Il 22 giugno del 1941 la Germania nazista, supportata dai suoi alleati dell’Asse, invadeva l’Unione Sovietica, inaugurando un nuovo tremendo capitolo della Seconda guerra mondiale. Nell’aprile del 1961 un contingente di emigrati anticomunisti cubani, supportati dalla CIA e dall’apparato militare statunitense, tentava di sbarcare a Cuba, con l’intento di rovesciare violentemente il governo di Castro, in quella che è ricordata come l’invasione della baia dei Porci. È uno dei punti più bassi nelle relazioni tra le due superpotenze che pure nemmeno un ventennio prima avevano sconfitto, con il Regno Unito, la Francia libera e grazie al sacrificio di migliaia di soldati di altri stati alleati e di resistenti di tutta Europa, la barbarie nazifascista. Circa un anno dopo, nell’ottobre 1962, la crisi dei missili cubani porta il mondo sull’orlo della catastrofe nucleare.
Si potrebbero aggiungere altri tristi anniversari – certamente tutti diversi, non si sta assolutamente cercando di fare una sciocca e antistorica comparazione – ai già citati, ad esempio quello che segna l’inizio delle guerre in Jugoslavia, che vedranno anche l’intervento della coalizione Atlantica, o quello della crisi siriana (2011), oppure quello dell’attentato dell’11 settembre 2001 al World Trade Center di New York e al Pentagono di Washington e dell’invasione dell’Afghanistan da parte di Stati Uniti e alleati. Una data, quest’ultima, che riporta alla mente anche qualcosa di diverso: parliamo del movimento no global e delle manifestazioni contro il G8, che a Genova reclamavano un altro mondo possibile. Anche dopo la prova di quella che Amnesty International ha definito «la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale», quel movimento continuava ad incarnare una fase storica di fermento che si prolungava nelle tante mobilitazioni contro la guerra in Iraq, dal 2003 in poi, una fase in cui il tema della pace occupava politicamente (e pareva ovvio) un posto di centralità indiscussa.
Gli anniversari servono anche a capire quanto davvero siamo distanti, non solo cronologicamente, da quei momenti.
Il contesto di questo 2021 è quello di un mondo in cui si stanno drammaticamente, con un’accelerazione vertiginosa, approfondendo spaccature di ogni genere tra i principali attori della politica mondiale: tra Giappone, India, Cina, Russia, Stati Uniti, Unione Europea, tra nord e sud del pianeta, tra est e ovest. Faglie che spesso attraversano e si incrociano sopra l’Europa, quasi a riproporre schemi da guerra fredda fuori tempo massimo. La globalizzazione, ammesso che la parola abbia mai designato un modello valido nella realtà, batte in ritirata, lasciando al proprio posto blocchi dalle divisioni indefinibili, incomprensibili alla luce delle necessità di vaste collaborazioni internazionali che la pandemia ha messo in luce. Dal 2019 gli USA si sono ritirati dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), una mossa che avrebbe dell’assurdo, non fosse un drammatico segno dei tempi.
Credo che chiunque pensi che questo “mondo nuovo” sia un posto più sicuro, più pacifico, si sbagli di grosso.
L’acuirsi della crisi tra Stati Uniti, Unione Europea e Federazione Russa, con l’espulsione reciproca di diplomatici tra continui scambi di accuse pesantissime, l’immagine drammatica del possibile dispiegamento di bombardieri americani in Norvegia[1], la voglia di chiusura e di scontro con la Repubblica popolare cinese che serpeggia in più di una tra le cancellerie occidentali, la guerra della disinformazione, l’incancrenirsi delle tensioni con l’Iran: solo alcuni dei fattori delle tante crisi geopolitiche che rischiano di travolgere l’equilibrio europeo.
E il movimento per la pace? Va purtroppo data una risposta dura: non esiste, espunto dai programmi politici parlamentari e non, irriconoscibile e ai minimi termini nella società.
Persino a sinistra sul tema si sconta un silenzio imbarazzato, o il fragore di discussioni scriteriate, degenerate alla bassa conta travestita da politica di potenza di presunti interessi nazionali – spesso formulati in termini francamente neocoloniali e imperialistici – da salvaguardare o recuperare sottraendo posizioni a questo o quello stato, o ponendosi assertivamente, con la forza, in questo o quel contesto, oppure ancora involute a vago afflato umanitario o a riproposizione, con più o meno iattanza, dello status quo. È di questi giorni la resurrezione ideologica del termine “atlantismo”.
