Questo epico capolavoro di Polanski è ormai un cult senza tempo. Quando lo abbiamo proiettato al cineforum, la gente ha fatto tante domande. Durante la proiezione la gente era concentratissima e non si aspettava una roba del genere. Il merito è tutto del regista polacco, erede (cinematografico, s’intende) di sir Alfred Hitchcock. Ne ha fatte di cotte e di crude, ha abbracciato il caos come stile di vita lasciando ben presto l’ordine. La vita di Polanski è sempre stata un gigantesco macello. La sua famiglia, di origini ebraiche, si convertì presto al cattolicesimo: i genitori si dichiararono agnostici. Tuttavia ciò non bastò: furono vittime dei campi di sterminio nazisti. Sua madre morì ad Auschwitz, suo padre riuscì a salvarsi da quello di Mauthausen. Roman Polanski ben presto divenne ateo ed iniziò a studiare teatro, recitazione e regia.
Il 1969 fu l’anno più terribile della sua vita: prima perde la vita in un incidente sciistico il compositore Krzysztof Komeda, suo abituale collaboratore, poi gli adepti della setta di Manson uccidono la moglie Sharon Tate che era all’ottavo mese di gravidanza. Lui si salvò perché all’epoca era a Londra dove stava girando il capolavoro “Rosemary’s baby”.
Non scordiamoci però che Polanski non è propriamente uno stinco di santo. Nel 1977 (aveva 44 anni) nella villa di Jack Nicholson, venne accusato di aver violentato una ragazzina di 13 anni, Samantha Geimer, sotto effetto di stupefacenti. Modella, figlia di una conduttrice televisiva. Roman Polanski venne arrestato il giorno dopo con ben sei casi di accusa: tuttavia, per proteggere anche la bambina dal dover comparire in tribunale, si scelse un patteggiamento e l’accusa di Polanski venne commutata in rapporto sessuale extramatrimoniale con persona minorenne. Il regista si dichiarò colpevole: il giudice parlò di rapporto sessuale illecito, ma mai di stupro. E in effetti la madre della Geimer era un personaggio piuttosto ambiguo, in cerca di pubblicità per far decollare la carriera della figlia. A Polanski fu chiesto anche di sottomettersi ad una perizia psichiatrica, vista la giovane età della ragazza e per questo dovette scontare 90 giorni di prigione. Al 42° giorno di detenzione, Roman Polanski uscì di galera grazie ad una valutazione secondo cui si consigliava la condizionale. Tuttavia, quando il regista seppe che il giudice non aveva nessuna intenzione di percorrere questa strada e quindi di lasciarlo in prigione, il regista scappò. Si rifugiò prima a Londra, per poi trasferirsi a Parigi: la capitale francese, infatti, non prevede l’estradizione.
Polanski figura nella “lista rossa” (red notice) delle persone ricercate dall’Interpol dal 2005. Poi nel 2009, a seguito dell’arresto e poi del rilascio in Svizzera, l’Interpol ricordava a tutti gli stati membri dell’organizzazione (Francia, Polonia e Svizzera comprese) che la red notice era sempre valida. All’uscita de “L’ufficiale e la spia” (2019), la società francese degli autori di cinema ha proposto nuove regole per i membri condannati per violenza sessuale, e l’uscita del film in Francia è stata contestata e annullata a Parigi e a Rennes in seguito a delle proteste femministe. Ora è stato estromesso dai Cesar, gli Oscar francesi. Il regista dal 2009 non può muoversi liberamente e da “Carnage” (uscito nel 2011) in poi ha fatto film in teatri di posa. Non può entrare negli Stati Uniti proprio a causa del mandato di arresto risalente ai fatti degli anni Settanta. Nonostante i vincoli, ha firmato autentici capolavori del teatro filmato come Carnage e Venere in pelliccia.
