I limiti della coalizione Biden
Riassumendo il dato emerso dall’analisi dei primi decili delle tre fasce di istruzione, i democratici mostrano una forza più o meno solida tra le fasce estreme mentre sono debolissimi in quella mediana. Tuttavia non è sicuro che i guadagni di Biden tra i laureati saranno mantenuti dai democratici anche dopo l’uscita di scena di Trump, mentre il Partito Repubblicano si mostra in grado di insidiare l’egemonia dell’asinello anche nelle fasce meno istruite, nonché nelle due grandi minoranze etniche (afroamericani e ispanici).
In particolare, tra i neri Biden ha sofferto la competizione di Trump nella fascia tra i 25 e i 50 anni[1], quella cioè che non ha né partecipato alle proteste di questi anni (come invece i giovanissimi) né vissuto o partecipato a quelle degli anni Sessanta e Settanta. Per spiegare questa relativa debolezza di Biden ci si è infatti richiamati all’idea di «linked fate», “destino condiviso”, ossia il principio che la comunità nera sia quasi monoliticamente unita dalle sue vicissitudini storiche: questa concezione si ritroverebbe molto più debolmente nelle giovani generazioni, facendo quindi venir meno la fedeltà di blocco al Partito Democratico, verso il quale si è più critici (movimenti giovanili) se non addirittura distanti.[2]
Tanto fra gli afroamericani quanto fra gli ispanici può inoltre aver fatto breccia il deciso maschilismo di Trump[3]; un esempio lo si è avuto nel 15° collegio elettorale dello stato di New York, corrispondente alle zone sud e sud-ovest del Bronx. Composto al 62% di ispanici e al 32% di neri, è tanto il collegio più povero d’America (28.460 dollari di reddito medio) quanto il più democratico (la Clinton vi vinse 94% a 5%). Con il ritiro in primavera del suo trentennale deputato José Serrano la dirigenza democratica fu terrificata dalla possibilità che le primarie potessero essere vinte da Rubén Díaz Sr., un pastore pentecostale nero e portoricano celebre per alcune posizioni di destra come il sostegno a Trump e l’opposizione netta all’aborto e ai diritti LGBT, nonché padre del Presidente del Bronx. Questa eventualità è stata sventata, e anzi il nuovo deputato Ritchie Torres sarà il primo afro-ispanico dichiaratamente omosessuale eletto al Congresso, ma Díaz ha comunque ottenuto il 14% dei consensi in un collegio pressoché totalmente democratico.
In altri termini, per i democratici si sta dissolvendo l’idea che il cambiamento demografico – ossia la costante diminuzione della quota di popolazione bianca – fosse di per sé la garanzia di una strutturale maggioranza democratico-progressista nel Paese. I due estremi della coalizione Biden sembrano anzi a rischio di divaricazione, con i bianchi laureati pronti a ritornare a soluzioni di liberalismo neo-conservatore e le minoranze etniche attratte dalla retorica machista e religiosa del populismo di destra.
Obama e Trump: eccezioni
Tornando alla domanda iniziale, quindi, a cosa è dovuta l’apparente eccezionalità delle due vittorie di Obama? E in cosa Obama e Trump costituiscono fenomeni simili?
Nel 2008 la maggioranza relativa (34%) degli intervistati rispose che la qualità più importante dei candidati Presidente era la capacità di portare un cambiamento: di questi, l’89% dichiarò di aver votato per Obama.[4] Nel 2016 la capacità di cambiamento fu ancora la qualità più ricercata dagli elettori (39%), ma stavolta l’82% di questi votò per Trump.[5]
Gli elettori “Obama-Trump” non appartengono allo zoccolo duro dell’elettorato repubblicano, e anzi mostrano scetticismo verso il Partito Repubblicano al Congresso.[6] Si tratta in parte di elettori con basso livello di istruzione e di reddito, dipendenti dai programmi di assistenza sociale e tendenti tanto all’odio contro il sistema politico ed economico quanto al rifugio in visioni nativiste fondate sull’identità bianca e cristiana. In parte, invece, sono elettori della piccola borghesia con istruzione media, meno ostili all’immigrazione e meno fanatici delle armi e della religione, ma anche meno informati politicamente.[7]
Se il primo gruppo («preservazionisti americani») è immaginabile concentrato in zone come i monti Appalachi, il secondo («anti-elites») è probabilmente più diffuso proprio nel Midwest, dove vi è stato nel 2016 il più forte spostamento da Obama a Trump.
