Le scorse elezioni per la Camera dei Comuni si sono concluse, come ormai è noto a tutti, con la vittoria del partito Conservatore di Boris Johnson. Il decente risultato in termini di voti assoluti del Labour party non può e non deve essere la foglia di fico che nasconde le dimensioni di una sconfitta storica per la sinistra britannica ed europea: più di due milioni e mezzo di voti in meno rispetto al 2017, il peggior risultato in termini di seggi dal 1935, con la perdita di seggi considerati sicurissimi e mai conquistati dal centrodestra e la sconfitta o le dimissioni di membri di vertice (Laura Pidcock, defenestrata col 13.3% in meno rispetto al 2017, era stata addirittura segnalata dalla stampa come possibile successora di Corbyn alla guida del Labour), un solo seggio vinto in tutta la Scozia e una autentica emorragia di elettori tanto pro- quanto anti-Brexit.
La politica del XXI secolo è fatta di costruzione e mantenimento di coalizioni maggioritarie di elettori. Complice una posizione sulla Brexit debole e pasticciata – rinegoziare un accordo per uscire dalla UE e indire quindi un secondo referendum, con Corbyn che però si è sempre rifiutato di dichiarare se in caso avrebbe sostenuto un voto a favore del proprio accordo sulla Brexit o avrebbe fatto campagna per il remain contro di esso, ritirandosi in una improbabile posizione neutrale – il Labour non ha saputo demolire la coalizione di Boris Johnson insistendo sulle sue contraddizioni, prima tra tutti quella tra conservatori euroscettici e conservatori eurofili, e non ha saputo costruire, unire e mantenere fino al giorno delle elezioni la propria, scontentando i laburisti euroscettici e non attirando né i tory remainers né liberaldemocratici scontenti o interessati al voto “tattico”. Tutto questo, sia chiaro, a fronte di una proposta programmatica ottima e coraggiosa, forse semmai addirittura troppo ricca.
In quello che è di per sé un vero disastro il partito di Corbyn ha però qualche buona notizia di cui rallegrarsi, dall’avanzamento tra i giovani votanti alla tenuta in alcuni dei seggi che erano sembrati più in pericolo. Hartlepool spicca tra questi ultimi per una serie di ragioni. Situato in un’area che al referendum del 2016 ha votato pesantemente per la Brexit (69.5%), il collegio di Hartlepool era il principale nonché l’unico vero obiettivo del Brexit party, il partito di estrema destra di Nigel Farage, che candidando uno dei suoi leaders, Richard Tice, sperava di vampirizzare l’elettorato laburista e conquistare così almeno un seggio ai Comuni, evitando di sparire di fronte all’avanzata conservatrice. Nonostante un preoccupante 25.8% per Tice e quasi quindici punti in meno Mike Hill, in candidato laburista, è riuscito a conservare il seggio e a infliggere una bella sconfitta alla destra più fanatica. Rimane da vedere per quanto in futuro, in mancanza di una vera discontinuità politica e socioeconomica, nelle gravissime condizioni di deprivazione e desertificazione economica che colpiscono tutto il nord inglese, Hartlepool, la città di Andy Capp, continuerà a scegliere la sinistra.
Brexit, avanzata della destra estrema, crollo del blocco sociale della sinistra, sono certo collegate con un filo rosso proprio alle storiche difficoltà economiche di intere aree geografiche e fasce di popolazione, in un fenomeno che – escluso ovviamente il primo termine – si estende all’intero contesto occidentale. Certamente non però nel modo semplicistico che qualcuno continua a propinare. Versare in difficili condizioni economiche, appartenere alla classe operaia, essere disinformato o poco brillante o arrabbiato con il mondo e con il “sistema” non rende nessuno automaticamente di destra o fascista: è questa una caricatura di un classismo inaccettabile, che va rispedita al mittente. Nel contesto britannico, è particolarmente evidente come in Scozia aree povere e deprivate quanto e più di quelle del nord inglese abbiano votato piuttosto della destra un partito sì nazionalista ma economicamente di centrosinistra e politicamente europeista, lo Scottish National Party.
