Pubblicato il 18 febbraio 2016
Se da Manhattan prendete l’interstatale 87 in direzione di Albany, nel nord, dopo poco più di sessanta chilometri e meno di un’oretta di viaggio, vi imbatterete, ormai fuori dall’agglomerato urbano di New York, nei pressi di un piccolo insediamento disposto attorno a un laghetto, a sua volta incastonato fra la Sterling Forest e il Palidades park, in una delle zone naturalistiche più belle dello Stato: è qui che si trova Tuxedo Park, una amena comunità di circa 900 persone, per decenni la residenza prediletta dalle elite newyorkesi.
Pace, serenità, prestigio, sicurezza sono le caratteristiche principali di una località da fiaba di circa 330 lussuose ed eleganti case dove i residenti possono permettersi di pagare senza batter ciglio i circa 20,000 dollari della retta annuale della super-accessoriata scuola privata elementare e media o l’altrettanto astronomica cifra della quota di iscrizione al club sportivo locale, dotato di campi da golf, tennis, squash, piscine e molto altro[1]. Ma non sono certo queste le caratteristiche che rendono questo incantevole villaggio residenziale così raffinato ed esclusivo: lo sono piuttosto le mura che lo circoscrivono e le poche via di accesso sorvegliate 24 ore su 24 da guardie private con l’ordine di impedire l’accesso a chiunque non faccia parte del paese o non sia stato invitato.
Quello di Tuxedo Park è uno dei più visibili casi, ma non certo l’unico, dell’ascesa di un nuovo modello organizzativo nella pianificazione urbana. Le mura, ritenute sempre più incompatibili con le città già dalla fine del Medioevo, tornano prepotentemente in auge. Ma oggi non demarcano più intere città, bensì singoli quartieri, rendendo il tessuto urbano una costellazione di fortificazioni sparse a macchia di leopardo. Nella contemporaneità, attraversata da conflitti sociali latenti e da contraddizioni economiche crescenti, il nemico da tenere fuori dalle porte non è un esercito di invasori stranieri, bensì un’armata in espansione di poveri, proletari, disperati lasciati indietro dalla globalizzazione e dall’impatto delle grandi riforme neoliberiste e ora tagliati fuori anche geograficamente. Chi può, si chiude nella propria comunità di destino, condivide l’esistenza solo con chi possiede un tenore di vita simile al suo, sostituendo sempre più al concetto aperto di cittadinanza, quello chiuso di ceto.
Questa segregazione, una segregazione volontaria di una parte della popolazione, quella più abbiente, rispetto al resto della collettività tramite forme sempre più radicali di demarcazione di confini, è un fenomeno che prende vigore a partire dagli anni Ottanta ed è in continua espansione. Gli studiosi parlano di Gated Communities: interi quartieri recintanti o circoscritti da mura che spuntano come funghi all’interno di una società sempre più polarizzata e classista. L’occidente sembra così riscoprire forme arcaiche di differenziazione sociale, in cui la disuguaglianza di classe viene ricalcata continuamente dalle sempre più estensive e concrete forme di demarcazione spaziale. Come nei visionari romanzi di Ballard[2], ad essere evocate sono immagini distopiche di reclusione, controllo, polarizzazione e alienazione urbana.
