ATTENZIONE: contiene spoiler.
In piena era Reagan un regista di film horror trash mette assieme un gruppo di attrici disoccupate in quella che dovrebbe essere una trasmissione TV/spettacolo dal vivo di wrestling femminile, supportata da sponsor via via più improbabili e da un produttore alle prime armi. Questa in estrema sintesi la premessa di GLOW, serie Netflix del 2017 creata da Liz Flahive e Carly Mensch, arrivata alla terza e penultima stagione tra recensioni molto positive e un successo forse inaspettato.
Una serie che prende esplicitamente come riferimenti stilistici i B-movies e la televisione spazzatura di fine XX secolo, cercando di sovvertire e mostrare il lato umano dietro gli stereotipi di un mondo dello spettacolo entusiasta alleato della svolta reazionaria impressa alla società dalla politica di quegli anni; dipanando come un filo rosso attraverso l’intera trama un interrogativo “scomodo”: lo spettacolo e la televisione fanno solamente da sfogo al razzismo e ad una mentalità diffusa chiusa e sessista, o piuttosto la alimentano e la diffondono sotto l’apparenza dell’intrattenimento?
Ovviamente, partendo da un materiale del genere, in una temperie culturale come l’attuale, forse fin troppo suscettibile, il team autoriale della serie Netflix si è trovato a camminare in un campo minato. Traspare fortemente e in più momenti l’attenzione spesa a rappresentare correttamente questioni di genere e razziali, e a non dare mai l’impressione di condividere gli stereotipi che i personaggi di GLOW si trovano ad affrontare. Il risultato è davvero commendevole, anche perché questo lavorio sui messaggi, pur rimanendo evidente, non sembra forzato e non stona con la narrazione. Anzi, con quest’ultima trova una buona sintesi, che ci regala momenti davvero di alta televisione.
Le prime due stagioni si fanno forza di un’ottima costruzione dei personaggi principali, di buone interpretazioni e di una storia senza troppi fronzoli narrativi dalla comicità spigliata, basata su un serbatoio di gag che ricorda The Disaster Artist, e in definitiva scorrono piacevolmente. Ma d’altro canto già nella prima stagione si manifestano alcune delle principali pecche della serie, le stesse che rendono la terza stagione decisamente peggiore delle precedenti, a tratti addirittura difficile da guardare. Prima tra tutte la debolezza di sottotrame romantiche che – con poche eccezioni – si esplicano tra forzature e svolte più o meno improbabili, o al contrario si trascinano noiosamente nella superficialità. Difetto superabile, non fosse che la serie dedica sempre più tempo e verte sempre di più proprio verso questo elemento così tutto sommato mal riuscito della storia, lasciando per strada a metà sottotrame decisamente più promettenti – una tra tutte la ritrovata genitorialità del regista Sam Sylvia (Marc Maron) – e addirittura, a tratti, la trama principale stessa, arrivando, nella terza stagione, a toni quasi da telenovela.
Un’altra pecca è sicuramente la debolezza del personaggio di Debbie Eagan (Betty Gilpin), che pure fa parte del ristretto gruppo dei protagonisti, sempre più schiacciato su una sgradevole monodimensionalità emotiva e caratteriale che a volte sbanda paurosamente, fortunatamente senza mai abbracciarlo veramente, verso lo stereotipo sessista della madre divorziata depressa e isterica che fa cose a caso e reagisce malamente ad ogni interazione. Mancanza di spessore che stride soprattutto a confronto con la costruzione riuscitissima del personaggio della co-protagonista ed ex amica Ruth Wilder (Alison Brie), e che non può quindi non lasciare perplessi.
Tra i difetti minori (e sicuramente meno fastidiosi) di GLOW vanno sicuramente annoverati il poco approfondimento dedicato ai comprimari, che purtroppo rimangono in larga parte macchiette, e, come in moltissimi altri prodotti Netflix, la presenza costante ed ossessiva del fumo delle sigarette, elemento che fa un po’ storcere il naso soprattutto a fronte delle pretese progressiste del gigante dello streaming.
Una serie non perfetta quindi, ma sicuramente valida e più divertente da guardare di produzioni ben più blasonate, che tenta coraggiosamente molto pur non riuscendo sempre benissimo. Sperando che la quarta – ed ultima – stagione riesca a recuperare lo spirito dei primi episodi.
Immagine Netflix
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.