L’attentato di Nizza di giovedì 29 ottobre è avvenuto dopo una serie di proteste di piazza antifrancesi nei Paesi islamici del Medio Oriente, nonché proteste formali, più eleganti o più rissose, di Stati islamici nei confronti di alcune dichiarazioni di Emmanuel Macron.
La miccia apparente sono state infatti le frasi rese dal Presidente francese durante la commemorazione di Samuel Paty, l’insegnante decapitato a Parigi da un musulmano ceceno per la colpa di aver mostrato, nel corso di una lezione sulla libertà di espressione, alcune vignette di Charlie Hebdo su Maometto. In particolare, le parole che hanno destato lo sdegno nel mondo musulmano sono state quelle sull’intento di non cedere su alcuni principii considerati fondanti della Repubblica: «Noi continueremo, professore. Noi difenderemo la libertà che lei ha insegnato così bene e noi sosterremo la laicità, non rinunceremo alle caricature, alle vignette, per quanto altri possano indietreggiare».[1]
La questione delle vignette sul Profeta dell’Islam, specialmente quelle talvolta di carattere pornografico pubblicate da Charlie Hebdo, è un vecchio e dolentissimo punto nei rapporti tra la Francia e il mondo islamico. Come l’estensione ideologica, più che numerica, delle proteste ha dimostrato, si arriva a un nodo che appare inestricabile nell’ostacolare i rapporti tra la République e l’Islam anche moderato. Ad elevare la propria protesta formale, infatti, non sono stati soltanto regimi fondamentalisti sunniti o quantomeno sospetti di contiguità con il fondamentalismo, come l’Arabia Saudita – pure alleata formalmente con l’Occidente – e il Pakistan[2], ma anche l’arcinemico sciita dei sauditi – l’Iran – e soprattutto un esponente di spicco del mondo moderato come il Re di Giordania, che a gennaio 2015 aveva partecipato alla marcia parigina dopo l’attentato a Charlie Hebdo.[3]
La reazione unanime del mondo musulmano è stata infatti di intransigenza sul rispetto della figura di Maometto e si è sommata a precedenti dichiarazioni di Macron che già avevano aperto un solco tra la Francia e la comunità islamica. Già il 2 ottobre, infatti, il Presidente aveva reso un accorato discorso contro il fenomeno da lui chiamato «separatismo islamico»: un «progetto cosciente, teorizzato, politico-religioso, che si concretizza per ripetuti allontanamenti dai valori della Repubblica, che si traduce spesso nella costituzione di una contro-società e le cui manifestazioni sono la descolarizzazione dei bambini, lo sviluppo di pratiche sportive e culturali communautarisées che sono il pretesto per l’insegnamento di principii non conformi alle leggi della Repubblica».[4]
Communautés e separatismo
Vale la pena soffermarsi sull’aggettivo communautaire, “comunitario”, perché è al cuore di un solco che divide profondamente non soltanto l’interno della Francia, ma la Francia stessa da altri settori dell’Occidente. La traduzione più appropriata in italiano è forse «settario»: la comunità che si costituisce all’interno della Repubblica, cioè non sciogliendosi nel corpo collettivo della Repubblica stessa, non amalgamandosi con la Nazione, è per ciò stesso una minaccia interna all’integrità del modo in cui la Nazione si esprime, ossia la legge, la Costituzione, lo Stato.
È molto difficile comprendere, in società laicizzate come quelle dell’Europa occidentale, la profondità e spesso la genuinità dello sdegno dei musulmani per la satirizzazione di Maometto. In queste zone d’Europa, infatti, la satira antireligiosa è di dominio acquisito almeno da mezzo secolo e, per quanto riguarda il ruolo pubblico della religione, persino una nazione con fortissima tradizione cattolica come la Spagna legalizzò già nel lontano 2005 il matrimonio omosessuale nonostante la contrarietà clericale. Il discorso è già diverso per l’Europa orientale, come evidente dal peso del cattolicesimo integralista nella recentissima (22 ottobre) sentenza antiabortista del Tribunale Costituzionale polacco e nei successivi sviluppi politici.
