Cosa è l’ordoliberalismo? Quale è la sua genesi? Quale funzione svolge nell’ambito più ampio del neoliberismo attuale? Porsi queste domande significa riflettere sulle più vaste trasformazioni nella logica del capitalismo contemporaneo, implica andare a scovare quella frattura epistemologica nell’arte liberale di governare che ha sancito l’emergere di nuove modalità di intendere il rapporto fra stato ed economia.
Questa analisi in tre parti prenderà le mosse dalla ricostruzione genealogica della governamentalità ordoliberale proposta da Foucault in Nascita della Biopolitica, per poi provare a trarne tutte quelle implicazioni sociali e politiche che possano aiutare a comprendere meglio certi meccanismi insiti nella dominazione capitalistica attuale, in questa “nuova ragione del mondo”, per usare un’espressione cara a Dardot e Laval, che definisce i contorni dell’ontologia socio-economica nella quale viviamo.
Il punto di partenza
per lo studio dell’ordoliberalismo può essere fissato da precise
coordinate storiche e geografiche: la Germania del dopoguerra. Come è
risaputo, il Paese era uscito a pezzi dalla Seconda Guerra Mondiale,
non solo economicamente ma sopratutto dal punto di vista
socio-politico: l’esperienza del nazismo aveva lasciato un’impronta
profonda e la legittimità e la credibilità della stato erano
completamente da ricostruire. Saranno proprio queste considerazioni
che determineranno le scelte economiche dell’élite politica tedesca
del dopoguerra.
Contrariamente infatti a quanto veniva
sperimentato in Francia, Gran Bretagna o Italia dove lo stato era
ritenuto lo strumento per rilanciare lo sviluppo economico, per gli
esponenti della classe dirigente della Germania occidentale il
problema principale da affrontare era quello di promuovere la
crescita in un contesto in cui l’autorità statale era in frantumi e
in cui qualsiasi intervento regolativo non poteva che essere visto
con sospetto, a seguito dell’esperienza nazista. In una situazione
nella quale la Germania si trova da una parte divisa e dall’altra
occupata, come ricostruire la sovranità? È proprio questa la
domanda che si stavano ponendo nell’immediato dopoguerra gli
esponenti di una scuola di pensiero che era fino a quel momento
rimasta nell’ombra: si tratta dei cosiddetti ordoliberali.
L’impulso principale alla nascita di questo gruppo di intellettuali verrà da un professore di economia politica all’università di Friburgo, Walter Eucken che già nel 1936, durante il nazismo, fonda la rivista Ordo, attorno alla quale nascerà ben presto la scuola di economisti che verrà chiamata scuola di Friburgo e che verrà anche designata come quella del gruppo degli ordoliberali.
Eucken diventa già nel 1948 uno dei principali consiglieri scientifici del futuro Ministro dell’Economia e poi Cancelliere della Repubblica Federale, Ludwig Erhard, impegnato in quell’anno nel ruolo di Direttore dell’amministrazione dell’economia per il settore anglo-americano nella Germania occupata col compito di delineare le linee guida della nuova politica economica tedesca. In questa Commissione, erano presenti altri esponenti della scuola di Friburgo come Franz Böhm e Alfred Müller-Armack, mentre un’altra personalità di grande rilievo come Wilhelm Röpke non ne farà parte, ma i suoi saggi avranno anch’essi un’influenza decisiva sulle scelte programmatiche di Erhard il quale definirà la sua politica economica, profondamente ispirata dalle concezioni ordoliberiste, come “economia sociale di mercato”, destinata a caratterizzare tutto il dopoguerra tedesco.
Erhard vede nelle teorie ordoliberiste la chiave per risolvere quel dilemma che affliggeva la classe dirigente tedesca dell’epoca, ovvero come legittimare uno stato in briciole e pressoché annientato su basi anti-dirigiste e anti-interventiste. L’analisi della scuola di Friburgo sembrava offrire una soluzione partendo da una lettura peculiare del nazismo. Secondo questi pensatori, il fenomeno nazional-socialista può essere letto come il momento di sintesi fra quattro esperienze politico-economiche tedesche del passato: il protezionismo ottocentesco, il socialismo di stato Bismarckiano, la programmazione centralizzata della Grande Guerra e l’economia pianificata di stampo keynesiano che emerge timidamente senza però imporsi nella cornice gestionale della Repubblica di Weimar.
