A metà del 2018 è entrata nella cronaca internazionale la figura di Greta Thunberg, il 2019 è stato l’anno dei Fridays For Future. Alla fine del 2019 l’Unione Europea ha dato il via al progetto “Green Deal”, che ha cominciato a svilupparsi, almeno nella fase programmatica, già da gennaio 2020: un progetto tanto articolato nei contenuti quanto blando negli obiettivi. Se la preoccupazione per il peggioramento della salute del pianeta è ampiamente condivisa, le soluzioni proposte sono tutte calibrate sul modello produttivo economico attuale; ma è immaginabile la salvezza del pianeta senza mettere in discussione il modello economico capitalistico?
Leonardo Croatto
Ogni fenomeno sociale porta in sé tutte le proprie contraddizioni, incluse quelle che lo distruggeranno. Assumendo come vero questo teorema caro ai materialisti dialettici, a un sacco di gente (anche a chi di materialismo dialettico non ha mai sentito parlare) ultimamente è venuto il sospetto che una di quelle contraddizioni capaci di causare la fine del capitalismo sarà l’aver portato all’estinzione la razza umana, fenomeno che renderà finalmente inutile la corsa agli acquisti dei regali di Natale.
I teorici della fine della storia, quelli che ritengono che non sia possibile uno stadio evolutivo successivo alle relazioni economico-sociali in atto, hanno difficile vita nel riuscire ad immaginare una convivenza non distruttiva tra l’ipertrofia dei consumi necessaria a sostenere il desiderio di crescita dei grandi capitali e la finitezza delle risorse del pianeta. Il concetto di circolarità nell’economia questo è: un eterno ruminare della stessa quantità di risorse trasformate in beni di consumo poi distrutti e rimessi in circolo come materie prime pronte per un nuovo ciclo produttivo. Idea difficilmente sostenibile sulla lunga distanza, sia perché, come sa chi ha frequentato un po’ di termodinamica, i cicli hanno sempre una resa minore del 100% (e quindi delle perdite), sia perché, per alimentare la crescita infinita dei capitali, il ciclo produzione-distruzione-produzione dovrebbe aumentare sempre di più la propria frequenza fino a una durata pari a zero del prodotto.
Se la produzione è in qualche modo un processo metabolico, un ciclo di trasformazione delle risorse naturali in prodotti che poi andranno prima o poi ritrasformati, ed essendo le risorse del pianeta esauribili, è difficile immaginare che questo ciclo di produzione e distruzione, seppur con dei meritevoli tentativi di riduzione delle perdite, possa trovare una sua sostenibilità senza accettare un fortissimo rallentamento.
Ora, se il capitalismo è quel sistema ontologicamente connotato dal meccanismo di accumulo di capitale su capitale con la maggior rapidità possibile, è assai difficile che possa restare se stesso e contemporaneamente accettare una trasformazione completa della propria essenza.
O ci mettiamo nell’ordine di idee di cambiare completamente le relazioni socio-economiche che governano il mondo escogitando un sistema meno distruttivo, oppure quella a cui assisteremo nei prossimi anni – e non solo in Europa – sarà solo la più costosa operazione di greenwashing della storia.
Piergiorgio Desantis
Di politiche ambientali, verdi o a impatto zero sono anni che se ne sente parlare. Tuttavia, nonostante una riduzione delle dell’immissione di sostanze inquinanti, gli scienzati, abbastanza concordemente, convengono sul fatto che tale riduzione non è sufficiente per arrestare cambiamenti/sconvolgimenti climatici che devasterebbero l’intero pianeta Terra. Si dubita, a tal proposito, se l’intero sistema economico sia compatibile con l’ambiente, con la sopravvivenza delle specie e la biodiversità. Qualche dubbio, in effetti, sorge, soprattutto analizzando gli ultimi cinquanta anni del mondo stesso. Comunque sia, il Green New Deal europeo potrebbe essere un importante provvedimento, in quantità e qualità delle risorse investite, per provare a fermare la distruzione ambientale. I ritardi e i progetti talvolta fumosi legati a esso possono renderci scettici e pessimisti. In realtà, al fondo, c’è da riconcepire un altro modello di sviluppo diverso e ulteriore che assicuri benessere economico e ambientale in modo democratico e sufficiente per tutti. Circa quest’ultimo punto, purtroppo, a parte lo studio di poche menti illuminate c’è veramente ben poco in ambito politico (soprattutto in Occidente).
