Fuori gli USA dal consiglio ONU per i diritti umani
Il 19 giugno l’ambasciatrice degli Stati Uniti all’Onu, Nikki Haley, ha annunciato ufficialmente l’uscita del suo Paese dal Consiglio per i Diritti Umani. La scelta, nell’aria già da diverso tempo, è stata motivata con l’accusa di ipocrisia da parte di un organismo eccessivamente schierato contro Israele e silente invece verso quelli che una volta George W. Bush avrebbe definito gli “Stati canaglia”, che la Haley e il Segretario di Stato Pompeo si sono premurati di elencare (parzialmente?): Iran, Russia, Cina, Cuba, Egitto, Venezuela, Congo.
Pompeo ha aggiunto anche qualcosa di più minaccioso, ossia che il ritiro dal Consiglio non significa che gli Stati Uniti si ritirino dall’impegno per i diritti umani.
Sulla scelta di rottura degli Stati Uniti e il suo significato si confrontano questa settimana le nostre dieci (dodici) mani.
Partiamo dai fatti. Gli Stati Uniti d’America sono stati membri del Consiglio per i Diritti Umani (UNHRC) delle Nazioni Unite dal 2016 a questo 2018. Come la posizione di altri Stati del cosiddetto occidente e di Israele, la posizione statunitense nei confronti dell’UNHRC è sempre stata virulentemente critica: USA ed alleati, infatti, criticano all’organismo un presunto bias pro-Palestina e una altrettanto presunta sordità alle richieste di sicurezza di parte israeliana. È questa, in poche parole, la questione che ha spinto gli USA trumpiani a lasciare UNHRC e UNESCO (nel 2017), e che ritorna nell’altezzosa sufficienza con cui gli inviati americani parlano dell’ONU in generale.
Ogni atto politico, per quanto apparentemente estemporaneo, ha una storia. L’Occidente delegittima, ignora o più direttamente sabota l’ONU da quando al consesso delle Nazioni Unite hanno iniziato ad accedere sempre più Paesi sorti dalla decolonizzazione, che – pur nella sproporzione dei mezzi, e pur con lo scacco dell’antiquata composizione del Consiglio di Sicurezza e del suo anacronistico potere di veto – hanno iniziato ad usare l’arena dell’Assemblea Generale e la sua apparente democraticità per ottenere qualche vittoria diplomatica. Anche gli spettatori occidentali più distratti hanno presenti i numerosi voti contro il Bloqueo statunitense di Cuba. La condotta di Israele, specialmente da quando al governo sono ascese forze riconducibili alla destra sionista-revisionista, e la recente linea trumpiana di sostegno ad Israele senza se e senza ma, non hanno fatto che precipitare una situazione già compromessa.
Su un piano più filosofico, i diritti umani come concetto e come realizzazione nelle varie Dichiarazioni e Carte del XX secolo hanno criticità che non vale la pena evidenziare per l’ennesima volta. Basti ricordare che la proposta dell’American Anthropological Association – avanzata in fase di stesura – di inserire alcune clausole nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 sul rispetto delle differenze culturali e sulla necessità di declinare i principi generali della Dichiarazione nei contesti particolari, clausole che avrebbero stemperato l’evidente etnocentrismo occidentale del documento, venne sdegnosamente respinta.
Stupisce però, nel dibattito attuale, che la critica sul piano filosofico-politico al concetto di diritti umani rimanga ad un livello eminentemente aprioristico ed apolitico, non riconoscendo la centralità che – per fortuna o purtroppo – concetti e linguaggi legati alla sfera dei diritti umani hanno nel discorso contemporaneo. Se a chi intende brandire i diritti umani per propugnare i propri interessi, come spesso hanno fatto gli Stati del cosiddetto Primo Mondo, si risponde che i diritti umani non sono un piano di discussione valido si ha la certezza di risultare ininfluenti e incapaci di opporsi alle palesi ipocrisie del Nord del mondo.
