I casi di crisi aziendali con chiusure e licenziamenti si sono susseguite in Italia da molti anni a questa parte. Nell’ultimo periodo, soprattutto con lo sblocco dei licenziamenti, pare che questi casi si moltiplichino, in particolare nei comparti ad alto valore aggiunto, quali ad esempio la metalmeccanica. Le crisi Whirpool a Napoli e Gkn in provincia di Firenze sono due esempi di cui si discute nelle piazze e nei tavoli di crisi e la cui soluzione ancora non c’è ancora. Questa settimana il Dieci mani si occupa di crisi industriale italiana e del possibile rilancio, proprio a partire da questi due casi.
Leonardo Croatto
Già alla fine del 2019 il segretario della CGIL Maurizio Landini metteva in guardia nei confronti dello sbriciolamento del paese causato dalla deindustrializzazione. Il fenomeno in realtà non è affatto nuovo, non comincia con la pandemia in corso, ha cause note e profonde.
Dal 2009 al 2019 (prima della pandemia da covid-19, quindi) sono fallite oltre 45.000 imprese, mentre gran parte dei marchi più noti ancora attivi è passato in mano straniera. Nello stesso periodo la produzione industriale è calata del 20% e sono andati perduti oltre mezzo milione di posti di lavoro a causa della contrazione dell’attività industriale. La disoccupazione giovanile in epoca pre-covid è ancora attestata intorno al 30%.
Al ritardo tecnologico e alla scarsa competitività si è tentato di far fronte con la compressione del costo del lavoro, che, per il nostro capitalismo straccione, è parso lo strumento più simile alla svalutazione della moneta dei tempi precedenti all’euro. In questo, va detto, gli industriali italiani hanno trovato facile sponda nella politica, anche e sopratutto nei partiti della “sinistra” di governo.
Purtroppo, è difficile immaginare che, nel contesto dato, sia a portata di mano soluzione, vista la debolezza intellettuale della borghesia imprenditoriale e della classe politica. Servirebbe un grande patto per il lavoro ed un partito che si candidi a rappresentare i lavoratori come forze vive della rinascita dell’economia del paese, ma non pare che questo partito sia all’orizzonte.
Piergiorgio Desantis
La realtà del tessuto economico italiano pare dare torto al Presidente del Consiglio Mario Draghi che ha affermato, en tranchant, in conferenza stampa: “l’economia va bene”. Quattro parole che non raccontano gli innumerevoli casi di aziende italiane, spesso di proprietà estere, che vivono chiusure e licenziamenti quasi con cadenza quotidiana. I casi più significativi sono quelli della Whirpool a Napoli e della Gkn in provincia di Firenze. Soprattutto in quest’ultimo caso, è assai significativa la lotta di alcune centinaia di operai che si fa lotta di comunità e poi lotta di popolo, in definitiva. Bruciano troppo le modalità di licenziamento via mail con la proprietà che si disinteressa completamente delle sorti di chi lavora e non apre neanche un percorso di cassa integrazione. Mai come in questi casi, forse neanche nei film di Ken Loach, si manifesta la barbarie di un capitalismo finanziario in crisi. Capitalismo che è appunto in profonda difficoltà ma che prova a ristrutturare e a distruggere lavoro (come da mantra shumpeteriano), utilizzando la pandemia. Per ora di pars construens c’è davvero poco, almeno in Europa. Questa modalità di governo dell’economia chiama in causa necessariamente lo Stato italiano, l’Unione europea e tutte le istituzioni. Per il momento, al netto di alcune importanti prese di posizione di singoli, tutti sembrano nicchiare, prendere tempo e si concedono alcune settimane di cassa integrazione. È evidente che sono tutte misure tampone che segnalano la profonda malattia economica che investe il nostro Paese, ma non sono la soluzione. Oltre a queste misure, ci sono le scelte, che un tempo venivano definite “epocali”, sulla proprietà e sulla direzione della produzione (intervento dello Stato come previsto in Costituzione), sui comparti che hanno futuro e sostenibilità ambientale oltre alla necessità urgente di approvare una nuova legislazione in difesa dei comparti industriali italiani che hanno rappresentato e rappresentano ancora oggi il rilancio dell’economia italiana e di chi lavora.
Francesca Giambi
Sono ormai decenni che la situazione industriale italiana è quasi completamente assente: non c’è più una visione che sul presente e sul futuro detti una linea chiara e di crescita. Lo svilimento della classe operaia a cui sono stati tolti dignità e diritti è alla base dello sfascio a cui assistiamo. Non interessa il modo in cui avvengono i licenziamenti, ma il fatto che si licenzi; non interessa il numero di licenziati, ma quante famiglie, quante madri e quanti nuclei dell’indotto siano coinvolti.
Tutto nasce da questa situazione: non considerare o non comprendere che siamo di fronte ad una vera e propria lotta di classe e come tale dovrebbe essere considerata.L’incapacità del governo di affrontare le tematiche del lavoro se non solo dalla parte dei padroni è la dimostrazione di una cecità assoluta di fronte ai problemi reali. Siamo davanti ad un mercato globalizzato, lo sapevamo già da tempo, ma cosa è stato realmente fatto per proteggere settori, quali quello metallurgico e metalmeccanico, in attivo nel nostro paese. Siamo solo riusciti a svendere ai migliori (?) acquirenti le nostre industrie anche quelle di eccellenza alimentare e dolciaria.
