Annullare la mediazione, spezzare il dominio: l’amore in Hegel e Marx
Tornando all’aspetto accennato da Hegel riguardo il «fissare negli occhi», ci si può forse rifare al mito di Aristofane nel «Simposio» platonico: Zeus con un colpo di spada separò gli uomini (la scissione) e questi, da allora, si rincorrono per ritrovare quell’immediatezza. Tuttavia, nell’atto sessuale troviamo solo «una notte che diviene spaventosa».
Ma se si esce da questa notte, se si è nella scissione, cioè nella distinzione fra separati e nella riflessione sul molteplice, non vi è scampo dal dominio: o si domina o si è dominati: come scriveva il giovane Hegel nel periodo della crisi di ipocondria, «Se il soggetto conserva la forma di soggetto e l’oggetto quella di oggetto, e la natura è sempre natura, non si ha nessuna unificazione: il soggetto, la libera essenza, è onnipotente, mentre l’oggetto, la natura è il dominato»[1], mentre, all’opposto, «Quando la separazione tra l’impulso e la realtà è così grande da produrre un effettivo dolore, […] poiché l’unione con il dolore è impossibile, […] [allora l’uomo] si oppone al destino, senza sottomettervisi o senza venir con esso ad un’unione che in tal caso potrebbe essere solo una servitù»[2].
Ma vi è una relazione umana che può spezzare la catena di dominio, catena nella quale si è costantemente o dominati o dominatori; una relazione fra esseri umani, ossia l’amore. «Solo nell’amore si è uni con l’oggetto, né lo si domina, né se ne è dominati».[3] Nell’amore l’unica separazione che permane è appunto quella della mera vita biologica, quella che l’uomo ha in comune non solo con gli animali, ma persino con i vegetali; ma è una dimensione che resta decisamente sullo sfondo: «Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire.»[4]; una separatezza che non ha alcun influsso: «Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato, bensì come unito; ed il vivente sente il vivente».[5]
In questa affermazione, «il vivente sente il vivente», siamo tornati all’immediatezza. Ma un’immediatezza del tutto diversa da quella preistorica, nella quale l’uomo era appunto un dato di natura al modo in cui lo è – citiamo ancora Hegel – «una pianta [che ha] sale e parti di terra, […] [che] può decomporsi».[6] È un’immediatezza nella quale la molteplicità prodotta dalle scissioni viene ricomposta e al tempo stessa mantenuta: «rimane ancora il separato, ma non più come separato, bensì come unito». Abbiamo dunque toccato lo stadio finale del percorso umano in terra: abbiamo costruito l’assoluto, sintesi della indistinta e infinita notte che «c’era già» e della luce come pura differenza.
Concetti simili vengono espressi, nel contesto di tutt’altra trattazione, da Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Nel manoscritto “Proprietà privata e comunismo” Marx identifica nella soppressione positiva della proprietà privata, ossia nel comunismo, la vera realizzazione dell’uomo sociale, ossia il pieno compimento della natura umana: «Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanesimo, in quanto umanesimo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo […] L’essenza umana della natura esiste soltanto per l’uomo sociale: infatti soltanto qui la natura esiste per l’uomo come vincolo con l’uomo, come esistenza di lui per l’altro e dell’altro per lui, e così pure come elemento vitale della realtà umana […] Soltanto qui l’esistenza naturale dell’uomo è diventata per l’uomo esistenza umana».[7]
Il passaggio sulla natura «come vincolo con l’uomo» e la definizione di questo vincolo come l’esistere dell’uomo per l’altro rimandano alla nota critica marxiana al concetto borghese di libertà, tutto fondato sulla negazione e sull’alienazione: «Il confine, entro il quale ciascuno si può muovere senza danneggiare altri, è determinato dalla legge, come il confine di due campi è determinato dalla siepe. Si tratta della libertà dell’uomo, come monade isolata e chiusa in se stessa. […] il diritto umano della libertà non si basa sull’unione dell’uomo con gli uomini, e piuttosto, invece, sulla separazione dell’uomo dagli uomini. È il diritto di questa separazione, il diritto dell’individuo limitato che si limitò a sé. […] [Quella libertà] fa trovare a ciascun uomo nell’altro uomo non la realizzazione, ma piuttosto una pastoia della sua libertà».[8]
È sempre in un altro dei Manoscritti del 1844 che Marx accenna a ciò in cui consiste una libertà che si realizza nell’altro. È al termine del manoscritto “Denaro”, nel quale la moneta è stata denunciata come mediatrice universale – anzi, ben peggio: «la trasformazione di tutte le caratteristiche umane e naturali nel loro contrario, la confusione universale e l’universale rovesciamento delle cose […] la meretrice universale, la mezzana universale degli uomini e dei popoli».[9] Viceversa, in una società compiutamente umana quale quella comunista, «Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore, fiducia solo con fiducia».[10] È qui che troviamo dunque l’universale immediatezza e non l’universale meretricio; per tornare ai termini hegeliani, è qui che il vivente sente immediatamente il vivente.
