I Rammstein non possono sicuramente essere definiti un gruppo musicale innocuo, e fino dalla loro nascita (avvenuta ventisei anni fa) si sono distinti per le numerose controversie seguite all’uso massiccio di un cattivo gusto deliberato che attinge a piene mani da un’estetica camp incrociandola con stilemi militaristi. Mentre richiami sessuali espliciti, sia nelle canzoni, sia negli spettacoli, hanno portato a eventi di censura, il richiamo parodistico al passato nazista sia a livello estetico, sia a livello del tedesco utilizzato – un tedesco molto duro, ripulito da qualsiasi accento dialettale, che non a caso causa vere e proprie reazioni di rigetto in gran parte degli ascoltatori – ha condotto a ipotizzare delle simpatie fasciste o neonaziste.
Anche se un’analisi superficiale delle estetiche “naziste” sulle copertine e negli spettacoli dei Rammstein è sufficiente per identificarle correttamente come parodiche (possiamo citare ad esempio omaccioni dall’aria minacciosa a torso nudo sullo sfondo di una gigantesca gardenia arancione, performance in uniforme militare e tacchi a spillo – ambedue riferimenti abbastanza espliciti all’omoerotismo sublimato nell’estetica nazista), non sono state sufficienti le esplicite dichiarazioni di supporto a proposte politiche e idee di sinistra per dissipare i sospetti di simpatie naziste.
Non sorprende, quindi, che il nuovo singolo dei Rammstein, Deutschland, abbia sollevato un polverone a partire dall’anteprima, che ha scandalizzato tanto le associazioni ebraiche, quanto il commissario nazionale per la lotta all’antisemitismo Felix Klein, a causa della rappresentazione del gruppo come internati in un campo di concentramento. È interessante notare che la polemica in Germania non riguarda le supposte simpatie naziste del gruppo, quanto l’opportunità di fare un riferimento esplicito all’olocausto in un video promozionale. La scelta stilistica dei Rammstein, e la conseguente decisione di non commentare la reazione di furia bipartisan seguita, è al tempo stesso una mossa di marketing e una presa di posizione politica.
Per capire come Deutschland sia un pezzo politicamente fortissimo, ed apertamente schierato, ma non abbia nulla di nemmeno lontanamente nazista, è necessario affrontare il discorso dal punto di vista dell’identità tedesca, di cui come (mezzo) tedesco sono, volente o nolente, partecipe. La Germania ha un enorme problema culturale, strettamente legato alla sua nascita come espansione più culturale e politica che militare del regno di Prussia, e che pervade l’identità tedesca. Fin dalla sua nascita un tedesco si sente dire che essere tedesco è meglio che appartenere a qualunque altro popolo, che la sua cultura è la più organizzata ed efficiente del pianeta, che non c’è modo di fare le cose come le fanno i tedeschi – in altre parole, il tedesco più libertario e di sinistra è condannato ad essere culturalmente nazionalista in maniera quasi ineluttabile.
La diretta conseguenza di questa impostazione è una tendenza mai superata all’imperialismo – un passaggio dal “white man burden” al “German man burden” –, la tendenza a costruirsi sogni di gloria, individuali o collettivi, che rapidamente si trasformano in incubi, l’ineluttabile cadere in una retorica di infallibilità e impeccabilità che non regge alla prova dei fatti, l’impossibilità di accettare i propri limiti di essere umano. In breve, la cultura tedesca è tossica; i risultati di questa tossicità vanno dal ridicolo di spiegare ad un italiano madrelingua come funziona la sua lingua, all’orrore di classificare l’umanità in degni e indegni, gasare gli indegni e mandare i degni a morire in Russia.
Nella storia dell’ultimo secolo e mezzo, da quando esiste la Germania come stato nazionale, nel 1890, nel 1919, nel 1933, nel 1945, nel 1975, nel 1989, nel 2000, nel 2019, un tedesco non ha potuto fare a meno di percepirsi come l’Icaro prussiano, di cui canta Wolf Biermann:
“Là sta l’Icaro prussiano,
con grigie ali di ghisa,
e le braccia gli fanno così male.
Non vola in alto – e non crolla
non fa alcun vento – e non si affloscia
sul parapetto sopra la Spree”
Nemmeno l’arrivo di altre culture con un’identità collettiva meno draconiana è riuscito a stemperare questa narrazione tossica. I Gastarbeiter italiani, greci, turchi e polacchi hanno ottenuto prima un diffidente rispetto, quindi empatia (pensiamo ad esempio a Griechischer Wein, una canzonetta arrivata in alto nelle classifiche mainstream degli anni ’70, che racconta il dramma tascabile dell’essere un emigrante) ed infine inclusione; e allo stesso modo negli ultimi anni la Germania è stata in grado di offrire asilo a più profughi che qualsiasi altro Stato europeo. Ma questa prassi virtuosa non ha scalfito gli aspetti tossici dell’identità collettiva tedesca, che rimane vincolata ad un’idea assolutamente irrealistica di gelida efficienza e di supremazia, un tempo intellettuale e militare, adesso economica e finanziaria.