Ma cosa sono le gated communities, una delle più controverse novità di sviluppo urbanistico degli ultimi decenni? Nel loro seminale studio “Fortress America”, gli esperti di politiche urbane Blakely e Snyder le definiscono come
“aree residenziali ad accesso ristretto che rende privati gli spazi che normalmente dovrebbero essere pubblici. L’accesso è controllato da barriere fisiche, perimetri recintati o dotati di cinta muraria ed entrate sorvegliate o sbarrate da un cancello. Le gated communities includono sia le nuove zone abitative, sia le più vecchie aree residenziali che si sono successivamente dotate di barricate e recinzioni. Rappresentano un fenomeno differente rispetto a quello di un appartamento o di un condominio con sistemi di sicurezza e portieri. In quest’ultimo caso, infatti, un guardiano preclude l’accesso pubblico solo alla lobby o ai corridoi, ovvero allo spazio privato all’interno di un edificio. Le gated communities invece precludono l’accesso pubblico a strade, marciapiedi, parchi, spazi aperti e campi da gioco”[3]
Con le gated Communities si ha dunque un processo di radicale privatizzazione spaziale. Il settore pubblico che da trent’anni sta subendo un arretramento netto rispetto alle sue prerogative tradizionali ed è in grossa difficoltà anche dal punto di vista ideologico, rinuncia sempre più alla gestione dei beni comuni e delle infrastrutture urbane, rendendo una vana promessa quel “diritto alla città” che Henri Lefevre riteneva componente essenziale del progresso umano[4]. Con le gated communties si svela tutta l’ipocrisia di un sistema che promuove la libertà di movimento delle merci, dei capitali e delle persone come diritto universale ma che in realtà non esita a colpire la più basilare e quotidiana possibilità di accesso: quella ai parchi, alle strade, ai marciapiedi, tollerando e addirittura assecondando una gestione privata di spazi che dovrebbero essere aperti a tutti.
Chi tende a minimizzare il fenomeno, si nasconde dietro il fatto che le gated communities non sono un fenomeno recente. Esempi di gated communities possono essere effettivamente rintracciati lungo tutto il corso della storia moderna europea, soprattutto durante l’epoca delle grandi conquiste coloniali. In questo contesto i quartieri circondati da recinzioni e protetti da barriere fisiche erano l’unico modo per garantire l’incolumità ai cittadini europei presenti nei territori colonizzati di Africa, Asia, America. Anche in Europa, poteva accadere che le grandi aristocrazie si scegliessero un posto isolato e protetto dalla gente comune come dimora.
Ma se è vero che le gated communities sono sempre esistite, è altrettanto vero che fino a pochi decenni fa il fenomeno è rimasto estremamente circoscritto e confinato a una piccolissima élite o a categorie molto specifiche di individui. È solo a partire dagli anni ottanta che si assiste a una vera e propria impennata di quartieri dotati di recinzione o circondati da mura, sia che si tratti di quelli di nuova costruzione che di vecchi nuclei abitativi a cui sono state successivamente aggiunte forme di protezione dall’esterno.
Il fenomeno è particolarmente evidente in molti paesi dell’America Latina come Argentina e Brasile e nel Sud Africa post- apartheid[5] ma assume un carattere dirompente esclusivamente negli Stati Uniti, dove la crescita vertiginosa delle gated communities ha costituito un fenomeno sociale ampiamente diffuso e anche discretamente studiato e dibattuto nel ambiente accademico e nei principali giornali nazionali.
Sebbene sia difficile inquadrare il fenomeno dal punto di vista qualitativo a causa della mancanza di dati statistici precisi e aggiornati, l’American Housing Survey stima in 11 milioni (quasi il 10%) i nuclei familiari (households) che vivevano in gated communities nel 2009[6]. Il trend, che vede una crescita progressiva dai 2,5 milioni della fine degli anni Novanta, ai sette milioni del 2001, riflette una tendenza sempre più popolare e diffusa: optare per una gated community sembra ormai non più riguardare sotto la classe abbiente americana e l’alta borghesia ma anche e in misura sempre crescente ampi strati della classe media americana.
“L’ideologia” si sta dunque diffondendo a passi molto rapidi ad altri strati sociali e ad altre regioni geografiche. In Europa, nonostante il numero di gated communities non si avvicini neppure lontanamente a quello americano, la tendenza all’auto- isolamento da parte delle élite del Vecchio Continente sta diventando una moda a dir poco contagiosa. Dagli anni Novanta, in tutti i paesi europei sono sorte decine di gated communities, con una crescita maggiore nei paesi dell’Europa occidentale che in quelli dell’ex blocco sovietico[7].
I ricercatori Atkinson e Flint rintracciano circa 1000 gated communities presenti sul territorio dell’Inghilterra, uno dei paesi Europei più estensivamente caratterizzati dall’ascesa di questa nuova concezione urbanistica[8]. Anche l’Italia, seppure in misura molto inferiore, deve fare i conti con l’emergere del fenomeno, come dimostra l’esempio di Cascina Vione nel milanese o La Pineta di Arenzano[9]. Alla data attuale, non vi è praticamente alcun paese al mondo privo di gated communities.