Dalla ragione illuministica astratta al lavoro collettivo
Giunti a questo sviluppo delle concezioni hegeliane, si manifesta chiaramente un fatto: che Hegel fosse rivoluzionario o conservatore ha meno importanza del contributo oggettivamente rivoluzionario del suo pensiero.
Tornando alla testimonianza-chiave dell’argomentazione di Iannaco – la lettera di Hegel a Karl Hieronimus Windischmann del 27 maggio 1810, nella quale il filosofo dichiara il proprio passato di ipocondriaco – la frase centrale può essere letta diversamente: «ogni uomo ha conosciuto una tale svolta nella vita, il punto oscuro della concentrazione della sua natura, che egli deve attraversare perché ne venga assicurato e confermato nella certezza di se stesso, nella certezza della vita consueta e quotidiana e, se si è reso incapace ad essere soddisfatto da questa, nella certezza di una più nobile esistenza interiore».[11] Iannaco interpreta il passaggio come l’accettazione pura e semplice del reale e, in caso di disaccordo con esso, la rinuncia a qualunque attività rivoluzionaria in favore di un’autocoscienza meramente ideale.
Qui arriviamo però al cuore di quanto appare come il punto di maggiore fragilità nell’opera, ossia la concezione dei rapporti tra attività umana e società umana – in altri termini, le condizioni di esistenza di una possibilità rivoluzionaria.
Iannaco espone la propria concezione commentando la seguente rassegna dello hegelismo stilata dal marxista Aldo Zanardo: «Davanti a Hegel sono aperte manifestamente due strade: restare fermo alla ragione, insistere nella critica e nella utopia, come faranno circa quaranta anni dopo alcuni dei suoi discepoli di sinistra, oppure porsi di fronte all’età moderna e al cristianesimo, alla realtà, in un atteggiamento riconoscitivo, conciliatore».[12]
Secondo Iannaco, Zanardo intende identificare la «ragione» nella non-negazione del conflitto e, a sua volta, vedere in questa non-negazione il primo passo verso l’accertamento della lotta di classe come «base della concezione materialistica della storia. Anche il marxismo infatti ci terrà a non svincolarsi dagli orizzonti della razionalità pura».[13] Ma poiché Hegel definisce appunto il reale come razionale, la ragione critico-utopistica sarebbe semmai quella illuministica, che Hegel avrebbe cercato di superare per non ripetere il fallimento della Rivoluzione francese; tuttavia, questo superamento non si sarebbe verificato, come testimoniato dal fallimento ultimo della Rivoluzione d’Ottobre.
In realtà, l’uso da parte di Zanardo di termini come “critica” e “utopia”, che Marx ed Engels negli anni 1840 hanno usato a profusione per respingere[14], e spesso beffardamente satirizzare[15], le pretese della sinistra hegeliana e dei proto-socialisti, rende chiaro che la ragione cui Hegel non restò fermo è appunto quella dell’illuminismo. La differenza tra Zanardo e Iannaco si riduce quindi al giudizio sull’effettivo superamento di questa ragione da parte di Hegel (e di Marx, e di Lenin[16]).
Secondo Iannaco questa ragione insufficiente, questo più propriamente detto “intelletto”, non fu superato perché «restò il meccanismo fondamentale, restò la negazione. Sadomasochismo e annullamento».[17]
Questa intima rinuncia a un’attività propriamente rivoluzionaria fa muovere a Iannaco un’obiezione: quale meccanismo specifico fa sì che «quel passaggio dalla scissione alla conciliazione si realizzi per la coscienza»? «Con gli anni, forse? Con il passare del tempo, con il raggiungimento dell’età adulta e il maturare dell’esperienza? Ma non accade a tutti; altri continuano per tutta la propria vita a essere ingannati da quella apparenza del conflitto, continuano a credere caparbiamente che il mondo sia diviso in oppressi e oppressori, in sfruttati e sfruttatori, in vittime e carnefici».[18]
A tale obiezione si può rispondere sotto due rispetti. Anzitutto non corrisponde al vero che alcuni si integrano e “altri” no: in questi termini parrebbe una distribuzione sommariamente casuale che, sul lungo periodo, produrrebbe due metà equivalenti. Il più delle volte, invece, gli esseri umani non hanno alcun bisogno di integrarsi, perché sono già integrati.[19] Sono gli žižekiani “cretini” (termine in questo senso già tipico della polemistica marxista) che fanno cieco affidamento sul Grande Altro. Sono con tutta probabilità la grande massa del genere umano.[20] Vi è certamente una minoranza che rifiuta di integrarsi e che, in luogo del cretinismo, mantiene un atteggiamento di critica consapevolezza. Ma per questi vale appunto la lettera a Windischmann.