Ma bisogna parimenti considerare quanto, d’altro canto, i principii di indivisibilità della Nazione e della volontà generale siano radicati nella cultura francese: di essi si nutrì la Rivoluzione Francese e prima ancora il pensiero illuminista da cui essa era fermentata. La Francia inoltre ha a lungo conservato una tendenza autarchica con rari riscontri nell’Europa continentale: ad esempio restando per molti anni fuori dal comando integrato della NATO, o mantenendo un potente ruolo dello Stato nel sistema economico, o anche soltanto francesizzando sistematicamente qualsiasi parola di origine straniera – nonché intendendo mantenere un circuito chiuso di relazioni gerarchiche con i Paesi ex colonizzati.
Il programma proposto da Macron contro il «separatismo» discendeva logicamente da tutte queste premesse:
«Ho fiducia nei francesi di confessione musulmana e nella loro capacità di mobilitarsi per contribuire a questa battaglia repubblicana contro il separatismo islamista, nella loro volontà di organizzarsi essi pure per costruire un Islam dei Lumi. Non è certamente compito dello Stato quello di strutturare l’Islam, ma noi dobbiamo permetterlo, accompagnarlo, ed è per questo che ho dialogato molto con i rappresentanti dell’Islam nel nostro Paese. Noi condividiamo constatazioni e proposizioni comuni: la necessità di liberare l’Islam in Francia dalle influenze straniere […] la volontà di proteggere i responsabili delle moschee da insediamenti ostili da parte degli estremisti […] l’ambizione di formare e promuovere in Francia una generazione di imam e di intellettuali che difendano un Islam pienamente compatibile con i valori della Repubblica».
I propositi enunciati sono di fatto contrari alla dichiarazione iniziale secondo cui non rientra fra le incombenze statali il dare forma alle confessioni; soprattutto lo sono la lotta alle ingerenze straniere e ancor più l’educazione di una classe di uomini di fede “repubblicani”. Ancora una volta, il riferimento pratico è nell’esperienza rivoluzionaria, che creò un clero cattolico costituzionale, obbediente allo Stato e da esso stipendiato, in opposizione quello che fu definito «refrattario» che restava di obbedienza romana. Ancor più addietro, il legame tra Stato e Chiesa è un pilastro della costruzione della statualità francese fin dai tempi di Luigi XIV, che teorizzando una chiesa gallicana non solo rivendicò il diritto di concorrere con il papa alla nomina dei vescovi francesi ma asserì che il potere dell’assemblea episcopale era superiore a quello del vescovo di Roma.
La conseguenza paradossale fu che con il Concordato napoleonico del 1801 i vescovi erano nominati dallo Stato, pur se il pontefice manteneva il potere di destituirli: ossia, lo Stato diventava un’autorità religiosa con l’obiettivo di salvaguardare la laicità pubblica.
L’opzione multiculturale
Questo intero edificio concettuale distingue la Francia da altri Stati occidentali: ad esempio ben diversa è stata la reazione del Canada, uno Stato che conta al proprio interno molte communautés: i francofoni del Québec, il popolo Inuit, rilevanti gruppi etnici immigrati (cinesi, italiani, indiani…) e gruppi religiosi (musulmani, hindu, sikh).
Nel condannare gli attentati in Francia, il primo ministro Trudeau ha infatti osservato che «la libertà di espressione non è priva di limiti […] in una società pluralista, diversificata e rispettosa come è la nostra, noi dobbiamo essere consapevoli dell’impatto che le nostre parole e le nostre azioni hanno sugli altri, in particolare su quelle comunità e popolazioni ancora sottoposte ad enorme discriminazione». In particolare, secondo Trudeau, in una società tanto composita ciò che fa la differenza non è l’intenzione di chi emana un messaggio, ma l’effetto pratico che esso ha su chi lo riceve: se questi se ne sente ferito, infatti, il messaggio è di per sé irrispettoso.[5]
Nelle parole di Trudeau non sono certo ininfluenti preoccupazioni di natura interna. Il suo Partito Liberale non ha da solo la maggioranza parlamentare e il governo di minoranza deve ricorrere spesso all’appoggio del Nuovo Partito Democratico, formazione progressista il cui leader Jagmeet Singh è un sikh. Ma considerazioni di politica interna spingono anche Macron, che vuole evitare di essere denunciato come debole sul fronte islamico da parte di Marine Le Pen, che già a giugno, durante le virulente proteste antirazziste, aveva messo in guardia contro «la febbre communautariste […] un odio indigenista, odio razziale mascherato da antirazzismo, odio communautariste antifrancese».[6]
Ma proprio il fatto che la politica interna del Canada ruoti attorno al multicomunitarismo, mentre quella francese si fonda sul respingimento radicale dell’esistenza di comunità interne distinte dalla Nazione, pone in chiaro che l’Occidente non è un blocco unico riguardo al modo in cui alcuni valori devono essere concepiti e difesi. Questo fu visto del resto già vent’anni fa con le discussioni sull’inserimento delle «radici giudaico-cristiane» nel testo della Costituzione europea, a cui la Francia del gollista Chirac fu indefettibilmente contraria.
