Il percorso teorico di Negri è una storia filosofica ancora tutta da scrivere. Inutile, senza avere sottomano un panorama sistematico, tentare un’interpretazione complessiva. Si cadrebbe inevitabilmente in errori già visti: da un lato l’agiografia o l’aderenza ideologica, dall’altro lo sbolognamento ottuso, la presa in giro e il rifiuto aprioristico. Fossati scavati dalla storia degli ultimi decenni, dal frantumarsi e dal declino inesorabile della sinistra italiana, dalle antipatie e dalla reazione tifosa che una tendenza suscita nell’altra, infine dal rifugiarsi di fronte all’incomprensione del reale in certezze decrepite, figure mitiche e formule ideali che ormai assomigliano più al Loreto impagliato di gozzaniana memoria che al sole dell’avvenire. Un dibattito, quello tra negriani e antinegriani, se così lo si può chiamare, che fa venire in mente il Macbeth: «a tale / told by an idiot, / full of sound and fury / signifying nothing».
Con quanto detto in mente, volendo evitare proprio quella storia e quel biografismo, possiamo partire da qualche ipotesi di lavoro provvisoria che ci possa però accompagnare in una lettura un minimo informata dell’ultima fatica di Michael Hardt e Antonio Negri, Assembly, di cui esiste anche un’edizione italiana, il cui titolo in traduzione (Assemblea) perde però un po’ di significato. Almeno da Marx oltre Marx, passando per Impero, Moltitudine e Comune, Negri, con o senza Hardt, si è messo al lavoro per collassare in un corpus intellettuale unico (anche se forse parlare di “sistema” è eccessivo) le tendenze intellettuali vicine, interagenti ma nonostante ogni sforzo – all’occhio critico – disperatamente disparate che da sempre ispirano la sua filosofia. In ordine assolutamente sparso: il retroterra fondamentale marxista e leninista e da questo un ramo della pianta operaista, e quindi la riscoperta di un marxismo altro, gli echi poststrutturalisti, ergo, attraverso Deleuze, una particolare variante politica dello spinozismo.
Prima ipotesi di lavoro: la filosofia politica negriana del nuovo millennio è la storia filosofica di un allontanamento dal marxismo compiuto (sia chiaro, non un’abiura), il cui risultato è vicino alla storia degli istituzionalismi radicali, e alle loro radici nella filosofia politico-economica moderna premarxista e nel socialismo utopico. Assembly è il prodotto finale di questo sforzo, che, con la strana luce che l’opera “definitiva” proietta, se enfatizza la bontà di alcune delle ipotesi avanzate nei lavori precedenti altrettante ne scarta tacitamente, o sottopone ad una critica implicita ed esplicita che lascia spiazzati, d’altronde una sensazione familiare a chiunque abbia letto almeno uno dei lavori precedenti. Rimane gran parte dell’analisi di Comune, che è forse il punto di riferimento più saldo di Assembly, che a tratti è quasi un sequel (e mezzo). Di Impero rimangono pochi rimandi che danno quasi una sensazione di estrinsecità; tanto gli oggetti teorici che la questione che aveva ispirato quell’opera (per capirsi, in termini spiccioli, la cosiddetta “globalizzazione”) rimangono in ombra. Non ci si sorprende troppo, visto che tanti di quei discorsi, in un mondo come quello attuale dove la minaccia più immediata sembra essere – a ragione o a torto – tutt’altro rispetto alla presunta anomia del capitale globalizzato e all’eterna diatriba europea sulla libertà dei mari, sembrano irrimediabilmente datati.
Di
Moltitudine rimane la
moltitudine,
anche se relativamente sgonfiata a livello teoretico rispetto al
soggetto sociale delineato dal libro omonimo, ed
è centrale in quella che è forse la parte più felice di Assembly,
in cui si delineano i contorni di una interpretazione-trasformazione
del reale e in cui viene ingaggiato uno stimolante duello a distanza
con uno scomodo vicino, il populismo
cosiddetto “di sinistra” laclausiano.
Il concetto di classe – pur rimanendo per certi aspetti valido –
non riuscirebbe più a comprendere la quantità di gruppi
socioeconomici e identità, con interessi differenziati e non sempre
coincidenti, nati o affermatisi nella contemporaneità.
L’avanzare di quella che un tempo si sarebbe chiamata “new
economy”, del
capitalismo delle piattaforme e quindi del settore terziario povero
non ha assolutamente significato l’emancipazione del lavoratore –
visione che in passato è stata da qualcuno erroneamente attribuita a
Negri stesso – e anzi ha
catturato e messo a profitto l’intera esistenza umana, ma apre nuove
possibilità di rivendicazione e di organizzazione.