Ed è qui che si può rispondere in un secondo rispetto. In questa lettera l’accento deve probabilmente cadere sull’inciso «se si è reso incapace di accontentarsi» della vita consueta e quotidiana. E proprio in un altro luogo celebre per la tesi dello Hegel rinunciatario – il § 396 della Enciclopedia delle scienze filosofiche – troviamo un ulteriore indizio. Dopo aver parlato di infanzia come mente avvolta in se stessa, giovinezza come momento di negatività e regno dell’universalità soggettiva il cui ideale non riesce però a piegare il reale, maturità come finale accettazione della razionalità del reale, Hegel inserisce un passaggio fuori posto, come un mattone sporgente: introduce una quarta fase, la vecchiaia, “il tocco finale all’unità con l’oggettività”: sul lato materiale la persona scivola nell’ottundimento e nell’inerzia, mentre sul lato morale “si libera dagli interessi limitati del presente”.
La presenza di una quarta battuta dialettica è inusitata e Hegel vi glissa sopra passando al successivo argomento. E, più importante, questa quarta battuta, che dovrebbe perfezionare l’unità con l’oggettività, in realtà la demolisce perché è la fase di dissolvimento della realtà del singolo.
Sarebbe troppo peregrino ipotizzare quindi che il vero messaggio sia che l’adesione acritica alla razionalità del reale conduca inevitabilmente all’ottundimento? Che cioè la molla trasformativa dell’universalità soggettiva della giovinezza vada sì superata quanto alla sua astrattezza, ma non annullata?
È doppiamente interessante osservare l’argomento con cui, nello stesso paragrafo, Hegel giustifica il riconoscimento, da parte dell’uomo maturo, della razionalità del reale: cioè che il reale consente all’uomo la partecipazione al lavoro collettivo. Ma se il risultato è una quarta fase di sparizione dell’uomo, questo esito non è “il tocco finale”, ma anzi la degenerazione di un reale che evidentemente non riesce a mantenere le sue promesse di razionalità (non riesce cioè ad assicurare all’uomo la partecipazione al lavoro collettivo), una razionalità che quindi l’uomo deve continuare a costruire, anche dopo la giovinezza.
Bisogna allora tornare all’affermazione, contenuta nell’aggiunta al § 396, secondo cui «L’uomo agisce del tutto ragionevolmente abbandonando il piano di una trasformazione del mondo».[21] Il significato della frase è forse il medesimo con cui Marx ed Engels castigarono i socialisti utopisti: «Per essi la storia futura del mondo si risolve nella propaganda e nell’attuazione pratica dei loro disegni sociali»[22], in un «immaginario sollevarsi al di sopra»[23] delle condizioni reali della società.[24]
Neppure lo Hegel dell’aggiunta al § 396, infatti, preclude all’uomo un’attività. Gliene preclude solo una esterna alla società: «A lui resta anche campo per un’attività onorevole, vasta e creatrice. Giacché, pur dovendosi riconoscere il mondo come compiuto quanto all’essenziale, esso tuttavia non è morto, non è assolutamente immobile ma, come il processo vitale, si produce sempre di nuovo, e mentre si conserva soltanto, nello stesso tempo progredisce. L’opera dell’uomo consiste in questa produzione e progressione conservatrice del mondoۛ».[25]
Questa formulazione, l’idea cioè che il mondo progredisca proprio in conseguenza del suo riprodursi per conservarsi, è la medesima che Marx applica ai modi di produzione. Quasi certamente Hegel non aveva raggiunto un simile livello di coscienza sociale, ma, se anche si volesse respingere totalmente l’ipotesi della sua “fodera rossa”, restano nel suo pensiero ben definiti germi oggettivi della successiva teoria rivoluzionaria.
Superare la scissione o discuterne?
