Zuppa calda di pasta e lenticchie all’arrivo, penne aglio olio e peperoncino in chiusura di serata e quindi nel cuore della notte, perché la fabbrica non va mai lasciata sola e gli operai GKN lo sanno bene. Affissi ai cancelli ci sono i cento striscioni di solidarietà delle RSU, delle categorie e delle Camere del Lavoro, nel piazzale interno c’è il grande tendone della Pubblica Assistenza dove si mangia, si beve, si gioca a carte e si parla, guardando ai fatti del giorno, e alla vita quotidiana con i suoi ritmi, i suoi problemi e le sue speranze. Quel grande tendone pieno di calore umano dà riparo dal freddo, che è arrivato e insisterà a lungo. Allora torna alla mente il titolo di una delle più belle canzoni di Bob Dylan, Shelter from the storm.
All’ingresso Giovanni accoglie i giornalisti, li presenta ai compagni di lavoro che faranno il turno di notte, chiede se abbiano voglia di un caffè, di una birra, di un bicchiere di vino o anche della zuppa calda. Poi, all’orario fissato, si entra nello stabilimento. E inizia un incontro in cui ad essere sotto i riflettori sono, per una volta, i cronisti, per parlare delle proprie condizioni di lavoro, e dei propri diritti spesso negati.
«È un’emozione avervi qui – apre Dario – siete in sala mensa, dove fino a giugno facevamo le assemblee sindacali. Vi ringrazio a nome di tutte e tutti perché in questi tre mesi avete fatto il vostro mestiere, vi abbiamo invitati perché penso non ci siano grandi differenze fra quello che stiamo vivendo e la vostra realtà di settore. Ci confrontiamo entrambi con una fortissima evoluzione tecnologica che non è accompagnata dalle necessarie strategie industriali, che in questo paese mancano da trent’anni. Mentre le uniche attenzioni sono per i fondi pubblici da incassare. Anche nel vostro settore avete i nostri problemi. Quelli di essere sotto personale, di fare orari impossibili, e di avere un accesso al lavoro e alla stabilità economica sempre più complicato. Non c’è differenza fra l’essere in due invece che in tre su una linea, come accade a noi, ed essere da soli a fare un servizio televisivo, tenendo con una mano il microfono e con l’altra le telecamera».
Marzio Fatucchi, presidente della Consulta dei Comitati e Fiduciari di Redazione dell’Associazione Stampa Toscana, dopo averlo combattuto per anni ben conosce il cortocircuito che il Collettivo di Fabbrica ha voluto evidenziare con questa serata. Quello di chi racconta, fotografa e riprende, come nel caso di GKN, una straordinaria lotta operaia in difesa dei diritti, delle tutele e della dignità del lavoro. Mentre ne è, spesso e volentieri, privo. «Voi siete uniti mentre noi siamo divisi – osserva Fatucchi – e lo siamo per tanti motivi. Perché i nostri assetti contrattuali contribuiscono alle divisioni fra chi è stato assunto prima del ‘pacchetto Treu’ del 1996, chi dopo il ’96 ma con l’articolo 18, e chi in questi ultimi anni, a causa del Jobs Act, lavora sempre con la spada di Damocle del licenziamento. Poi siamo divisi per una frammentazione esasperata del nostro settore, dove ci sono assunti, sempre meno, con un contratto nazionale di lavoro, e poi co.co.co, service, cooperative per service, fino al cottimo, e sempre per abbattere i costi di produzione. Fino a trent’anni fa chi voleva fare il giornalista sapeva che avrebbe ‘mangiato merda’, anche tanta, per tre, quattro, cinque anni, ma poi sarebbe arrivata un’assunzione. Da allora no, non è stato più così. E ne paghiamo le conseguenze. Anche perché, e qui parlo da cronista della carta stampata, oggi siamo diventati un prodotto di nicchia».
