Se
l’ordoliberalismo, da fenomeno accademico di nicchia, può imporsi
già nell’immediato dopoguerra come la scuola di riferimento per la
programmazione economica tedesca, serviranno molti anni prima che
questa nuova dottrina possa imporsi anche a livello simbolico, che
possa essere accettata in maniera diffusa dalla società tedesca.
Il
Sessantotto rappresenterà, da questo punto di vista, un momento di
svolta. Il fallimento delle agitazioni in Germania, che culmina con
il tragico episodio dell’attentato al leader del movimento
studentesco Rudi Dutschke, significherà la fine delle speranze di
generare un movimento rivoluzionario di massa. Qualche irriducibile
passerà così a una temeraria lotta armata il cui destino sembrava
già scritto (come nel caso della RAF), mentre la maggior parte si
riallineerà con l’SPD che, già da qualche anno, col congresso di
Bad Godesberg (1959), aveva accettato l’economia di mercato e
ripudiato il marxismo.
Sarà la polizia di un governo ispirato
alle idee ordoliberali, sempre nel 1968, a sgombrare le aule
dell’Istituto per la Ricerca Sociale dove si erano asserragliati gli
studenti e i ricercatori francofortesi più radicali. Finisce così
ogni parallelismo fra le due scuole, quella di Francoforte e quella
di Friburgo: esuli sotto il nazismo, tornati in patria dopo la
guerra, gli esponenti di entrambi gli istituti hanno anche ripreso il
problema weberiano della razionalità/irrazionalità della società
capitalista, giungendo però a conclusioni opposte. Lo sgombero
dell’occupazione, che segna la vittoria degli ordoliberali sui
francofortesi, rappresenta anche il trionfo di chi ha semplicemente
cercato di ritrovare la razionalità economica del capitale per
riformare la società, piuttosto che ricercare una nuova razionalità
sociale da opporre al capitalismo.
Disarmata la critica
e le forme di opposizione più energiche, l’economia sociale di
mercato ordoliberista può ora prosperare senza eccessivi problemi.
Ma quali sono i principi economici che ispirano l’azione di governo?
Innanzitutto viene completamente ripensato da un punto di vista
epistemologico il principio di concorrenza. Secondo i liberalisti del
XIX secolo e i marginalisti il mercato può funzionare solo tramite
la piena e libera concorrenza. Ne deriva che lo stato deve astenersi
dallo svolgere qualsiasi tipo di intervento che possa spezzare il
delicato equilibrio e distorcere la condizione di concorrenza: il
motto è sempre quello del laissez faire.
Gli
ordoliberali indirizzano la loro polemica verso questa concezione
naturalistica del mercato che ritengono ingenua. La concorrenza non
si produce spontaneamente, il mercato non è un dato di natura. La
condizione di concorrenza non si realizza automaticamente in un
mercato ma può apparire e produrre i suoi effetti positivi solo se
sarà presente un certo numero di condizioni che devono essere
accuratamente e artificialmente predisposte: la concorrenza è un
obiettivo che necessita di una politica attiva, non un dato di natura
da rispettare. Da tutto questo deriva che il rapporto fra stato ed
economia non potrà essere di delimitazione reciproca di ambiti
differenti. Serve una politica attiva per produrre la
concorrenza.
«Il governo, insomma, deve accompagnare
dall’inizio alla fine l’economia di mercato. L’economia di mercato,
infatti, non sottrae qualcosa al governo, bensì indica, costituisce
l’indice generale sotto il quale dovrà venire collocata la regola
destinata a definire tutte le azioni di governo. Si dovrà governare
per il mercato, piuttosto che governare a causa del mercato»
(M. Foucault, La Nascita della Biopolitica, 3a ed.
Feltrinelli 2017, p. 112).
Emerge allora un
“liberalismo positivo” ovvero un liberismo che interviene,
che necessita di una politica estremamente attiva e che non si pone
sotto il segno del laissez faire, ma sotto il segno di una
vigilanza e di un intervento permanente. Ma come interviene?
Chiaramente non con le stesse modalità di una economia pianificata
(sarebbe la strada che porta al nazismo, come si era visto nella
prima parte dell’articolo). Non si interviene sui meccanismi o sugli
effetti del mercato: il sostegno a dei settori economici, una
politica di pieno impiego, qualsiasi investimento pubblico o
fissazione dei prezzi sono interventi rigorosamente banditi.