Una critica USA a Macron
Una critica alle fondamenta dell’attitudine francese sulla questione islamica è giunta dal corrispondente parigino dello Washington Post, James McAuley, in un articolo dall’eloquente titolo «Invece di combattere il razzismo sistemico, la Francia vuole “riformare l’Islam”».[7]
Le considerazioni espresse da McAuley sono emblematiche della distanza culturale che separa il modello francese da quello statunitense; alcune coordinate di quest’ultimo, in particolare tramite l’industria culturale e gli oligopoli dei social network, sono già state trasferite sul suolo europeo e sempre più le società occidentali dovranno decidere se abbracciarlo o meno.
A parere di McAuley, infatti, i proponimenti espressi da Macron il 2 ottobre non affrontano in alcun modo la causa della radicalizzazione terroristica, ossia «l’emarginazione dei musulmani francesi, specialmente nei ghetti extraurbani, le banlieues» e costituiscono anzi «una risposta bizzarra al problema […] ma forse l’unica che la Francia può contemplare in un universo in cui essa non si impegna a misurare la discriminazione sistemica, che alimenta tanta parte del “separatismo” che si cerca di combattere».
Gli errori del sistema francese sarebbero, dunque, fondamentalmente due.
In primo luogo, la concezione di laicità codificata dalla Legge di separazione della Chiesa dallo Stato del 9 dicembre 1905, che abolì unilateralmente il Concordato napoleonico. La separazione tra Stato e Chiesa, e anzi la proibizione esplicita di adottare una religione di Stato, è tra i pilastri anche del sistema costituzionale degli Stati Uniti: significativamente, questo principio è enunciato nel Primo Emendamento e nella stessa frase che proibisce di restringere la libertà di culto, la libertà di espressione, la libertà di riunione.
Le libertà di espressione e di culto sono cioè manifestazioni di un medesimo principio e la separazione tra Chiesa e Stato serve, nelle parole di McAuley, a garantire «la libertà di scegliere il proprio credo religioso». La legge del 1905, invece, impone la neutralità assoluta dello Stato in materia religiosa, vietando il riconoscimento e il finanziamento pubblici di culti religiosi e la presenza di simboli religiosi nei luoghi pubblici. A parere di McAuley, i postulati di tale legge erano strettamente legati alla larga omogeneità religiosa della Francia del 1905, in cui la stragrande maggioranza della popolazione seguiva la fede cattolica con solo piccole minoranze di protestanti ed ebrei. In altri termini, lo Stato del 1905, mentre enunciava di diritto la separazione da qualsiasi culto religioso, promulgava di fatto la separazione dalla Chiesa cattolica romana.
L’espulsione della religione dallo spazio pubblico avrebbe, secondo il commentatore dello Washington Post, assunto effetti disfunzionali e prodotto un secondo errore nel momento in cui la Francia è stata oggetto di una consistente immigrazione islamica dalle sue ex colonie. Sempre secondo McAuley, la Repubblica Francese avrebbe infatti aggiunto danno a danno vietando la registrazione anagrafica dei dati etnici e religiosi dei cittadini. Nelle sue parole: «Dal 1978 la legge francese ha largamente proibito la raccolta (anche a fini di scienza sociale) di statistiche sulla razza, la religione o l’etnia, principalmente in risposta alla Seconda guerra mondiale, quando la classificazione dei cittadini ebrei ne facilitò il rastrellamento e la deportazione».
Insomma, ad essere attaccata è una colonna portante del pensiero giuridico europeo, ossia l’assoluta color-blindness della società e dello Stato. Dal punto di vista di un osservatore statunitense, però, il problema è esattamente l’opposto: «Vietare la razza non ha vietato il razzismo, e senza una base empirica può essere difficile provare dove e in quale grado esistono delle disparità – per non parlare di capire come risolverle».