Ma cosa si cela dietro l’ascesa di questo fenomeno? Cosa spinge le classi agiate e medie a cercare rifugio entro queste zone fortificate? La prima e più immediata risposta che sociologi, antropologi e studiosi di politiche urbane hanno trovato, analizzando il fenomeno, ha a che vedere con la crescente paura di queste fasce della popolazione nei confronti della criminalità. Uno dei fattori trainanti è dunque la volontà di cercare una zona tranquilla e protetta rispetto alla delinquenza e ai problemi sociali di violenza e malavita intrinseci nella vita di metropoli. Non importa che in realtà negli Stati Uniti e nei principali paesi sviluppati il tasso di criminalità sia in netta e costante diminuzione: fintanto che la paura sarà socialmente costruita e culturalmente e mediaticamente associata a fattori etnici o a fenomeni come la migrazione, ci saranno un gran numero di individui pronti a pagare di più pur di abitare in un quartiere circondato da mura[10]. Ironia della sorte, le poche ricerche condotte fino a questo momento mettono in luce come in realtà, fatto salvo per piccoli reati minori, non si registrano differenze sostanziali nei tassi di criminalità fra zone protette da mura e quartieri tradizionali[11].
La ricerca dell’antropologa Setha M. Law su due gated communities, una a San Francisco e una a New York, mostrano chiaramente come optare per una gated community sia una scelta che è spesso mossa dal desiderio di proteggere se stessi, la famiglia e la proprietà da pericoli percepiti come soverchianti e su cui non si ha nessun controllo. Le mura in questo caso, rappresentano solo ciò che rende visibile e concreto il sistema di esclusione che è già nelle rappresentazioni mentali di queste persone.
Law mette in evidenza come la paura non sia tanto legata a una effettiva e informata presa di coscienza nei confronti della criminalità nel proprio quartiere, né generalmente le persone hanno la minima idea di ciò che è razionalmente pericoloso nel loro contesto urbano e ciò che non lo è. Piuttosto, come risulta dalle interviste, gli abitanti delle gated communities affermano che nel loro quartiere precedente non si sentivano sicuri perché esso ormai “non è più come era un tempo”: la paura del crimine è dunque generalmente legata allo spaesamento di fronte alle rapide trasformazioni sociali e urbane, oltre che ai fenomeni migratori. Appare evidente come lo sfaldamento della comunità originale, omogenea su base etnica e professionale, venga percepito automaticamente come sinonimo di pericolo e incertezza e generi quella paura della criminalità che poi porta a optare per acquistare un appartamento o una casa in una gated community, in cui, seppure in maniera fittizia, si ricrea “in laboratorio” quella comunità originale di “persone perbene”, ovvero per lo più bianche e benestanti[12]. Riesumando il tradizionale senso di comunità e di intimità della piccola città, la gated community è dunque scelta perché sembra offrire un ambiente tranquillo, in cui gli abitanti condividono la stessa classe sociale e gli stessi valori, potendo sfuggire al caotico melting pot multietnico che obbliga sempre a mettersi in gioco e a incontrasi con la diversità. In molti casi allora, l’omogeneità etnica e sociale tipica delle gated communities è la risposta xenofoba alle trasformazioni sociali.
Occorre inoltre mettere in risalto come le gated communities vengano viste come soluzioni abitative molto attraenti anche per via del prestigio che si ottiene nel viverci dentro, fattore che è estremamente legato a una rappresentazione collettiva che si sta affermando nel mondo occidentale sempre più elitista e classista, in cui l’auto- segregazione rispetto al meno abbiente è vista, in barba ai principi di cittadinanza e fratellanza, come una cosa tanto eticamente corretta quanto esteticamente elegante. Non è un caso che in una gated community un appartamento venga a costare anche il 30 o 40% in più rispetto che in un quartiere normale. Riassumendo, si può dire che lo stile di vita tranquillo della piccola comunità, il senso di sicurezza e il prestigio o status sociale sono le tre principali motivazioni che spingono a indirizzarsi verso una gated community, secondo la classificazione di Blakely and Snyder[13].