Dmitrij Palagi
Il Green Deal europeo presta il fianco a facili critiche, già oggetto di alcuni articoli a più mani sulla nostra testata, con particolare riferimento all’Unione Europea e al movimento dei Fridays For Future.Il tema offre inoltre l’occasione per ricordare alcuni appunti sul concetto di “emergenza climatica” pubblicato a inizio 2020. Questo tipo di tematiche rappresenta uno dei principali ambiti di contraddizione dell’attuale sistema di sviluppo. La stessa definizione di sostenibilità meriterebbe di essere oggetto di discussioni pubbliche.Merita di essere quindi approfondito, chiedendo conto del ruolo svolto dal Parlamento europeo e dai gruppi che lo compongono, fuori dalle dimensioni meramente nazionali, pretendendo una capacità delle formazioni politiche di rendere conto del loro operato e del loro collocamento.L’allarme costante lanciato da chi segue il tema dei cambiamenti climatici ha offerto spazio a un filone anche letterario impegnato a denunciare come sia già troppo tardi.
Una tradizione ambientalista collegata al marxismo esiste, anche in Italia, ma viene sistematicamente ignorata in nome delle semplificazioni egemone oggi.
Il Green New Deal è quindi una possibilità. Definisce un’area di intervento, anche radicalmente critico. In tempi di ristori e Recovery Fund meriterebbe di non essere ignorato o liquidato con leggerezza.
Jacopo Vannucchi
L’impressione leggendo il Green Deal europeo è che a obiettivi condivisibili e in parte perfino ambiziosi si associ un ritardo trentennale e un’inefficacia degli enti comunitari esistenti.Ad esempio, il Meccanismo per una transizione giusta si propone correttamente di finanziare la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori la cui occupazione attuale verrebbe meno in base agli obiettivi del Green Deal. Quanto questa visione sia ormai almeno formalmente condivisa è evidente dall’accordo del 25 settembre tra governo e sindacati in Polonia per la chiusura di tutte le miniere di carbone entro il 2049. Era il marzo 1990 quando minatori di carbone protestando davanti al Campidoglio contro nuove regolamentazioni ambientali scrivevano «aria pulita e lavoro: possiamo averli entrambi». L’industria del carbone è già da molti decenni non più redditizia, non solo per lo Stato (che talvolta sussidia più di quanto riceva), ma anche per i lavoratori in termini di conseguenze per la salute. Ma senza un accompagnamento alla riconversione dei posti di lavoro il destino sarà di scegliere tra industrie improduttive e dannose per l’ambiente oppure gravi conseguenze sociali.
Naturalmente, come avverte la saggezza popolare, «meglio tardi che mai»; ma il principale obiettivo dichiarato, rendere l’Europa «il primo continente a impatto climatico zero», è davvero raggiungibile con le forme istituzionali oggi in vigore?Anche evitando di porsi il problema di Paesi produttori di carbone che si trovano in Europa ma non in Unione Europea (massime Russia e Ucraina), il perseguimento degli obiettivi del Green Deal avrà successo se si rafforzerà vicendevolmente con la crescita e il radicamento di istituzioni europee che, pur restando sotto il controllo popolare, riescano a operare realmente al di sopra dei confini nazionali.
Alessandro Zabban
La bellezza dei documenti politici europei è dirittamente proporzionale alla loro inefficacia. Mentre si è ancora impantanati sul Recovery Fund e sulla Brexit, l’Unione Europa lancia il suo ambizioso piano per l’ambiente che è ancora un insieme di idee vaghe e di buoni propositi. Ma il clima è una cosa seria e per finanziare a livello continentale delle misure realmente efficaci, che non si limitino a incidere a livello giuridico ma che si concretizzino anche in progetti infrastrutturali su larghissima scala, l’attuale Unione Europa è del tutto inadatta.
Il Green New Deal di Alexandria Ocasio-Cortez sembra affermare l’ovvio, ovvero che per la transizione ecologica non ci si può affidare ai soli meccanismi di mercato e alla logica del profitto: per preservare l’ambiente serve un piano complessivo che solo l’intervento pubblico può attuare. Gli investimenti dovrebbero in quest’ottica produrre nuovi posti di lavoro in modo che ci sia una ricaduta significativa anche dal punto di vista sociale. Il Green Deal europeo riprende la formula della deputata democratica statunitense ma estirpandole il messaggio politico. Al di là della solita retorica sull’inclusività, manca infatti qualsiasi reale intenzione di cambiare prospettiva economica. Ancora una volta il problema del clima lo si vuole affrontare con le armi spuntate del liberismo. In questo modo i grandi proclami rischiano di finire in qualche iniziativa legislativa, un po’ di sovvenzioni ai privati e degli incentivi ai consumatori. Troppo poco per poter veramente ambire all’obiettivo delle emissioni zero per il 2050. Senza una trasformazione politica reale, la transizione ecologica è pura retorica.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.