Stupisce anche, in chiusura, vedere evocati, contro l’incubo di un pianeta gestito da “poliziotti del mondo” sulla base di dubbi principi, certi pensatori la cui produzione andrebbe perlomeno contestualizzata. È abbastanza tragicomico, per esempio, vedere concetti forgiati da Carl Schmitt – dal Nomos al concetto discriminatorio di guerra – spacciati un tanto al chilo, completamente separati dalla coscienza che, lungi dall’essere il paladino di un ordine di Stati liberi forse conservatore ma tutto sommato giusto, il filosofo del diritto che li ha coniati ha avuto più di una responsabilità nel sostenere un’entità politica aberrante, profondamente e fondamentalmente antistatale e antigiuridica, che alla sovranità preferiva la sottomissione universale. Ma il ragionamento e la contestualizzazione sono in Italia, da qualche tempo, apparentemente fuori moda.
Piergiorgio Desantis
La destra americana (ricollegandosi al liberismo anni ’80 della Reagan e della Thatcher) si caratterizza per innovare linguaggi e relazioni.
In politica internazionale, in particolare, l’amministrazione Trump abbandona tutta una serie di organismi o di accordi internazionali (consiglio Onu per i diritti umani, Unesco, trattato di Parigi sull’ambiente, accordo sul nucleare iraniano), in ciò producendo un’innovazione o una reazione (a seconda dei punti di vista), solitamente aggiungendo come scusa la pregiudiziale israeliana.
Non importa alla maggioranza dell’opinione pubblica il contenuto delle scelte effettuate ma interessa e intriga il piglio decisionista, arrogante e rivolto a portare giovamento esclusivamente alla propria nazione (America first); nulla di nuovo in effetti (si sentono, a volte, gli echi di discorsi simili pronunciati nella prima metà del secolo scorso). È necessario mettere nel mirino un nemico (gli immigrati, la Cina etc.) di facile, quasi banale comprensione, mentre non si mette in discussione il sistema economica né i rapporti di produzione.
Questa spregiudicatezza nel rompere i cosiddetti tabù accomuna anche tutte le destre occidentali, come si vede nostro malgrado anche in Italia per la questione dell’immigrazione (per il momento).
La Sinistra (in tutte le sue declinazioni), invece, è percepita paladina dello status quo (come in effetti si è mostrata negli ultimi trenta) e, nella migliore delle ipotesi, di resistenza di un mondo ormai passato o, comunque, inutile e polverosa.
In tema di diritti umani purtroppo la sinistra è fortemente intrappolata nella visione egemone. Un esempio è l’aver creduto all’Onu come intermediario credibile nelle politiche internazionali. Nulla di più insensato se si pensa che tale organizzazione ha avallato la più cieca barbarie imperialista statunitense senza batter ciglio. Infatti le neoguerre che hanno insanguinato la storia dell’ultimo trentennio sono state giustificate proprio grazie al monopolio della giustizia internazionale ottenuto dagli Stati Uniti grazie all’Onu, che tra l’altro ha basato tutta la sua narrazione bellicosa sul rispetto dei diritti umani.
Gli Stati Uniti di Trump non hanno più bisogno di simili narrazioni e proprio per questo hanno disconosciuto l’Onu in tema di diritti umani. Ottimo per chi voglia finalmente aprire gli occhi. Era inutile e dannoso avere un arbitro parziale come il Consiglio dei Diritti Umani. Purtroppo per i dannati della terra però non si tratterà necessariamente di una buona notizia perché le pulsioni più disumane dell’imperialismo verranno estremizzate e con ogni probabilità verrà data carta bianca a Israele per fare ciò che vuole dei palestinesi (tanto la Palestina non verrà più riconosciuta). L’unica speranza è che chi credeva che gli Stati Uniti fossero un posto in cui i diritti umani inalienabili venivano pienamente rispettati per cui si potevano ergere ad arbitro universale del Bene e del Male si sveglierà.
Con questa mossa la maschera buonista l’Occidente l’ha calata definitivamente e non avrà più finti atti notarili ad attestare la giustezza delle proprie azioni. Sta a noi decidere se continuare ad abbeverarci alla fonte kantiana dei diritti universali dell’uomo oppure iniziare a ribaltare l’orrore che abbiamo di fronte. In guerra l’umanità viene cancellata, ma dobbiamo essere consapevoli che l’imperialismo è in guerra e noi siamo in guerra contro l’imperialismo.