Inutile dire che “pace” nomina un concetto astratto, che nella pratica può essere declinato in modi antitetici. Non è assolutamente il caso di proporre qui ineffabili bilanci del recente passato. Sarebbe necessario però riflettere preliminarmente sulle molte forze e sulle molte debolezze di un trentennio di movimenti per la pace. Poi, pur nelle legittime visioni geopolitiche differenti, si potrebbe forse partire da un obiettivo minimo comune di “pace giusta”, ovvero non solo l’ovvio dell’assenza di conflitto, ma un ordinamento internazionale che operi attivamente per ridurre ed eliminare violenza, prevaricazione e sfruttamento, tra gli stati e non solo.
Una comunità internazionale che sia all’altezza dell’epoca del rischio globale di cui la pandemia di COVID-19 è solo un esempio, per quanto lampante: in primo luogo, è assai probabile che il peggioramento dei rapporti con la Cina abbia spinto l’amministrazione Trump a non rinnovare i progetti di collaborazione, che vedevano esperti sanitari americani permanentemente impegnati sul campo, per quanto riguarda lo studio delle malattie infettive emergenti, e che quindi gli USA si siano privati di un possibile allarme precoce nel peggior momento possibile[2]. D’altronde, i Paesi che nel 2019 erano ritenuti i più preparati ad affrontare una pandemia hanno, alla prova dei fatti, quasi uniformemente fatto una pessima figura[3]; un colpo d’occhio davvero impressionante.
Come prima cosa, quindi, un rinnovato pacifismo dovrebbe lavorare per far sì che venga accantonato lo strano pregiudizio antropocentrico che postula che i più prossimi o gli unici nemici dell’essere umano siano altri esseri umani. Il pianeta si va riscaldando, aprendo scenari difficilmente prevedibili, che vanno affrontati con la più ampia collaborazione internazionale possibile. Collaborazione che è certo impossibile se le ragioni di divisione vengono acuite o inventate ad arte, se il clima è avvelenato di sospetti e minacce: banalmente, è difficile per la Cina o per qualunque altro stato ospitare missioni scientifiche se ha legittimamente da temere che sotto la maschera dell’esperto si nasconda una spia.
Serve quindi impegnarsi innanzi tutto per un disarmo culturale che alle narrazioni tendenziose sostituisca una vera conoscenza reciproca, per rafforzare gli scambi scientifici, per la libertà di studiare e di essere studiati. Battersi per riportare al centro della cultura e delle politiche per la formazione il lavoro sul campo e le conoscenze antropologiche, le scienze sociali, le humanities – troppo spesso e da troppo tempo marginalizzate come “inutili” o peggio strumentalizzate – come essenziali strumenti di comprensione e autocomprensione, di ricostruzione di un pensiero critico come scudo contro la disinformazione e ogni rigurgito di razzismo e di supremazia etnocentrica.
Proprio il tema della disinformazione, su cui si sono spesi – spesso a sproposito – fiumi d’inchiostro, interseca un’altra fondamentale questione da tematizzare, ovvero la tecnologia, i suoi effetti e la regolamentazione necessaria a impedire che da utile strumento si trasformi in un’altra fonte di pericoli, per la società e per la pace stessa. È del tutto evidente che di fronte a concentrazioni di potere inaudite come quelle dei colossi del web e delle grandi piattaforme solo un’azione coordinata a livello internazionale può fare da freno all’emergere di pratiche monopolistiche, col grave pregiudizio alla tenuta dell’economia globale che possono comportare, o di sfruttamento del lavoro o degli utenti. I lodevoli ma spesso contraddittori sforzi di singoli stati o blocchi di stati per tutelare i propri cittadini online sono destinati alla parzialità e al fallimento se non si integrano in un sistema globale.
Ciò implica una rinuncia da parte delle grandi potenze ad utilizzare l’infrastruttura esistente come mezzo di disturbo, di spionaggio o di autentica violenza, controllato da un’istanza legittimata e competente. Un complesso di impegni diplomatici, sotto forma di trattato o di un’altra forma adatta, dell’intera comunità internazionale a tutelare entro limiti certi Internet e la sua pacifica fruizione, progressivamente riducendo e sottoponendo ad un vero controllo democratico e diplomatico l’attività di signals intelligence – lo spionaggio delle telecomunicazioni – che ha raggiunto in anni recenti livelli grotteschi e preoccupanti, e sottoponendo gli attori privati del settore – dalle grandi piattaforme ai motori di ricerca – ad una regolamentazione comune e tassativa, sarebbe certamente nell’interesse della pace mondiale.
Scontata la consapevolezza che senza una riforma delle istituzioni internazionali, tale da renderle in grado di esercitare quantomeno una effettiva funzione di controllo e garanzia della pace e del commercio internazionale, che deve per ovvie ragioni partire dalle potenze presenti nel Consiglio di Sicurezza, ogni impegno è destinato a restare lettera morta. Un tema che non è più – grazie o per colpa della pandemia – territorio di una élite di studiosi e di inguaribili idealisti. Sta alle forze sociali interessate alla pace cogliere l’occasione.