Per Eucken e soci dunque con il nazismo
«si stabilisce una stretta coalescenza tra questi elementi diversi, che consisteva nell’organizzazione di un sistema economico in cui l’economia protetta, l’economia di tipo assistenziale, l’economia pianificata e l’economia keynesiana formavano un tutto, solidamente coerente […]. I quattro elementi che la storia economica e politica tedesca aveva fatto apparire l’uno dopo l’altro sulla scena dell’azione di governo sono economicamente connessi fra loro, e nel momento in cui si sceglie uno, non sarà più possibile sfuggire agli altri tre»
(M. Foucault, La Nascita della Biopolitica, 3a ed. Feltrinelli 2017, pp. 101-102).
Questa analisi, per
la verità molto forzata, serve agli ordoliberali per dimostrare che
qualsiasi programma economico, sia esso il New Deal di Roosevelt, il
piano Beveridge in Gran Bretagna o l’economia pianificata sovietica,
conducono tutti, di fatto, al nazismo. Una politica anche
semplicemente protezionistica non può di fatto sussistere senza
essere anche dirigista, assistenzialista e centralizzata: ogni
programma in cui lo Stato interviene profondamente nella regolazione
del mercato porta necessariamente in sé i germi della degenerazione
nazista. La differenza essenziale allora, per questi economisti, non
è tanto quella fra socialismo e capitalismo ma sta piuttosto nello
scegliere se adottare una politica liberale o una qualunque forma di
interventismo economico.
Si definiscono così i contorni di
quella che Foucault definisce “fobia di Stato” che
consiste nella paura che la macchina statale eroda fette di libertà
alla società e all’economia e che si espanda a danno di queste
ultime. Secondo gli esponenti della Scuola di Friburgo infatti, lo
stato richiede continuamente nuova statalizzazione. L’interventismo
porta a una sempre maggiore richiesta di stato: più quest’ultimo
organizza l’economia, più necessita di farlo. Intrinseca a ogni
forma di interventismo, è una necessaria crescita dello stato su se
stesso.
Non meno forzata è
un’altra lezione che gli ordoliberali traggono dall’esperienza
nazista. Secondo questi economisti, il nazismo aveva ripreso molte
delle critiche mosse nei confronti del capitalismo che iniziavano a
emergere già agli inizi del Novecento. In particolare in Germania,
Sombart fu uno dei pionieri di una analisi che imputava al
capitalismo di aver creato una società di massa, omologata,
calcolatrice, consumista, concezione questa che verrà poi ripresa e
approfondita dalla Scuola di Francoforte. Ebbene, tutto questo era
stato utilizzato anche dai nazisti ed è proprio tramite un severo
rimprovero a molti aspetti della società borghese che le idee di
Hitler hanno potuto far presa e imporsi. Ma cosa è stato in realtà
il nazismo? Non è forse vero che Hitler e i suoi seguaci non abbiano
fatto altro che non accentuare proprio queste caratteristiche,
erigendo uno società di massa che mira solamente a uniformare e a
normalizzare, “una società di segni e di spettacoli”?
Si può essere per molti versi d’accordo con questa analisi, ma
quale lezione traggono gli ordoliberali da queste premesse? Secondo
loro questi elementi di degenerazione non sono, contrariamente a
quanto pensavano Sombart e i nazisti, peculiari della società
capitalista borghese, bensì il prodotto e l’effetto di una società
che ha scelto, come il nazismo, una politica interventista e di
pianificazione in cui il mercato non svolge alcun ruolo e in cui è
lo stato che si fa carico della vita degli individui.