Dmitrij PalagiDiciamoci la verità. Le Nazioni Unite sono un agglomerato di politicamente corretto e falsi buoni sentimenti. La stessa politica internazionale non è altro che una forma di ipocrisia, per stati pavidi e spaventati dalla guerra, dimensione propria dell’uomo.
La globalizzazione illudeva l’occidente di un futuro fatto di pace, invece il mercato non può che basarsi sulla dinamicità del conflitto per la distribuzione delle risorse. Anche i comunisti dovrebbero pensarla così, quando ragionano di classi sociali contrapposte.
Ruttate dunque di fronte a chi si commuove per i barconi dei trafficanti del mare finanziati da Soros.
Bene ha fatto Trump a portare fuori gli Stati Uniti dallo Human Rights Council. Invece che pensare ai problemi veri delle persone, questo gruppetto di faziosi burocrati, dal chiuso delle loro stanze di vetro, ha battuto un corposo report sulle condizioni di disuguaglianza nella Patria della Libertà (qui). La ricchezza si baserebbe sull’iniquità. Ne avevo persino già scritto io, da pseudo-comunista quale sono, recensendo un libro qui.
Bloccando qui il tono volutamente surreale utilizzato, è chiaro, per chi segue il conflitto israelo-palestinese, quando incostitenti siano alla fine i documenti e le posizioni delle Nazioni Unite. Altrettanto vero è che la retorica del diritto internazionale e dei diritti umani diventa spesso un modo per negare altre questioni sociali fondamentali, senza le quali nessun individuo potrebbe vivere (poiché esso è sempre inserito in qualche società).
Il rispetto delle regole di cui si fa beffe Trump ha come minimo un precedente in Bush jr.: quest’ultimo si giustificò con gli attentati delle Torri Gemelle, l’attuale inquilino della Casa Bianca abbraccia la coperta della crisi economica, dopo la narrazione dell’epoca Obama.
Una sinistra di classe dovrebbe essere capaci di sfruttare le contraddizioni di chi denuncia le disuguaglianze del sistema, illudendosi di poterle ridurre a note a margine di un sistema altrimenti funzionale al benessere.
Collegare i diritti umani alle condizioni sociali.
Non finire per simpatizzare per Trump, perché così finalmente ci sentiremo un po’ meno soli a denunciare l’ipocrisia del mondo liberal…
Il ritiro degli Stati Uniti dal Consiglio per i Diritti Umani può richiamare a prima vista la politica estera del primo Bush Jr., ossia negli otto mesi gennaio-settembre 2001. Essa era improntata a un ripiegamento rispetto all’impegno internazionale esercitato dall’amministrazione Clinton, prevalentemente nella ex Jugoslavia, giustificato con la tutela dei diritti umani. Gli attentati dell’11 settembre cambiarono segno a questo orientamento, che fu ripensato invece come la proiezione dell’iper-potenza su scala globale.
L’insofferenza degli Stati Uniti verso organismi internazionali è di vecchia data e non si ferma certo alla decisione di Clinton (poi confermata dai successori) di non aderire alla Corte Penale Internazionale. Nel 1949 i repubblicani isolazionisti votarono contro il Patto atlantico e nel 1920 dilagarono alle elezioni contro la prospettiva di aderire alla Società delle Nazioni e facendo leva sul disgusto di essere stati coinvolti nella Grande guerra europea. Il rifiuto delle “alleanze invischianti” (entangling alliances) fu formalizzato da Jefferson nel discorso inaugurale del marzo 1801, ma il tema era già comparso nel discorso di commiato di Washington nel settembre 1796.
L’eccezionalismo americano, la convinzione di un “destino manifesto”, l’isolazionismo e infine la proiezione iper-potente sono elementi strettamente collegati. I tentativi di multilateralismo, messi in atto nei decenni più recenti da Carter e da Obama, si sono scontrati con le contraddizioni della retorica dei diritti umani e con la fortissima difficoltà di mutare radicalmente le linee guida della politica estera.