Negli Stati Uniti, infatti, il riconoscimento delle “razze” come culture separate – cioè come communautés – non solo non è considerato di per sé un fatto razzista, ma, al contrario, viene ritenuto il fondamento stesso della possibile lotta al razzismo. Soltanto riconoscendo una comunità come separata, e cioè dotata di specificità storiche e culturali che la rendono radicalmente diversa dalla maggioranza, si potrà rappresentarla fattivamente per consentire che i suoi diritti di minoranza non siano coartati. Questo principio, anche in versione color-blind, è alla base dell’intero sistema politico degli Stati Uniti: sul finire del XVIII secolo i padri fondatori ritennero che soltanto organizzando la rappresentanza degli interessi – il lobbismo, si direbbe oggi – sarebbe stato possibile realizzare l’ideale montesquiviano di repubblica su un territorio di ampie dimensioni. La lotta degli interessi avrebbe infatti evitato che la volontà della maggioranza si rovesciasse nell’imposizione di un potere tirannico sulle minoranze.
Ovviamente, per quanto riguarda la questione dell’identità razziale, un peso spropositato è esercitato dalla storia concreta delle “etnie” che si confrontano negli Stati Uniti. Fino all’abolizione della schiavitù nel 1865 il colore della pelle era di fatto la discriminante tra la condizione di schiavitù (i neri) e quella di schiavismo (i bianchi). È vero che negli Stati del Nord la schiavitù era abolita e vi erano comunità di neri liberi, ma secondo il censimento del 1860 gli schiavi costituivano il 90% della popolazione nera nazionale e il 32% della popolazione generale degli stati schiavisti, mentre negli stati non schiavisti i neri liberi erano solo l’1% della popolazione.[8]
È evidente che in un contesto simile l’abolizione della schiavitù non potesse limitarsi a proclamare semplicemente la race-blindness dello Stato, tanto più che essa continuò a venir negata in pejus nelle zone ex-schiaviste dall’istituzione della segregazione razziale. L’intero movimento per i diritti civili degli ultimi sessanta-settanta anni si è basato sul principio che la comunità afro-americana ha una storia peculiare molto diversa da quella della maggioranza della popolazione, e che questa differenza deve essere ricordata e celebrata: ad esempio, con il Black History Month, un mese (quello di febbraio) osservato dagli enti educativi e dalle istituzioni, o tramite festività dedicate: la Kwanzaa, il Juneteenth, il Martin Luther King Day.
Due modelli agli antipodi
A scontrarsi, tra la Francia e gli Stati Uniti, sono evidentemente due concezioni antitetiche del depositario della sovranità, titolato ad esercitare le proprie libertà.
Secondo il pensiero francese la libertà è esercitata dalla Nazione, un corpo non soltanto collettivo, ma unitario, e non solo unitario, ma indivisibile. L’articolo 1 della Costituzione francese enuncia nella sua prima frase che «La Francia è una repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale». L’ordine degli aggettivi è chiaramente significativo: ancor più che democratica la Repubblica Francese si definisce in quanto laica, e ancor più che laica in quanto indivisibile. Nella seconda frase dell’articolo 1 viene proclamato che la Francia «assicura l’eguaglianza dinanzi alla legge a tutti i cittadini senza distinzione di origine, di razza o di religione». Questo principio, che può apparire privo di complessità, è in realtà assai diverso da come la questione dell’eguaglianza viene affrontata nella Costituzione degli Stati Uniti.
Per limitarci alle questioni etniche e religiose, per molti decenni l’unico pronunciamento in materia è stato quello del Primo Emendamento riguardo la libertà di culto. Soltanto dopo la guerra di secessione e l’abolizione della schiavitù si sono aggiunte ulteriori indicazioni costituzionali. Nel 1868 il XIV Emendamento, congegnato per conferire la cittadinanza agli ex schiavi, ha proclamato per la prima volta l’uniformità delle leggi statali alla legge federale e la garanzia in ogni caso a qualsiasi cittadino di un «debito processo di legge» e della «eguale protezione della legge». Nel 1870 il XV Emendamento riconobbe il diritto di voto dei neri soltanto per via negativa, ovvero vietando di negarlo «in base alla razza, al colore, o a una precedente condizione di servitù». Tale formulazione fu mantenuta ancora nel 1964, quando il XXIV Emendamento abolì con il medesimo meccanismo la poll tax, la tassa sul voto richiesta in molti stati razzisti per escludere le persone di colore dall’elettorato: il diritto di voto non avrebbe potuto essere negato «a motivo del mancato pagamento di qualsiasi tassa personale o altra tassa».