La solidarietà operaia non è di casa nelle redazioni e in generale nel settore giornalistico. Neanche nell’editoria libraria, ricorda Giulia Carini di Acta, l’associazione dei free-lance del settore: «Con il gruppo di lavoro Acta Media abbiamo fatto una inchiesta nel nostro comparto, ed è venuto fuori che il 70% di noi non arriva a guadagnare 10mila euro l’anno. Solo insieme, tutti insieme, possiamo fare qualcosa per ribaltare questa situazione».
Ed eccoli gli sfruttati, indispensabili per la produzione giornalistica ma invariabilmente vessati, discriminati, anche emarginati non appena chiedono qualche essenziale diritto. I cronisti precari costretti a lavorare da casa da quando la pandemia ha permesso alle aziende di liberarsi di presenze, potenzialmente scomode perché irregolari, in redazione.
I cronisti garantiti come Leonardo Testai dell’agenzia Ansa che però osserva: «Abbiamo volumi di lavoro raddoppiati ma siamo la metà di quanti eravamo dieci anni fa».
I cronisti vittime di una situazione kafkiana come Stefano Miliani dell’Unità: «Non siamo in edicola da quattro anni ma non ci hanno nemmeno chiuso ufficialmente, perché così ci dovrebbero dare il TFR, il trattamento di fine rapporto».
Soprattutto ci sono le Viola Centi, che iniziando il mestiere faceva la «lampredottaia» di notte per far quadrare i conti, le Irene Grossi e Silvia Giagnoni, i Giulio Gori e Nilo di Modica. I tanti e le tante che sono in prima linea nella caccia quotidiana alla notizia, e guadagnano dieci volte meno di chi quelle notizie le mette in pagina.
Alla fine Matteo, delegato RSU GKN da 14 anni, fra i «vecchi» della fabbrica, racconta: «Noi abbiamo iniziato litigando al nostro interno, mentre si discuteva se accettare o no un accordo che ci obbligava a lavorare anche il sabato e la domenica. Alla fine quella proposta fu respinta, da allora nacque il consiglio di fabbrica, il Collettivo che avete imparato a conoscere. In questi anni abbiamo visto tante volte che la battaglia singola della singola fabbrica non finisce mai bene. E l’unica soluzione che ci appare possibile è quella di generalizzarle, queste lotte. Non dimenticate che in questo paese abbiamo perso 10 milioni di produzione di autoveicoli in dieci anni».
Tocca a Dario tirare le somme della serata dopo aver appreso – ma già lo sapeva – che i giornalisti sono parcellizzati e per giunta quasi sempre individualisti. Tanto da subire quella esasperante competizione, chiesta loro dalle aziende, ben conosciuta da chi ha imparato il mestiere sulla strada, da abusivo in redazione.
«Facciamo un lavoro appassionante, sia noi che voi, perché a me fare i semiassi piace davvero. Ma, ad esempio, qui in fabbrica il diritto alla pausa per noi è legge. E sappiate che ci sono tante officine metalmeccaniche qui intorno, legate al settore della moda e con condizioni di lavoro terribili, a cui noi stiamo sulle palle, per come siamo e per quello che facciamo, come solidarizzare con gli operai immigrati della Texprint, una storia ancora più grave della nostra. Allora vi chiediamo di continuare ad essere onesti come lo siete stati in questi mesi. E di scrivere chiaramente, quando e se avverrà, che siamo stati sconfitti, senza ‘addolcire’ la notizia come spesso accade in storie come questa. Perché, se c’è un gran bisogno di cambiamento in questo paese e lo vediamo chiesto in piazza ogni giorno, vuol dire che c’è tanta conservazione. E la conservazione si difende e si difenderà. Cercando, come nel nostro caso, di ‘soffocarci’ poco alla volta. Mentre con un po’ di cassa integrazione e una piccola riorganizzazione interna, questo stabilimento può fare, come si dice dalle nostre parti, ‘le buche in terra’».
Apparso su Il Manifesto in data 16.10.2021
Immagine di Valentina Ceccatelli (dettaglio) da flickr.com
Giornalista de il manifesto, responsabile della pagina regionale toscana del quotidiano comunista, purtroppo oggi chiusa. Direttore di numerosi progetti editoriali locali, fra cui Il Becco.