Se
il fatto che la classe subalterna sia frantumata è una premessa che
Negri condivide con il populismo laclausiano e neolaclausiano, a non
essere condivisa è in fondo la tattica “unificatrice” che
quest’ultimo propone. Trovare
un “leader” che sciolga le contraddizioni della società nel
“popolo” è improponibile quanto proseguire su una linea di
classe dura e pura: i
fatti, d’altra parte, hanno la testa dura.
La seconda ipotesi
di lavoro è quindi quasi ovvia, date le premesse: Assemby
è un libro sull’organizzazione
e, soprattutto, ossessionato dall’organizzazione.
Lungi
da qualunque tentazione sterilmente movimentistica, Assembly
proclama fin dalle prime pagine
che un’organizzazione
compatta è necessaria in assoluto,
e qualunque soluzione alternativa è destinata al fallimento. Però,
data la composizione sociale cui si è accennato e in generale la
congiuntura del capitalismo contemporaneo è necessario anche
immaginare un’organizzazione di tipo assolutamente nuovo, che dalla
molteplicità dei soggetti sociali tragga forza e profondità
progettuale, senza puntare a improponibili unificazioni.
Negri
avanza molte proposte puntuali, tra cui – oltre al ritorno
dell’idea di costruire spazi politici “comuni” a carattere
mutualistico, già presente in Comune
– quella forse più interessante è quella di invertire
il rapporto tra strategia e tattica
nella nuova forma organizzativa che il libro propugna. La strategia,
secondo Hardt e Negri, dovrebbe essere “ridistribuita”
all’assemblea, alla massa degli associati, alla “moltitudine”,
mentre ad una leadership
il più possibile temporanea toccherebbe la tattica “giorno per
giorno”. La proposta di “spiazzare” tattica e strategia è
forse la più interessante dell’intero libro, è però anche uno dei
suoi maggiori punti deboli, per una serie di ragioni che discuteremo
più avanti, dopo una breve parentesi.
Per
ragioni di spazio non è qui possibile analizzare tutte le idee
avanzate da Assembly;
ma possiamo comunque citare brevemente alcune delle principali.
Dall’elaborazione operaista e negriana gli autori recuperano l’idea
di uno sfruttamento
capitalistico che si estende fino ad assorbire l’intera vita,
grazie anche alla penetrazione della tecnologia nelle reti sociali.
Partendo dalle soggettività “macchiniche” create da questo
sistema tecno-sociale, Hardt e Negri immaginano una riappropriazione
di questo “capitale fisso”, le tecnologie più o meno materiali
che costituiscono l’ossatura dell’età informatica,
come pratica incrementale di liberazione. Il “capitale fisso”
conquistato potrebbe, seguendo il ragionamento, essere cioè
utilizzato per conquistarne ancora e procedere ad ulteriori
liberazioni, e così via; un intento che ben si collega con le
riflessioni di Comune
che Assembly richiama.
I debiti con il cyberpunk letterario,
con l’attivismo open source
e con la riflessione dei filosofi contemporanei postcibernetici sono
evidenti, e la proposta è di per sé utile e interessante.
Come
in passato, Hardt e Negri hanno riportano al centro del discorso sul
socialismo la questione della soggettività,
ed è certamente un bene. Va però sottolineato un certo
unilateralismo, molto presente d’altronde in Assembly:
il capitalismo in un certo senso non vincerebbe mai il gioco delle
soggettività, che rimarrebbero sempre qualcosa di altro rispetto ad
esso, qualcosa di antagonistico o comunque indocile; la lotta si
svolgerebbe su un piano non univoco. Non sottovaluterei invece quanto
il capitalismo riesca ad
imporre soggettivazioni che creano soggetti docili,
o, più fondamentalmente, quanto impedisca la ricomposizione creando
gruppi sociali tra loro idiosincratici tra subalterni.
Forse
inoltre non andrebbe sopravvalutata l'”amichevolezza” o la
neutralità
del capitale fisso, di
cui ci si vorrebbe appropriare e con il quale si sogna di costruire
nuovi assemblaggi, nei confronti del soggetto umano o addirittura
della vita in generale.
Meno problematico e più condivisibile,
anche perché assolutamente “classico”, il richiamo alla
riappropriazione di
linguaggi e temi, la cui
importanza è effettivamente spesso sottovalutata.
Copertina Crystal Hartman / Oxford University Press
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.