L’uscita dal Consiglio per i Diritti Umani, quindi, conferma una tendenza radicata e al tempo stesso approfondisce le linee di demarcazione con il resto del mondo, con l’attenta scelta dei Paesi da denunciare: rivali globali come Cina e Russia, potenze regionali come l’Iran e l’Egitto, Paesi a guida socialista come il Venezuela, Cuba e il Congo. Dall’altro lato, l’orientamento di Trump appare quello di liberarsi dei vincoli internazionali per poter trattare direttamente, senza mediazione, con Russia e Cina. A questo fine mira il tentativo di far fallire l’organizzazione del G7, una scommessa giocata sull’incapacità che l’Europa possa trovare una propria forza autonoma e debba restare periferia delle altre potenze.
L’errore che si commette spesso parlando di diritti umani, è quello di assolutizzare una categoria che è puramente politico- ideologica. Nella varietà delle sue dimensioni, delle sue determinazioni culturali e storiche, come possiamo dire cosa sia l’essere umano, quale sia la sua essenza e addirittura spingersi fino ad attribuirgli tutta una serie di diritti universali che gli sarebbero propri per natura?
I diritti non sono mai dati naturali bensì prodotti storici e sociali, emergono in concomitanza di lotte, rivendicazioni, bisogni che sono percepiti storicamente dagli uomini e agiti dalle comunità. Dipendono dalle determinazioni culturali, sociali e in ultima istanza economiche che caratterizzano determinati periodi storici. Ogni teorizzazione sul diritti umani, cioè sui diritti che sarebbero universalmente indissociabili dall’uomo, in ogni tempo e in ogni luogo, è una impresa fallimentare. Del resto, è stato efficacemente dimostrato sia da molti teorici marxisti che da antropologi come Levi-Strauss che la concezione umanistica su cui si poggia l’idea di diritti umani sia un prodotto puramente occidentale, nel nome del quale peraltro sono stati asserviti e sterminati popoli interi. Più specificatamente, è difficile negare che la genesi dei diritti umani nasca nell’ambito illuminista del pensiero liberale europeo. Non è un caso che le campagne sui diritti umani si concentrino su violazioni solo di un certo tipo, come la censura alla stampa o le mancanza di libere elezioni, mentre difficilmente si parla di violazioni dei diritti umani se si è costretti a lavorare 10 ore al giorno per una paga da fame o la mancanza di un sistema sanitario che permetta ai più poveri di curarsi.
Il Consiglio dell’ONU sui diritti umani è un esempio di questa retorica. Durissimi gli attacchi nei confronti di paesi pacifici e sostanzialmente civili come Cina, Venezuela, Nord Corea e Iran, molto timidi quando si tratta di denunciare l’uccisione sistematica di leader politici e giornalisti in paesi come Messico o Brasile, tanto per fare un esempio. Come spiegare allora l’uscita degli USA da un’istituzione che sostanzialmente ne rispecchia i valori? La motivazione è che neppure un organo poco indipendente e molto vicino alla logica dell’imperialismo occidentale come l’ONU può permettersi di stare a guardare di fronte all’orrenda macelleria e ai crimini compiuti da Israele nei confronti del popolo palestinese, poiché persino i valori liberali sui cui si erge tutta l’impalcatura umanista sono del tutto compromessi dalla cinica e feroce politica di forza israeliana.
Inammissibile una presa di posizione così forte però per gli USA che evidentemente reputano più feroce il sistema democratico venezuelano che ha gestito le violente manifestazione di piazza con straordinaria lucidità, piuttosto che l’assurda carneficina israeliana compiuta nonostante i manifestanti palestinesi non rappresentassero un pericolo per l’incolumità dei soldati israeliani. Si ritorna al solito punto: i diritti umani sono mera retorica ed ideologia e gli Stati Uniti sono ora pronti a “promuoverli” a modo loro. Nel modo che in molti, purtroppo, hanno conosciuto.
Immagine di copertina liberamente ripresa da milano.corriereobjects.it
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.