Si è detto in principio che i contrasti razziali e la percezione dei bianchi di essere sottorappresentati hanno costituito una crepa latente nella coalizione Obama. C’erano tuttavia alcuni bianchi che la coalizione Obama aveva incluso fin dai suoi albori alle primarie 2008, tre categorie in cui l’allora senatore per l’Illinois aveva un consenso più alto: i giovani, i laureati e i bianchi residenti in stati privi di storie di contrasti razziali, ossia quelli dell’Ovest. All’antico populismo dell’Ovest Obama si ricollegò, e non soltanto implicitamente: ai binari di partenza della campagna per il secondo mandato visitò il Kansas, un tempo culla del movimento populista ma da molti decenni stato arci-conservatore, e nella cittadina di Osawatomie pronunciò un discorso sulla situazione economica ricollegandosi alle idee che cento anni prima proprio a Osawatomie erano state esposte sotto il nome di “Nuovo Nazionalismo” da Theodore Roosevelt, che si preparava a rompere da sinistra con il Partito Repubblicano e a formare il Partito Progressista.[8]
Roosevelt, a cui Trump è stato talvolta paragonato in quanto figura dichiaratamente machista, nel suo tentativo progressista del 1912 ottenne i risultati migliori proprio nel Midwest e nell’Ovest, tra gli agricoltori, operai e artigiani che tuttora nutrono i ranghi degli elettori “Obama-Trump”. Analogo insediamento geografico ebbe il secondo Partito Progressista, fondato dal repubblicano del Wisconsin Robert La Follette nel 1924. E la retorica populista intrise il discorso con cui Obama il 6 novembre 2012 chiuse la campagna elettorale a Des Moines, la capitale dell’Iowa:
«La gente al vertice di questo Paese, viene fuori che non hanno bisogno di un altro difensore a Washington. Avranno sempre un posto a tavola. Avranno sempre agganci e entrature. Il popolo che ha bisogno di un difensore sono gli americani di cui leggo le lettere a tarda notte dopo una lunga giornata di lavoro; gli uomini e le donne che incontro ogni giorno lungo la campagna elettorale», a cui seguiva un dettagliato elenco specifico di questi uomini e donne (il falegname, l’esercente, il cuoco, la cameriera, l’operaio, l’insegnante…).[9]
Questi voti, che Biden in un certo senso ricevette come secondo di Obama nel 2008 e nel 2012, non sono stati recuperati nel 2020, né nelle zone agricole né in quelle industriali: ad esempio nella contea di Macomb in Michigan, patria dei Nixon Democrats e dei Reagan Democrats (operai sindacalizzati e conservatori) e ora degli Obama-Trump[10], Obama ottenne le percentuali migliori dopo il 1968, ma poi Trump vi ha vinto due volte e Biden ha solo scalfito il divario da -11 a -8 punti percentuali.
Trump: continuità
Se quindi Obama e Trump hanno, agli occhi di un gruppo decisivo di elettori, incarnato entrambi i difensori del popolo contro un pugno di profittatori – costituendo in questo senso due analoghe eccezioni rispetto alla continuità istituzionale che li ha preceduti – tuttavia Trump stesso si inserisce in un filone della storia del Paese, recuperando un filo interrotto solo per pressanti motivazioni di contingenza storica.
L’atteggiamento anti-istituzionale del 45° Presidente ha mascherato, infatti, quanto alcuni aspetti della sua politica fossero fortemente radicati nella storia degli Stati Uniti. La denuncia di un’oscura cricca di affaristi che cospirerebbe ai danni del popolo è un ingrediente rinvenibile fin dal Partito Anti-Massonico, il primo “terzo partito” (estraneo cioè al bipolarismo) di successo, che ottenne l’8% alle presidenziali del 1832 affermandosi soprattutto in stati di tradizioni radicali come il Vermont e la Pennsylvania. Anche in quel caso si vide come tendenze e istinti di carattere rivoluzionario potessero unirsi a stilemi di estrema destra, xenofobia e fanatismo religioso.
Questo filone lottava anzi per l’egemonia in America quando venne soffocato da impellenti eventi di politica mondiale allo scadere degli anni Trenta, decennio in cui numerosi dottor Dulcamara cavalcarono l’ondata del malcontento: «Francis Townsend, un medico californiano portavoce dei pensionati protestanti della Bible Belt; Huey P. Long, un politico demagogo della Louisiana che fu assassinato da un oppositore per le sue tendenze dittatoriali; padre Charles Coughlin, un sacerdote cattolico e predicatore radiofonico del Michigan, che divenne antisemita e filofascista; Philip La Follette, governatore del Wisconsin e fondatore dei National Progressives of America, un partito che prese in prestito le tecniche di propaganda dei nazisti “a fini democratici”».[11]
Negli stessi anni si ebbe anche il momento di massimo isolazionismo nella storia del Paese.[12] L’isolazionismo fu per necessità conculcato nel periodo bellico, ma esso restò forte anche dopo il 1945 e solo l’esigenza della lotta al comunismo portò gli Stati Uniti a imboccare quel percorso di integrazione internazionale che così rabbiosamente avevano invece rifiutato dopo il 1918.