Alle motivazioni individuali, è necessario aggiungere quelle socio-economiche. L’ascesa delle gated communities non è solo l’esito di una scelta individuale ma è sempre veicolata da fattori esterni di natura politica ed economica. Come mette bene in luce il geografo Joe Morgan, per i costruttori e le grandi compagnie edilizie, le gated communities sono un’ottima possibilità di investire su blocchi residenziali dal più alto valore di mercato e rendimento, mentre per molte amministrazioni locali quella delle gated communities è una strategia che risponde al mantra liberista della riduzione della spesa pubblica: se la manutenzione, la gestione e il controllo di strade e parchi è affidato alle forze dell’ordine private ingaggiate dagli abitanti della comunità, si abbassano i costi per la municipalità. Inoltre, il bilancio dell’amministrazione locale potrà beneficiare di un incremento delle entrate fiscali grazie all’aumento del valore di proprietà delle case[14]. Il fenomeno delle gated communities, quindi, mette in atto un fenomeno di radicale svendita del patrimonio pubblico. Sebbene non ci sia nulla che giustifichi il diritto di una comunità urbana di escludersi dal resto della società e dalle norme del diritto statale, di fatto si assiste al divieto di accesso dei non residenti allo spazio pubblico dentro i confini della gated community. In questo processo le autorità pubbliche, invece che opporsi a questa tendenza privatista, la assecondano e la ergono a paradigma di una gestione più capillare ed efficiente del territorio.
Come nel caso della gentrificazione, quello delle gated communities, lungi dall’essere un fenomeno di autonoma scelta individuale, è sempre l’esito di una combinazione di molteplici fattori, non ultimi i movimenti del capitale edilizio, sempre alla ricerca di nuovi investimenti fruttuosi, e le politiche neoliberiste delle amministrazioni locali, schiacciate su un paradigma ideologico che interpreta la privatizzazione come la panacea di tutti i mali.
Risulta inoltre fondamentale tenere in considerazione un altro aspetto che non può essere sottovalutato, ovvero la militarizzazione dello spazio urbano: mura, cancelli sorvegliati, telecamere di sicurezza, guardie, fanno tutte parte di un più ampio progetto di realizzazione della “città fortezza”, in cui il controllo capillare riguarda tanto gli abitanti dentro quanto quelli fuori dalla gated community, controllo che viene ideologicamente reso accettabile dall’esigenza di dover garantire sicurezza e tranquillità. Mura e barriere, la separazione di quartieri, restrizioni, parchi pubblici accessibili solo ai residenti impongono un sofisticato dispositivo di disciplinamento spaziale: rimanere nella propria area adibita, non sconfinare, sono imperativi morali che vengono continuamente riproposti da un’architettura urbana oppressiva e coercitiva.
Gli effetti di lungo termine delle gated communities sulle città e sulla società in generale sono ancora da investigare con attenzione. Sicuramente i danni di queste nuove modalità abitative hanno a che fare in primo luogo con la distruzione del tessuto cittadino tramite la cancellazione di precedenti vie di comunicazione, situazione che crea problemi all’uso di spazi urbani e rende più inefficiente o costoso le forme di trasporto pubbliche e private. Oltre a questi problemi tecnici, il rischio maggiore è quello di una perdita della solidarietà, ovvero del senso di appartenenza a una collettività. Rifugiarsi nella comunità/quartiere, nell’idea di poter vivere in un’isola di pace nel mare del caos urbano, crea una società frammentata. La stratificazione sociale, già fortemente accentuata dalle spinte neoliberiste, viene fisicamente riproposta, riconfermata e rafforzata dalla presenza di mura e barriere[15]. Più che un paradiso per i benestanti, le gated communities potrebbero avere l’effetto di esacerbare le differenze di classe.