Va invece preso in considerazione un tema che forse il nostro antieroe col cappello ci suggerisce: la fine di un mondo e l’elaborazione del lutto.
Andy fa ridere soprattutto perché è un fannullone ignavo e cinico in un mondo, che fa da sfondo sottointeso, altrimenti impregnato dei valori del lavoro, della solidarietà sociale e dell’appartenenza comunitaria e di classe. D’altronde proprio grazie al welfare nazionale lo stesso Andy Capp conduce una vita che potrebbe – non fosse per i suoi difetti personali di beone e piantagrane, o per i tanti piccoli spassosi guasti del “sistema” – essere sostanzialmente dignitosa, tifa per una squadra di calcio che sicuramente è più locale delle multinazionali miliardarie che dominano l’attuale Premier League e gioca a calcetto e beve birre al pub con la gente del posto, vive insomma una vita che non ha bisogno di identità enfatizzate ed escludenti, nella sua familiarità in un certo senso eternamente riprodotta che, allo stesso tempo, è in divenire nel telos progressista del patto sociale postbellico e dell’industrialismo, uno slancio verso il futuro tanto materiale quanto etico e morale. Il mondo del welfare e della socialdemocrazia intesa in senso ampio, semplificando. Proprio quel mondo di sensi e possibilità pratiche di cui non si può non percepire con dolore la scomparsa, leggendo oggi le avventure del nostro.
Hartlepool ha cominciato a soffrire economicamente già prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, con la crisi della cantieristica navale e della siderurgia, e quel mondo ha certamente iniziato a disintegrarsi, prima lentamente, poi – come altrove – di schianto. L’intero nord inglese ha perso negli ultimi cinquant’anni gran parte della capacità industriale e mineraria, nella maggior parte dei casi non sostituita da nulla di comparabile sotto il profilo dell’occupazione. Più recentemente anche la capacità degli ecosistemi marini di sostenere lo sfruttamento è in gran parte collassata, compromettendo anche la un tempo fiorente industria della pesca. Un’apocalisse.
Il lutto nel pensiero freudiano è (sempre semplificando) un doloroso lavoro in cui al recupero dell’immagine della cosa perduta e al suo investimento emotivo, che prolungano in un certo senso l’esistenza dello scomparso fino al limite dell’illusione della sua sopravvivenza o di un suo possibile ritorno, si contrappone la realtà definitiva della scomparsa dell’oggetto amato (reality testing), finché l’individuo non si riesce a separare da esso.
Non sono mancati in questi anni i commentatori che hanno collegato più o meno esplicitamente i temi della fine del consensus welfaristico postbellico con questa elaborazione freudiana, soprattutto per quanto attiene alla condizione del proletariato, e – secondo me – anche a ragione, nella differenza delle posizioni. Ma oltre a questo bisogna anche fare i conti con la realtà della fine di un mondo, e della necessità di aprire spazi di ricostuzione “in avanti”.
Nella contemporaneità, anche al di là delle aree più in difficoltà, il mondo del welfare e della socialdemocrazia non esiste più, è sicuramente definitivamente perduto. Ma se con esso è anche scomparsa la possibilità politica di costruirne un altro che lo superi in cui vivere pienamente e decentemente, in cui essere parte di una storia, il reality testing consegna solo alla disperazione, e la vecchia condizione di familiarità e spinta verso un trascendimento progressista si rovescia nella triste parodia dell’inerzia dell’abbandono in un contesto sfigurato, di un andare alla deriva verso un futuro spaventoso, di un essere agiti senza possibilità di riscatto. Il lavoro del lutto non si compie, e rimangono solo le proiezioni immaginarie della sopravvivenza o del possibile ritorno dello scomparso idealizzato.
Un vuoto colmo di fantasmi che è il terreno migliore per un discorso come quello identitario, se, come scrive De Martino in un frammento «identità è la nostalgia dell’identico, il tornare nell’indistinto delle origini, il resistere alla proliferazione del divenire storico, l’istinto di morte, lo scomparire nella situazione in luogo di trascenderla, l’annientarsi dell’essere nel mondo. […] Oppure, quando la nostalgia dell’identico si rende conto del vuoto che avanza, l’identità assume la forma dell’essere che si ripete, della nostalgia del divenire ciclico»[1].