Quel
che conta è invece il “quadro”. La politica deve occuparsi
di tutti quegli elementi che possono ostacolare la nascita e il
funzionamento di un mercato concorrenziale. Se ad esempio mi vorrò
occupare del settore agricolo, non agisco direttamente sui dati e
meccanismi economici, non agisco sostenendo i settori meno redditizi
o sui prezzi, ma intervengo, appunto sul quadro generale: la
popolazione (se la popolazione agricola è troppo numerosa occorre
ridimensionarla), le tecniche agricole, la formazione professionale,
le leggi sull’eredità, affitto e locazione delle terre, la
concessione del suolo, persino, se fosse possibile, il clima. Attuo
cioè una serie di misure non direttamente economiche ma che
rappresentano le condizioni perché un dato ambito possa funzionare
come un’economia di mercato.
Una delle
conseguenze di questa concezione economica sta nel fatto che la
politica sociale di stampo keynesiano viene completamente ripudiata.
Se non posso intervenire sugli effetti dell’economia di mercato, è
evidente che è impossibile sostenere qualsiasi intervento volto a
correggere le distorsioni, gli effetti distruttivi e iniqui del
mercato, a ridistribuire la ricchezza, a correggere le
disuguaglianze. Una volta che lo stato crea il terreno fertile per il
prosperare del libero mercato, sarà l’economia che garantirà a
ognuno, tramite la crescita economica, uno spazio di ricchezza e
benessere relativo che gli possa permettere di coprirsi dai rischi,
di comprare una polizza assicurativa e l’accesso alla proprietà
privata.
“L’economia sociale di mercato” rappresenta
il tentativo di instaurare una politica sociale di tipo individuale,
in cui non si chiede alla società di garantire le persone contro i
rischi, ma all’economia di creare abbastanza benessere affinché sia
l’individuo che si tuteli contro i rischi esistenti. La linea di
tendenza è la politica sociale privatizzata.
Altra conseguenza, strettamente connessa a quella precedente, è che se la politica interviene non direttamente sul mercato ma sui fattori esterni che permettano di creare le condizioni di libero mercato, allora ciò significa che si rende necessario un intervento sull’ambiente sociale. La politica di quadro ha l’obiettivo di plasmare la società sulle leggi di mercato e sulla logica concorrenziale. Con le parole di Foucault:
«l’intervento di governo […] non è meno denso, meno frequente, meno attivo, meno continuo che in altri sistemi. Ma ciò che conta è vedere quale è ora il punto di applicazione di questi interventi di governo. Il governo […] non deve intervenire sugli effetti del mercato. Ma […] non deve nemmeno correggere gli effetti distruttori del mercato sulla società. Non deve fungere, per così dire, da contrappunto o da schermo tra la società e i processi economici. Deve intervenire sulla società in quanto tale, nella sua trama e nel suo spessore. Alla fine – ed è grazie a ciò che il suo intervento permetterà di conseguire l’obiettivo che si è dato, vale a dire la costituzione di un regolatore di mercato generale sulla società – , deve intervenire sulla società per far sì che i meccanismi concorrenziali, in ogni istante e in ogni punto dello spessore sociale, possano svolgere il ruolo di regolatore. […] [N]on si tratta di un governo economico, bensì di un governo della società»
(ivi, p. 128).
Con la politica di
quadro gli ordoliberali vogliono permettere il libero mercato tramite
un intervento di governo direttamente sul tessuto e sull’ambiente
sociale. Siccome il mercato è un meccanismo fragile, occorre fare in
modo che gli elementi esterni, sociali non solo rendano possibile la
libera concorrenza ma anche che si conformino alla logica
individualistica del mercato. La trasformazione più grande, rispetto
al liberismo delle origini, è che con l’ordodliberalismo emerge
l’idea che per far funzionare i principi liberisti occorre
intervenire e plasmare la società sulla falsariga del mercato.
Siamo all’anticamera delle moderne forme biopolitiche e agli
albori di una trasformazione antropologica: quell’individuo-impresa,
l’individuo-capitale umano che oggi ci appare già come un dato di
natura. Occorrerà allora, nella terza parte di questo articolo,
investigare più in profondità questi elementi, cercare di
ripercorrere quella linea che unisce teoria e pratica economica con
le trasformazioni più profonde della nostra società e della cultura
tardo capitalistica.
Pubblicato per la prima volta il 6 settembre 2017
Immagine di Lyzadanger (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.