Inoltre, il prestigio di vivere in una gated community, ha l’effetto di creare una stigmatizzazione nei confronti di quelli che ne sono esclusi alimentando, de facto, un meccanismo di ghettizzazione. Per questi ultimi, vivere in quartieri urbani segregati, determina minori possibilità di ricevere educazione di qualità, minore opportunità di trovare impiego e una più scarsa possibilità di mobilità sociale.
La città nel suo complesso sta rischiando di diventare la somma di una serie di “parchi a tema”, una manciata di isole di felicità, prosperità, ricchezza e benessere, costruiti attorno a strutture ricreative e a aree residenziali di prestigio, dal quale però i più poveri sono di fatto esclusi.
Le gated communities rappresentano un fenomeno relativamente recente e in grande espansione. Dietro la narrazione mainstream che le vede come una soluzione urbanistica efficiente per abbattere i tassi di criminalità, ricreare un tessuto comunitario, generare nuove forme ibride di rapporti fra privato e pubblico tali da permettere maggiori profitti per il primo e minori costi per il secondo, in realtà tradiscono l’esigenza delle classi dominanti di rimarcare e rafforzare simbolicamente la loro diversa posizione di classe, di svilire ancor più il ruolo del settore pubblico, di generare nuove forme di segregazione e di implementare strategie di controllo più capillari e raffinate.
cfr. New York Times (2000), “If You’re Thinking of Living in Tuxedo Park”; Forbes (2012) “America’s Most Exclusive Gated Communities”; vedi anche www.tuxedoparkschool.org/tuition ↑
James Graham Ballard ha ambientato due dei suoi romanzi fantascientifici in gated communities: si tratta di “Running Wild” e di “Super-Cannes” ↑
E. J. Blakely & M.G. Snyder, (1997) “Fortress America: Gated Communities in the Unites States” ↑
- H. Lefebvre (1968) “Il Diritto alla Città” ↑
Varie ricerche prendono sotto esame l’emergere di gated communities in questi paesi: in particolare, per un’analisi più approfondita della situazione in Sud Africa e Brasile si rimanda a K. Landman & M. Schönteich (2002) “Urban Fortresses: Gated Communities As A Reaction To Crime”, in Argentina e sempre in Brasile, M. Coy e M. Pöhler, “Gated Communities in Latin American Megacities: Case Studies in Brazil and Argentina“. ↑
American Housing Survey (2009): https://www.census.gov/prod/2011pubs/h150-09.pdf; dato che la media di persone entro un nucleo familiare è di circa 2,5, secondo le statistiche del censimento, si può ipotizzare che oltre 25 milioni di americani vivano in gated communities. Il fenomeno è particolarmente evidente negli stati del sud e nelle grandi aree urbane di Los Angeles, Houston e Dallas. ↑
A. Csizmady (2011), “Conflicts Around Gated Communities” ↑
R. Atkinson & J. Flint (2004), “Fortress UK? Gated Communities, the Spatial Revolt of the Elites and Time-Space Trajectories of Segregation” ↑
Porcu M. (2013), “Quartieri Privati: Stato dell’Arte e Prospettiva di Ricerca” ↑
Su la “cultura della paura” mediaticamente costruita nei confronti del crimine in cui tassi sono in realtà in diminuzione vedi B. Glassner (1999) “The Culture of Fear”. Anche recentemente, negli Stati Uniti i crimini violenti sono diminuiti da circa 1,800.000 casi (1995) a meno di 1,200.000 (2014). Fonte: www.fbi.gov. ↑
Cfr. L.A. Addington & C. M. Rennison (2013) “Keeping the Barbarians Outside the Gate? Comparing Burglary Victimization in Gated and Non-Gated Communities” ↑
S. M. Law (2001) “The Edge and the Center: Gated Communities and the Discorurse of Urban Fear” ↑
E. J. Blakely & M.G. Snyder, (1997) “Fortress America: Gated Communities in the Unites States” ↑
L. J. Morgan (2013), “Gated Communities: Istitutionalizing Social Stratification” ↑
Le Goix & Vesselinov mostrano come l’omogenità delle Gated Communities si traduca in maggiore segregazione: vedi R. Le Goix & E. Vesselinov (2014) “Inquality Shaping Processes and Gated Communities in US Western Metropolitan Areas” ↑
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Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.