nonostante la stampa e gli stereotipi evidenzino come il degrado e il crimine siano parte dell’Hotel House, il problema dello spaccio e dell’illegalità riguarda una parte minoritaria del palazzo, come ribadito spesso dagli stessi residenti e dalle autorità. Sembra che alcuni spacciatori non siano residenti, ma utilizzano l’edificio come posto “sicuro” per poter vendere, nonostante vi siano numerosi blitz da parte dell’autorità. Ma lo spaccio di droga avveniva già da prima dell’arrivo dei migranti all’Hotel House.
Il problema principale del palazzo sono i debiti accumulati per il mancato pagamento delle tasse condominiali e per gli allacciamenti. Se da una parte alcuni residenti, a causa della crisi economica, si sono trovati impossibilitati a pagare le tasse condominiali, dall’altra (come emerge dal reportage di internazionale) a non pagare il condominio ci sono anche molti proprietari delle case (spesso italiani) che affittano appartamenti a migranti. Si stima che il condominio ha un debito di circa un milione di euro nel bilancio, e nonostante le misure giudiziarie e penali messe in atto, non è stato possibile a risanare il debito.
Il risultato è un condominio a pezzi, che negli anni ha dovuto affrontare anche i danni del terremoto del 2016, con l’acqua potabile fornita dalla croce rossa (in quanto era stata staccata per morosità), e nessun ascensore funzionante.
In risposta all’incuria del palazzo gli stessi condomini si sono auto-organizzati per cercare di limitare i danni, con collette per risanare il debito e ronde contro l’illegalità, e contemporaneamente hanno cercato di rendere visibili le loro problematiche alle istituzioni tramite manifestazioni e interviste ai media; ma la percezione di abbandono da parte delle istituzioni è certamente favorita dal fatto che la maggior parte degli abitanti non ha cittadinanza italiana e pertanto non ha diritto di voto. Quel che è certo è che l’auto-organizzazione non è bastata per migliorare le condizioni dell’Hotel House, ed anzi in un certo senso ha rafforzato ancora di più l’isolamento tra l’Hotel House e la realtà circostante.
Tali questioni hanno però fatto emergere una forma di solidarietà basata sulla responsabilità del Hotel House stesso: all’interno dell’edificio ha finito per contare maggiormente la condivisione di uno specifico senso del luogo che la nazionalità. Si è creata una forma di aggregazione interculturale fondata su una positiva identità territoriale, come è avvenuto anche in altri contesti eterogenei dal punto di vista nazionale caratterizzati da una forte stigmatizzazione. Ideali che emergono anche dalle interviste degli stessi abitanti del palazzo (anche da esponenti leghisti!), che puntualizzano come il problema della legalità e dell’incuria vada al dì là delle differenze etniche-religiose.
Purtroppo l’irresistibile binomio tra multiculturalismo, droga e sensazionalismo dei media ha portato quest’edificio di periferia ad essere il più visitato dagli esponenti della destra italiana. Si tratta di una attenzione politica pericolosa, che utilizza la particolare situazione dell’Hotel House per pura propaganda politica.
Salvini vi ha tenuto comizi per due volte (uno nel 2015 davanti l’edificio, e il secondo un paio di settimane fa, questa volta entrando all’interno ed arrivando fino al tetto dell’edificio). La soluzione promossa da Salvini? Ruspa. Esattamente come per i campi “nomadi”, e mille altri posti “indecorosi”. Peccato che senza un’alternativa reale e una politica di non-isolamento, i vuoti istituzionali verranno sempre colmati dall’illegalità, a scapito di chi tenta di sopravvivere in condizioni di emarginazione. In questo momento, mentre sto scrivendo queste righe (26/09), Alessandra Mussolini ha deciso di seguire l’esempio del ministro dell’interno, e sta visitando l’Hotel House. Insomma l’Hotel House ha realizzato i sogni della destra xenofoba italiana: per loro è la dimostrazione che l’immigrazione è un male, e porta inevitabilmente al degrado.
Poco importa l’isolamento, il fenomeno del block busting, la speculazione edilizia, l’abbandono delle istituzioni o semplicemente il fatto che l’Hotel House avesse iniziato il suo declino da molto prima che vi si insediassero famiglie non italiane. Poco importa se lo stesso ex-portiere e residente dello stabile, non un “buonista” ma il coordinatore della Lega a Porto Recanati, ribadisce che il problema è lo spaccio e non la presenza di diverse “etnie” all’interno del palazzo. E poco importa se un luogo nato come “non-luogo” è diventato un abitazione per gruppi familiari e individui che nel bene o nel male usufruiscono e vivono nei suoi spazi, rendendo di fatto vivo l’Hotel House.
Fonti:
– Informazioni sulla costruzione dell’Hotel House: http://www.portorecanatesi.it/POLIT_SOCIETA/HH/I40anniHotelHouse.htm
– Hotel House. Etnografia di una condominio multietnico di Adriano Cancellieri, Professionaldreamers Editore, anno 2013
– HOMEWARD BOUND – SULLA STRADA DI CASA, documentario di Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani
– * https://www.comune.fermo.it/it/notizie/art/2354-riqualificazione-di-lido-tre-archi-la-giunta-ha-approvato-il-progetto-definitivo/
– ** https://www.ilcittadinodirecanati.it/notizie-porto-recanati/42450-il-servizio-tv-sull-hotel-house-non-ha-convinto-pareri-discordi-tra-gli-housini
– *** https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2018/05/03/hotel-house-porto-recanati-immigrazione
Foto di Beta16 (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.