Non ci ha minimamente sconvolto la delocalizzazione imperante negli ultimi anni come se fosse facile per chiunque di noi accettare il passaggio di una nuova vita in un altro posto. Ci siamo scandalizzati anche di quante famiglie non abbiano accettato, di fronte ad offerte di lavoro, di trasferirsi in tempi brevi in altri stati, esempio Polonia, senza pensare alle conseguenze di uno sradicamento e di disagio sociale che si ripercuote su tutta la comunità.Il lavoro è merce, l’operaio è merce, ma tutto questo deve essere ripensato in termini sociali ed anche di seri interventi statali.
La proposta degli operai stessi di comprare e gestire autonomamente industrie che stanno per licenziare non è stata nemmeno presa in considerazione, magari anche per la paura che siano operazioni e modelli vincenti, che metterebbero in crisi il già moribondo sistema capitalistico.
Non ci sono però al momento idee portanti anche da parte della classe lavoratrice, perché non si trova alcun punto di riferimento che porti avanti la loro lotta.Non se ne può più di appoggi solidali che dimostrano l’ipocrisia anche di gruppi cosiddetti democratici.
Jacopo Vannucchi
Quando, nel primo trimestre 2020, gli analisti internazionali presero a interrogarsi sulle conseguenze industriali e commerciali del Covid-19, una delle prime considerazioni fu che le delocalizzazioni sarebbero state ripensate entro la dimensione di mercati non più globali, ma regionali. Dall’offshoring puro e semplice si sarebbe passati cioè al cosiddetto nearshoring. Troppo alto, infatti, il costo dell’incertezza in termini di movimentazione della merce da un capo all’altro del globo; anche perché, come ha provveduto a informarci Enrico Preziosi sul Corriere della Sera (leggi qui), l’aumento dei salari in Cina rende già poco conveniente il costo del trasporto dall’Asia orientale all’Europa. Preziosi sarebbe pure disposto a riportare tutta la produzione in Italia, purché con decontribuzioni e detassazioni che mantengano invariati i livelli di profitto raggiunti con le delocalizzazioni.La questione del nearshoring in Europa è particolarmente importante perché riguarda di fatto l’armonizzazione del mercato interno. Il dislivello nel costo del lavoro tra un Paese e l’altro dell’Unione Europea consente infatti politiche di dumping salariale a danno dei lavoratori dell’Europa occidentale e senza che con ciò si crei una promozione del lavoro in Europa orientale (dove le condizioni del lavoro sono già state falciate dalle privatizzazioni degli anni 1990 e dalla corsa ai capitali stranieri degli anni 2000). Inoltre vi è il problema di quei Paesi che potrebbero entrare nella UE (Albania, Macedonia del Nord, ma anche Serbia) già comunque destinatari di delocalizzazioni.
La via prevalentemente perseguita sembra quella di attendere pazientemente il livellamento del mercato interno, magari con la riduzione dei diritti dei lavoratori al minimo comune denominatore. Preferibile sarebbe invece la creazione di un’Unione Europea differenziata, a due o tre velocità, con il suo nucleo economico schierato sulla ricostruzione industriale e dello stato sociale. Non è un processo scontato, né per il quale ci si possa affidare soltanto a politiche di potenza di alcune nazioni, che bismarckianamente potrebbero considerare il welfare come un instrumentum regni. Richiede invece un movimento socialista europeo unitario e determinato.
Alessandro Zabban
Le chiusure e i licenziamenti che si sono moltiplicati da quando il governo ha tolto il blocco ai licenziamenti dimostrano la totale mancanza d un piano di industriale italiano.
Fa rabbia vedere come aziende assolutamente sane e spesso in crescita licenzino per pure manovre speculative e per spostarsi dove il costo del lavoro è inferiore; fa ancora più arrabbiare che i partiti che hanno voluto lo sblocco dei licenziamenti piangano lacrime di coccodrillo non appena le aziende iniziano a licenziare.
Se il mantra deve essere quello di lasciare tutto nelle mani del mercato, occorrerebbe almeno la decenza di rivendicarne la scelta e prendersi le responsabilità, invece è subito iniziato il teatrino della finta indignazione e sono già partite le solite vuote promesse e rassicurazioni.Purtroppo però non sembra esserci nessuna volontà politica di obbligare le aziende a tornare sui loro passi e neppure l’appello che viene da più parti di una legge che impedisca alla aziende che hanno ricevuto sussidi e abbiano utilizzato la cassa integrazione nel periodo Covid di licenziare, pare essere presa in considerazione dal governo. Invece di mettere un paletto alle azioni indiscriminate delle imprese, la linea sembra essere sempre quella di volerle premiare: sgravi fiscali e agevolazioni a chi non licenzia, come se fosse un merito da ricompensare, sempre assecondando la logica perversa del dumping fiscale che favorisce le imprese e impoverisce lo Stato e i suoi cittadini.
Immagine di Valentina Ceccatelli da flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.