Nella
prospettiva ordoliberale insomma «nulla dimostra che l’economia
di mercato abbia dei difetti, nulla prova che sia portatrice di una
intrinseca deficienza, perché tutte le carenze e le conseguenze
delle sue lacune dovrebbero essere in realtà attribuite allo stato»,
come l’esperienza nazista metterebbe in luce.
Questa enorme
forzatura teorica è importante nella misura in cui gli ordoliberali
la adducono come motivazione per promuovere un programma economico
che non si limita a riproporre le vecchie idee del liberismo del XIX
secolo. Non si tratta più di stabilire dei confini e delimitare gli
ambiti entro cui lo stato non deve intervenire nell’ambito economico.
La questione non è più distinguere dove inizia la libertà del
mercato e dove finisce l’intervento dello stato, problema che
troviamo in Smith, Ricardo o Mill, bensì di pensare al mercato come
strumento che costruisce ed edifica lo stato secondo una logica
economica.
Con le parole di Foucault:
«[si esige]
dall’economia di mercato molto di più di quanto le era stato
richiesto nel XVIII secolo, allorché le si chiedeva di dire allo
stato che da un certo limite in poi […] esso non sarebbe più
potuto intervenire. Ma non è ancora abbastanza, dicono gli
ordoliberali. Dal momento che è accertato che lo stato è portatore
di una intrinseca difettosità, mentre nulla prova che l’economia di
mercato abbia simili difetti, chiediamo all’economia di mercato di
fungere, di per sé, non tanto da principio di limitazione dello
stato, bensì da principio di regolazione interna dello stato, in
tutta l’estensione della sua esistenza e della sua azione […].
Detto altrimenti: uno stato sotto la sorveglianza del mercato,
anziché un mercato sotto la sorveglianza dello stato»
(ivi,
p. 108).
Questo rovesciamento
di prospettiva risulterà fondamentale per risolvere il problema che
emerge nell’immediato dopoguerra: la legittimazione dello stato
tedesco può ora avvenire su basi completamente nuove. Sarà la
libertà di mercato ad essere il principio e il modello di un stato
che deve rinascere dalle sue ceneri. Si tratta di un cambiamento
epocale nella governamentalità, nell’arte di governo liberale i cui
effetti giungono fino a noi. Si tratta di pensare alla libertà
economica come innesco per la formazione di una sovranità politica:
l’economia è creatrice di diritto pubblico.
Ma non è tutto,
infatti:
«la libertà che questa istituzione economica ha il
compito di assicurare e di mantenere sin dall’inizio produce qualcosa
di più reale, di più concreto e di più immediato che una semplice
legittimazione di diritto. Essa produce un consenso permanente e
precisamente il consenso sempre rinnovato di tutti coloro che
compaiono come agenti all’interno dei processi economici. Agenti a
titolo di investitori, agenti a titolo di operai, di padroni, o di
sindacati. Tutti questi soggetti dell’economia, nella misura in cui
accettano il gioco economico della libertà, producono un consenso
che è un consenso politico. […] Lo Stato ritrova la sua legge – la
sua legge giuridica – e il suo fondamento reale, nell’esistenza e
nella pratica della libertà economica. La storia aveva detto di no
allo stato tedesco, ma d’ora in poi sarà l’economia a consentirgli
di affermarsi»
(ivi, pp. 82-83).
Tramite questo spostamento ideologico, tramite questa ridefinizione del liberalismo il progetto di Erhard diventa possibile. Non si tratta di chiedere allo stato quanto libertà lascerà all’economia ma di chiedere all’economia in che modo la sua libertà avrà un ruolo nel fondare lo stato. È questa la genesi concettuale della Repubblica Federale Tedesca.
Continuando a seguire l’analisi foucaultina occorrerà, in un prossimo articolo, occuparci di come concretamente gli economisti ordoliberali, apportando dei cambiamenti profondi nella dottrina liberale, abbiano ridisegnato l’assetto istituzionale della Germania a partire dalla loro concezione del principio di concorrenza e della politica di quadro.
Pubblicato per la prima volta il 31 agosto 2017
Immagine Archivio Federale Tedesco (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.