Una cortina fumogena
Un altro Presidente a cui Trump è stato e si è paragonato è Andrew Jackson, fondatore nel 1828 del Partito Democratico moderno ma oggi ripudiato dalla sua creatura per i suoi trascorsi come proprietario di schiavi e brutale combattente contro i nativi americani. Una sorta di damnatio memoriae si è abbattuta sull’ex generale, che in diversi stati è stato rimosso insieme al suo predecessore Jefferson dalla annuale cena di finanziamento che porta(va) i loro nomi. L’amministrazione Obama aveva anche annunciato la sua sostituzione sulla banconota da 20 dollari con la militante antischiavista Harriet Tubman, mossa poi bloccata dal governo Trump.
È singolare questa idiosincrasia per Jackson, perché quando egli fu eletto Presidente nel 1828 fu il primo uomo del popolo a giungere alla Presidenza, il primo cioè a non provenire dall’élite schiavista della Virginia o da quella finanziaria del Massachusetts. Fu lui che orgogliosamente assunse come nome ufficiale del Partito Repubblicano jeffersoniano, così chiamato in onore della Rivoluzione francese, quell’epiteto – «democratico» – che gli avversari avevano usato a mo’ di insulto e i suoi due mandati restano legati alla prima ondata di democratizzazione del sistema politico degli Stati Uniti.[13]
L’uso politico che Trump fa del mito jacksoniano – spingendosi fino a dire che con lui Presidente non ci sarebbe stata la guerra di secessione[14] – è però in totale contraddizione con la retorica antidemocratica sfoderata negli ultimi mesi da alcuni conservatori con qualche velleità un po’ più intellettuale, secondo i quali «gli Stati Uniti non sono una democrazia, sono una repubblica costituzionale»[15] nella quale «non decide la maggioranza, bensì la legge fondata sulla Costituzione».[16]
Al di là dei margini di verità che purtroppo esistono in queste affermazioni, la contraddizione stridente è che il rifiuto della democrazia è l’esatto contrario del populismo jacksoniano di cui Trump ha così tanto amato reclamare l’eredità.
Vediamo così che il Partito Repubblicano, mentre presenta alle masse un fantoccio che riesce a convertire i più populisti fra gli elettori obamiani, afferma apertamente di non avere alcuna intenzione di rendere gli Stati Uniti un Paese sotto il controllo democratico delle masse. Se il Partito Democratico intendesse tornare a investire sul suo rapporto con questi elettori – come gli conviene fare, perché le minoranze di colore da sole non bastano – non gli sarebbe difficile denunciare il trumpismo popolare come una truffaldina cortina fumogena.
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https://edition.cnn.com/election/2020/exit-polls/president/national-results/6 ↑
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https://fivethirtyeight.com/live-blog/2020-election-results-coverage/#292695, Meredith Conroy, Nov. 3 2:28 PM ↑
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https://www.washingtonpost.com/politics/2020/10/23/whats-happening-out-there-with-black-men-trump/ ↑
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https://edition.cnn.com/ELECTION/2008/results/polls/#val=USP00p6 ↑
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https://edition.cnn.com/election/2016/results/exit-polls ↑
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https://rooseveltinstitute.org/wp-content/uploads/2020/07/RI-March2017-polling-memo-201703.pdf ↑
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https://www.voterstudygroup.org/publication/the-five-types-trump-voters ↑
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https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2011/12/06/remarks-president-economy-osawatomie-kansas ↑
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https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2012/11/06/remarks-first-lady-and-president-final-campaign-rally-des-moines-ia ↑
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https://rooseveltinstitute.org/wp-content/uploads/2020/07/RI-March2017-polling-memo-201703.pdf ↑
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A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2008, p. 142. ↑
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F. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 249-250. ↑
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A. Testi, La formazione degli Stati Uniti, il Mulino, Bologna 2003, pp. 141-143. ↑
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https://edition.cnn.com/2017/05/01/politics/donald-trump-civil-war-comments-sirius-interview/ ↑
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https://www.nytimes.com/2020/10/08/us/elections/mike-lee-democracy.html ↑
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https://twitter.com/RobertFoster4MS/status/1325219689975468033 ↑
Immagine di Tony Fischer (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.