Nel 2019 altro colpo di scena: anche la fotografa, ex modella ed attrice Valentine Monnier accusò il regista di stupro. In un’intervista al Corriere della sera, Polanski disse: “A ogni mio film succede qualcosa di simile a quello che è successo nei giorni scorsi. Dichiarazioni e accuse che finiscono per creare una palla di neve che rotola e si ingrandisce sempre più. Ogni volta c’è qualcuno che mi rimprovera qualcosa. Finora non ho parlato, ma sono la sola persona che può farlo e lo farò al più presto”.
Poco dopo uscì “L’ufficiale e la spia” (recensione qui), il suo ultimo capolavoro dove è facile convenire che Picquart sia l’alter ego del calvario giudiziario di Polanski ai tempi del “caso Dreyfus”. In tal senso ci fu anche una rovente polemica al 76° Festival di Venezia (leggi qui) dove il film vinse il Gran Premio della Giuria.
Ma veniamo a Chinatown, il suo titolo sicuramente più importante. Polanski ha descritto in maniera unica l’essere umano come una torbida ossessione di tradimenti, fobie, paranoie, diavolerie varie. Eppure “Chinatown” è una sorta di film biblico. Un controsenso vero e proprio come quando il cantante Marylin Manson definì la Bibbia come “il libro più violento che abbia mai letto”.
Los Angeles, 1937. Nella megalopoli manca l’acqua. Altra piaga biblica, se vogliamo. Ufficialmente per siccità, ma non è la verità (cosa ripresa anche nel cartoon western “Rango”). Per Polanski, come per il messicano Guillermo Del Toro, l’acqua è associata al suo stato liquido, e pertanto risulta qualcosa di mutevole, indefinibile ed incontrollabile: il perfetto contrappunto di tutto ciò che afferisce alla sfera del misterioso, e spesso perfino della morte. Una relazione metaforica già impostata dal regista fin dal suo lungometraggio di debutto, “Il coltello nell’acqua” del 1962 (e ripresa successivamente anche in Frantic e ne L’uomo nell’ombra), che ritorna in Chinatown in una molteplicità di occorrenze. Innanzitutto, l’acqua è fin dall’inizio la chiave del mistero sul quale sta indagando Jake Gittes: Hollis Mulwray è al centro del clamore mediatico per la sua ferma opposizione al progetto per un nuovo bacino idrico nella San Fernando Valley, e ad innescare la vicenda è proprio la siccità che ha colpito Los Angeles; l’appostamento di Jake, per cogliere in flagrante Mulwray con la sua giovane amante, ha luogo nel laghetto di un parco pubblico; l’unica occasione in cui Polanski ci mostra un primissimo piano del volto di Mulwray è quando il cadavere dell’uomo viene ripescato dalle acque del fiume (l’acqua come elemento mortifero, appunto); l’indizio che offre la soluzione all’omicidio verrà ritrovato nello stagno della villa di Mulwray; oltre ai rimandi biblici (il diluvio universale) insiti nel nome Noah. Non stupisce dunque che l’acqua compaia più volte nelle conversazioni fra i personaggi; interrogato sulla presunta onestà di un polizotto, Jake replica serafico: “Deve nuotare anche lui nelle stesse acque in cui nuotiamo tutti”.
Come detto, l’investigatore privato Jack Gittes (Jack Nicholson in stato di grazia) infatti viene assoldato dalla signora Mulray (una magnetica Faye Dunaway) per saperne di più dell’infedeltà del marito.
Peccato che Jack scoprirà ben altro: omicidi, corruzione, gente doppia, speculazioni edilizie, incesto, il padre padrone Noah Cross (John Huston) che rappresenta (anche) il produttore di Hollywood pronto a tutto pur di fare soldi.
Jack diventa un Don Chisciotte che sbatte contro un muro di omertà, mafia, corruzione, ingiustizia, degrado e tanto squallore umano. L’uomo diventa impotente di fronte al potere.