Ma questa soluzione è solo illusoria, e peggiore del male: il recupero dello scomparso è reso impossibile dalla realtà ed è in ogni caso un divenire, non una restaurazione immediata dell’idealizzato mondo familare sempre identico a se stesso; l’azione umana è di nuovo paralizzata e sotto scacco e/o impegnata in una battaglia contro i mulini a vento nociva in quanto illusoria, che – riprendendo la terminologia demartiniana – blocca di nuovo il flusso etico-pratico dal privato al pubblico ed il trascendimento del primo nel secondo – la politica in senso nobile, potremmo dire in parole povere – che è l’unica possibilità di poter essere del dover-essere soggettivo, e quindi di riscatto.
Mentre i subalterni si dibattono tra le macerie di un mondo in frantumi, proprio chi ha distrutto il loro modo di vivere profitta vendendo loro l’illusione della restaurazione, che nella migliore (o peggiore) delle ipotesi si tramuterà in uno status quo risignificato simbolicamente con qualche bandiera e coccarda in più o in una violenta caricatura del passato, comunque in un mondo materialmente peggiore per tutti tranne che per i pochi.
Disturbando di nuovo lo spettro di De Martino, «occorre andar oltre la situazione luttuosa, questo comanda il lavoro del cordoglio: che se davvero questa situazione ci fa prigionieri, […] allora cominciamo a morire noi stessi con ciò che è morto e nella alternativa senza esito di rendere reversibile il tempo storico andiamo smarrendo la stessa potenza morale che, decidendo le alternative, rende possibile l’esserci-nel-mondo. Chi non oltrepassa una situazione critica ne resta prigioniero e ne subisce la tirannia: la presenza rimasta senza margine davanti alla situazione luttuosa perde la fluidità, la operabilità e la progettabilità del divenire mondano, che in ogni situazione tende a ripetere la situazione luttuosa, a diventare il morto e la nostra disperazione o il nostro terrore. I morti non fatti morire dai vivi tendono a tornare in modo irrisolvente, magari con una maschera che li rende irriconoscibili e contaminando tutto il fronte delle situazioni possibili nella vita reale»[2].
Suggerire alternative è sempre sgradevole, specie in un’epoca in cui chiunque si sente in diritto di farlo. Qualcosa però, in conclusione, si può dire. Credo che la sinistra debba prima di tutto porre un’istanza radicale di realtà: il vecchio mondo del consensus postbellico è finito per sempre, e non può essere sostituito da nessuna parodia autarchica o comunitarista. Deve anche ammettere che parti di quell’ordine si reggevano su dislivelli di potere di genere e a base razzista e imperialista di cui va rifiutato il riconsolidarsi, e anzi completata l’opera di demolizione.
Ma, allo stesso tempo, deve – ed è cruciale che lo faccia – dotare le persone di strumenti tangibili politici e pratici per ritrovarsi e per costruirsi un mondo nuovo, abitabile e dotato di senso. Ciò richiede prima di tutto che “sinistra” torni a voler dire qualcosa, magari superandosi ma rimanendo anche in un certo senso familiare, che la sua forma organizzata recuperi contenuti e bussole teoriche e ideali, l’esatto opposto di ciò che è stato fatto in anni di deideologizzazione, e che si apra a nuove forme di partecipazione e di costruzione collettiva a partire dalle condizioni materiali e dai processi reali. Un’impresa difficile e di lungo periodo, che però non può essere sostituita da un salto in avanti verticistico, o dal leaderismo, o dalla semplice proposta. La paradossale esigenza è iniziare a cambiare le cose affinché cambino. In gioco c’è il far sì che alla fine di un mondo non corrisponda, in fin dei conti, per tanti, la fine del mondo.
Il cinismo di un Andy Capp starà sempre lì, a prenderci in giro e ricordarci come fare di meglio.
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Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, p. 226 ↑
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Ibid. pp. 263-264 ↑
Immagine di Hermann Luyken (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.