Rimane da affrontare in ultimo la validità teoretica, oltre che solo biografica, dell’alternativa hölderliniana. Il passaggio in cui, nel lavoro di Iannaco, si sente una maggior vicinanza di Hölderlin a cogliere quella valorizzazione della realtà psichica umana come dialettica interumana che possa fondare un materialismo a misura d’uomo è probabilmente la critica che il poeta muove nei confronti di Fichte, cui egli rinfaccia di aver costituito un Io assoluto che contiene tutta la realtà e che, non avendo alcunché di esterno, non ha coscienza. L’Io di Fichte equivale quindi a un assoluto Niente.[26] Sebbene anche Hegel contesti a Fichte uno squilibrio tra soggetto e oggetto, la sua critica muove in direzione opposta: il guaio dell’Io assoluto non è di non poter avere un oggetto esterno, ma di non potersi fondere con esso. Hölderlin contesta cioè l’assenza della scissione, Hegel invece il suo mancato superamento.
Nella costruzione di un sistema fondato sulla dialettica interumana, Hölderlin resta dunque un passo indietro a Hegel, poiché di questa dialettica in lui non è possibile vedere la risoluzione ultima: la scissione dovrebbe essere sempre mantenuta, e con essa il conflitto. Con questo termine Iannaco non indica un momento dialettico ricompreso comunque nell’unità, ma un’opposizione dura, reale («sfruttati e sfruttatori»). Hölderlin non offre a questo riguardo alcuna via per superare il conflitto se non quella, come si è visto in Žižek, di discutere del conflitto stesso – purtroppo un vizio tipico, a oltre due secoli di distanza, di buona parte della sinistra politica.
Neppure il sistema hegeliano fornisce una via pratica per la rivoluzione come risoluzione della scissione (o, meglio, per la risoluzione della scissione come rivoluzione). Ma è il suo metodo che si dimostra valido quando Marx, nella prima tesi su Feuerbach, ne capovolge l’applicazione così come capovolge quella del vecchio materialismo, reo questo di concepire l’oggetto «non come attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente».[27] Già nell’atto di nascita della filosofia della prassi è dunque rivendicato in nuce il principio della “realtà psichica umana” propugnato da Iannaco.
Certamente è ancora possibile sostenere che neppure Marx, né Lenin, siano stati, con la loro opera filosofica e politica, sufficienti allo scopo. Ma in tal caso, a costo di attirarsi l’accusa di storicismo e giustificazionismo, la risposta più probabile appare che, forse, non era proprio possibile fare di meglio.
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G. W. F. Hegel, Moralità, amore e religione, cit. in Iannaco, Op. cit., p. 216. ↑
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Id., Amore e religione, cit. in F. A. Iannaco, Op. cit., p. 217. ↑
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Id., Moralità, amore e religione, loc. cit.. ↑
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Id., L’amore, cit. in F. A. Iannaco, Op. cit., pp. 219-220. ↑
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Ivi, p. 219. ↑
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Ivi, p. 220. ↑
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K. Marx, Op. cit., p. 108. ↑
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K. Marx, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano 2007, pp. 42-43. ↑
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K. Marx, “Denaro”, in Id., Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 147. ↑
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Ivi, p. 149. ↑
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G. W. F. Hegel, Lettere, a cura di P. Manganaro, Laterza, Bari 1972, cit. in Iannaco, Op. cit., p. 239. ↑
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A. Zanardo, Hegel, in M. Dal Pra, a cura di, Storia della filosofia, 10 voll. Vallardi, Milano 1975-1978, vol. IX, cit. in F. A. Iannaco, Op. cit., p. 111. ↑
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F. A. Iannaco, Op. cit., p. 112. ↑
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K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, in K. Marx, Le opere che hanno cambiato il mondo, Newton Compton Editori, Roma 2011, pp. 348-351. ↑
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K. Marx-F. Engels, La sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica: contro Bruno Bauer e soci, Editori Riuniti (a cura di), Roma 1972 ↑
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Cfr. F. A. Iannaco, Op. cit., pp. 112-113. ↑
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Ivi, p. 113. ↑
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Ivi, p. 36. ↑
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Abbiamo già affrontato il tema nel paragrafo “Volontà collettiva e psicologia delle masse” in https://www.ilbecco.it/intelletto-societa-materialismo-averroe-per-il-presente/ ↑
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S. Žižek, Op. cit., pp. 7-10. ↑
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G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827, 1830), cit., in F. A. Iannaco, Op. cit., p. 252. ↑
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K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, cit., pp. 349-350. ↑
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Ivi, p. 350. ↑
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K. Marx, Tesi su Feuerbach, V, in Id., Op. cit., pp. 142-143. ↑
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G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817, 1827, 1830), cit., loc. cit.. ↑
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F. A. Iannaco, Op. cit., p. 161 (nota 9). ↑
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K. Marx, Op. cit., I, in Id., cit., p. 142. ↑
Immagine: incisione di E. L. Riepenhausen (dettaglio)
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.