“Lascia stare, Jack, è Chinatown” – gli ripetono in continuazione. Sembra di essere nell’Italia di oggi. Polanski innesca una bomba ad orologeria incredibile. Perchè Jack Gittes vuole andare a fondo, scoprire la verità (come Gene Hackman ne “La conversazione” di Francis Ford Coppola). Che però ha un prezzo salatissimo da pagare. Nicholson recita per gran parte con un cerotto sul naso che, per certi versi, limita le sue espressioni. Quel cerottone nasconde una ferita che, ironia della sorte, gli viene fatta proprio da Roman Polanski che fa un cameo nei panni dell’uomo col coltello che avvisa il protagonista quando arriva vicino alla verità.
“A Chinatown non si capisce mai bene quello che succede”. Perché il quartiere cinese? Perché il nostro protagonista prima di diventare investigatore privato, infatti, era un poliziotto ed aveva lavorato a lungo nel quartiere.
La storia è una guerra tra Davide e Golia. Jack lotta contro un sistema marcio dove tutti sono colpevoli e dove “i politici, i monumenti e le puttane diventano tutti rispettabili se durano abbastanza” (frase immortale e mai così vera). Non ci sono regole, c’è la legge della giungla e soprattutto quella del più forte.
Potere, denaro, tangenti, corruzione hanno sempre la meglio sugli ideali ormai repressi, mentre nessuno parla più di responsabilità (individuali o collettive che siano). Vi ricorda qualcosa? Eh sì, dovrebbe. Straordinaria anche Faye Dunaway, una dark lady mai banale, trasgressiva, ammaliante. Un personaggio scritto in maniera implacabile che ricorda Kim Novak de “La donna che visse due volte” di Hitchcock, ma che al regista ricordava sua madre. John Huston, invece, oltre a essere il padre padrone Noah Cross, rappresenta Hollywood, ma anche l’Anticristo, il Male Assoluto.
Non ci sono parole per descrivere la bellezza, ma anche la violenza sociale, politica, morale, estetica e fisica del finale dell’opera. Nella stesura originale, la sceneggiatura prevedeva l’happy end. Ma Polanski non era d’accordo: voleva un epilogo originale, non accomodato, non voleva il politically correct. In realtà il regista dava tutto il suo pessimismo verso un cambiamento. Almeno in meglio, ovviamente, perché al peggio non c’è mai fine.
Era necessaria la morte della protagonista, e suo padre non avrebbe fatto nulla per evitarla. “Sbagliato, immorale, non è la storia che ho scritto”, disse lo sceneggiatore. “Ma è proprio questo che renderebbe il film indimenticabile”, replicò il regista inflessibile. E così fu. Eccola qua la grandezza di un artista come Polanski: vedere oltre, andando controcorrente se serve.
Chinatown è coronato da una regia magistrale, fatta di scatole cinesi (siamo a Chinatown), piani-sequenza, riprese a mano, campi lunghi e primi piani, le luci delle insegne che fanno sprofondare lo spettatore nel torbido e corrotto abisso di Chinatown. In particolar modo le sequenze notturne (fotografia di John A.Alonzo) sono magistrali, immerse nelle tenebre più nere dell’animo umano.
Dopo 46 anni, questo film ha riscritto le regole del noir ed è ancora profondamente attuale. Un’autentica lezione di cinema e di vita. Tant’è che alla fine del film nella vostra testa vi rimarrà impresso per anni quel “lascia stare Jack questa è Chinatown” che ancora oggi è prassi. Magari non verrà detto così, ma il senso è quello.
Fonti: Mymovies, cinematographe, storia dei film, sentieri selvaggi, debaser
CHINATOWN *****
(USA 1974)
Genere: Thriller, Giallo, Drammatico
Regia: Roman Polanski
Sceneggiatura: Robert Towne e Roman Polanski
Fotografia: John A. Alonzo
Cast: Jack Nicholson, John Huston, Faye Dunaway, Roman Polanski
Durata: 2h e 10 minuti
Prodotto e distribuito da Paramount
Trailer originale qui
1 Oscar Miglior Sceneggiatura Originale
La frase: I politici, i monumenti e le puttane diventano tutti rispettabili se durano abbastanza.
Regia ***** Interpretazioni ***** Fotografia ***** Sceneggiatura *****
Immagine da www.auralcrave.com
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.