I Rammstein hanno chiaro
più di molti altri questo problema, e infatti, dopo aver fatto comparire il
titolo del singolo in sinistri caratteri gotici, cantano:
“Ti si può amare
e volerti odiare
[…]
Così giovane – e pure così vecchia
Germania – il tuo amore
è una maledizione e una benedizione,
Germania – il mio amore
non posso dartelo.”
Come si può osservare, contrasta con l’estetica militarista e gli stilemi nazisti la scelta di una poetica (nel lessico e nei temi) che si rifà direttamente ai grandi poeti tedeschi di sinistra radicale. Non è difficile ritrovare nei testi dei Rammstein la poetica diretta e feroce di Bertolt Brecht, ma forse in questo testo riecheggia ancora di più il vivido immaginario di Wolf Biermann:
“Berlino, donna tedesca tedesca,
io sono il tuo pretendente,
ah, le tue mani sono così ruvide
per il freddo e per il fuoco,
ah, i tuoi fianchi sono così stretti,
come le tue larghe strade,
ah, i tuoi baci sono così insipidi
ed io non ti posso lasciare.
[…]
Berlino, donna bionda bionda,
io sono il tuo freddo cliente,
e nel tuo cielo così azzurro
è appesa la mia lira.”
Come in Biermann, l’amore per la patria è delineato come uno sgradevole obbligo morale, il frutto marcito prima di maturare di un enorme irrisolto culturale che si protrae da decadi – la canzone di Biermann è del 1965, di acqua ne è passata sotto i ponti, eppure le due canzoni trasmettono nella stessa identica maniera a sensazione di un’identità tedesca incastrata a metà della gola. Cambiano forse i toni, cambia lo stile: mentre Biermann è dolcemente mesto, i Rammstein criticano il nazionalismo implicito nella cultura tedesca attraverso una spietata parodia, attraverso l’uso di immagini scandalose e inaccettabili.
Il contenuto è il medesimo, ed è contenuto in una minima, apparentemente trascurabile modifica del classico slogan nazionalista “Deutschland über alles” (“la Germania sopra ogni cosa”), che diventa un “Deutschland über allen” (“la Germania sopra ogni persona”). Attraverso il contrasto tra un’estetica apparentemente ammiccante alle peggiori pulsioni nazionaliste (in rapida ascesa anche in Germania) e un testo di esplicita critica politica, i Rammstein portano avanti una feroce critica nei confronti non solo dell’impostazione culturale tedesca, ma anche di tutte quelle politiche (non solo di estrema destra!) che in nome dell’acquisizione e al mantenimento di un’egemonia economica (“Deutschland über alles”) si arrogano di calpestare i diritti delle persone (“Deutschland über allen”).
Non è irrilevante, in quest’ottica, il video ufficiale, con la scelta di personificare la Germania in una donna di colore; e in quanto alla rappresentazione della band come internati di un lager, l’apparente ambiguità dell’anteprima viene sciolta dal video, in cui i prigionieri si ribellano e sparano in faccia all’aguzzino nazista – di nuovo, una scelta di calcolato cattivo gusto, ma difficilmente categorizzabile come ammiccante all’estrema destra.
Da tedesco sradicato – o che ha sempre marginalizzato la sua parte di identità tedesca – questo testo mi parla a più livelli. A livello esistenziale mina non solo gli stereotipi sull’identità tedesca, ma a monte l’idea tossica di un destino vincolato alla propria identità, in questo caso nazionale (un altro tema caro alla letteratura tedesca, soprattutto in tempi di crisi: si pensi alla Loreley di Heinrich Heine, o alla struggente ballata Bald, allzubalde scritta da Ernst Brockmann nel 1916, due settimane prima di morire a Verdun). A livello politico rappresenta un manifesto antinazionalista che sbugiarda non solo il nazionalismo delle destre eversive (quello che oggi è di moda chiamare “sovranismo”, nel tentativo pietoso di fingere sia qualcosa di nuovo, e non la solita schifezza stantia che risale dalle fogne), ma anche quello apparentemente benevolo e ragionevole, delle destre liberiste, la logica della porta chiusa e dell’interesse nazionale prima di ogni altra cosa.
Con questo singolo lucido e feroce i Rammstein si confermano come un gruppo politicamente schierato a sinistra, anche se con una retorica non banale e talora poco rassicurante – qualcosa che al momento in Italia non abbiamo a disposizione, almeno a livello mainstream, e di cui avremmo un gran bisogno.
Immagine Rammstein (dettaglio)
Joachim Langeneck, assegnista di ricerca in biologia presso l’Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell’ambito dell’etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.