Istituzioni internazionali riformate sono fondamentali anche per affrontare un’altra grave minaccia incombente, ovvero la progressiva militarizzazione dello spazio. Non sono solo gli Stati Uniti, tra l’altro dopo che anni di tagli alle agenzie scientifiche civili hanno reso impossibile ogni ipocrisia, a puntare con specifiche forze e nuovi investimenti a rendere «l’ultima frontiera» una nuova dimensione di proiezione della potenza bellica, potenzialmente foriera di nuove, gravi tensioni. È necessario insistere sull’opportunità di lasciare che lo spazio rimanga in linea di principio riservato alla ricerca scientifica e ad altre pacifiche opportunità, e che ne vengano proibiti o fortemente regolamentati lo sfruttamento bellico, spionistico o a fini di offesa alla altrui sovranità. È altrettanto necessario formarsi ed informare sulla minaccia della militarizzazione dello spazio, anche come parte della nuova corsa agli armamenti che purtroppo è sempre più realtà concreta.
La formazione sul contesto internazionale, sulle crisi che lo attraversano e su vecchi e nuovi strumenti di difesa e offesa deve uscire dall’accademia e da circoli ristretti ed entrare in un rapporto dialettico con la società, anche per contrastare il complottismo e le letture semplificatorie e tendenziose che tanto piede hanno preso negli ultimi anni.
Potrebbe forse infine essere utile avviare una discussione, che si basi su fatti, sul tema delle sanzioni internazionali, se rimangano uno strumento utile e giustificabile o se siano invece – soprattutto quando diventano elemento strutturale a durata indefinita – un poco eticamente difendibile strumento di punizione collettiva, che finisce per colpire prevalentemente la popolazione comune.
Quella formazione che abbiamo citato sopra è stata per lungo tempo centrale nei luoghi e nelle pratiche di chi cercava di costruire un’alternativa di società, andando poi – mi pare – rarefacendosi con la crisi delle forme organizzate della politica e con il declino di salienza del “tema pace”, a sinistra.
Si vuole, infine, cogliere qui l’occasione per una breva parentesi politica.
Gli appelli alla costruzione di fantomatici “soggetti unitari” della sinistra hanno in Italia una “tradizione” tragicomica, che dal 2008 (almeno) ad oggi ha generato – quando ha generato qualcosa – baracconi elettoralistici destinati a vivere qualche mese, dai programmi confusi, composti da rimasugli di forze e gruppi dirigenti preoccupati della propria autoconservazione o da improbabili possibilità di rilancio in un indistinto futuro. «La sinistra riparta da…» (da completare a piacimento, «dal lavoro», «dai territori», «dal reddito», «dalle periferie», «dalle parole di Papa Francesco» e da altre infinite formule fantasiose), pronunciato dopo l’ennesima sconfitta, è diventata una formula bolsa, quasi un meme di quelli non troppo brillanti.
Ritrovarsi su un concetto “giusto” di pace, collegato a contenuti di giustizia sociale ed ambientale, sul rifiuto di un’Europa trasformata di nuovo in campo di battaglia tra grandi potenze, mettendo in campo obiettivi concreti – quelli citati sono solo suggerimenti di approfondimento, sicuramente da integrare con altre proposte, vengono in mente i temi dell’uscita dalla NATO, della denuclearizzazione del Medio Oriente, e chi più ne ha più ne metta – su cui elaborare e aggregare, rifiutando il cortocircuito del “campismo” ed i preconcetti ideologici. Aggregare nella diversità delle posizioni da mettere a confronto e nelle pratiche, senza accelerazioni “soggettounitaristiche” che hanno mostrato abbastanza tutta la loro insufficienza.
Chiunque abbia almeno tra i venti e i trent’anni si ricorderà le “bandiere della pace” appese a balconi e finestre, quando erano un panorama comune in città, nel primo quindicennio del secolo. Qualcuna ancora resiste, magari lisa e stinta.
Se, invece di «ripartire da…», si ripartisse da dare a quelle bandiere un senso nuovo?
-
https://edition.cnn.com/2021/02/08/politics/us-b-1-bombers-norway/index.html ↑
-
https://www.theatlantic.com/politics/archive/2020/06/how-white-house-coronavirus-response-went-wrong/613591/ ↑
-
https://www.thinkglobalhealth.org/article/all-bets-are-measuring-pandemic-preparedness ↑
Immagine di Karel291 (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.