La concezione puramente negativa della libertà che emerge dal testo costituzionale degli Stati Uniti è la diretta conseguenza del modo in cui vengono intesi, nella cultura istituzionale del Paese, i rapporti di sovranità. Il sovrano che esercita la libertà, infatti, è sempre e soltanto l’individuo, sui cui diritti si deve costantemente vigilare – egli per primo – affinché non siano coartati dallo Stato. Alla radice di una simile concezione stanno naturalmente l’assenza di consolidate linee di obbedienza politica nei territori inizialmente colonizzati sulla costa atlantica nonché le caratteristiche della colonizzazione dell’interno, affidata fin dal Settecento all’iniziativa privata – spesso, banalmente, alle necessità dei nuovi coloni che lungo la fascia costiera non trovavano terre coltivabili ancora libere.
Una soluzione per l’Europa
Resta quindi da chiedersi quale modello sia preferibile in generale, quale sia preferibile per affrontare il problema della pluralità culturale in Occidente, quale per affrontare la questione musulmana, se non sia piuttosto auspicabile una via di mezzo o un nuovo modello, nonché se vi sia davvero una possibilità di scelta.
È innegabile che la concezione americana[9] di libertà abbia largamente intriso di sé anche le società europee, e non soltanto quelle occidentali, pur se in Europa orientale il fenomeno è stato prevalentemente superficiale. Quanto in profondità, però, è penetrata questa concezione? La mentalità degli europei è veramente ormai disposta ad abbracciare una svolta culturale radicale, basata sull’istituzionalizzazione delle etnie e la suddivisione della società in tanti grumi su base di comunanza etno-culturale?
Probabilmente no; perché la storia del colonialismo non esercita il peso che la storia dello schiavismo esercita sul popolo degli Stati Uniti e perché pressoché ogni Costituzione scritta in Europa discende dai principii di volontà generale della Rivoluzione francese. Una eccezione è costituita notoriamente dal Regno Unito, dove infatti le richieste di rappresentanza identitaria delle comunità alloctone sono più pressanti che in Europa e generalmente anche più soddisfatte (a partire dalla presenza di personaggi di colore, anche laddove storicamente implausibili, nelle produzioni della BBC).
Al tempo stesso, tuttavia, l’impressione è che la forma mentis europea sia generalmente, più che una consapevole adesione alla definizione indivisibile di Nazione come nel caso francese, in prevalenza il risultato di una sostanziale omogeneità “etnica” degli Stati-nazione, ragion per cui qualsiasi apporto estraneo per colore della pelle o per religione può essere immediatamente rigettato. Non è raro, ad esempio, leggere che l’opposizione dei Paesi est-europei all’ingresso di migranti risiede nell’essere stati, a partire dal 1945, quasi totalmente omogenei internamente.
Se questa è la verità, però, bisogna riconoscere che dietro di essa tornano a fare capolino le dottrine razziali del Blut und Boden, secondo cui appartiene alla Nazione solo chi ne condivide la discendenza di sangue. Laddove con sangue s’intende ovviamente il colore della pelle: nel 1968 Enoch Powell, nel rinfocolare l’opposizione all’immigrazione dal Commonwealth verso il Regno Unito, rese chiaro che però non avrebbero dovuto esservi grandi limitazioni agli ingressi provenienti da Canada, Australia e Nuova Zelanda, ossia per la popolazione bianca.
D’altro canto la soluzione statunitense irrigidisce la separazione identitaria, creandola anche là dove è assente, e genera poi una sorta di paradossi e cortocircuiti: ad esempio, quando un leader politico bianco celebra la Kwanzaa indossando oggetti tipici della comunità africana, compie appropriazione culturale oppure no? O, su un piano non razziale, quando distinguere le donne transgender dalle donne cisgender è un riconoscimento della loro identità e quando invece è un’esclusione transfoba?
Vi è però un principio, nella critica di McAuley, adottabile anche in Europa: quello della lotta al razzismo sistemico. Combattere l’emarginazione su basi puramente economiche non è fattibile in questi casi, anzitutto perché gli emarginati stessi respingono una lettura di questo tipo – lo si è visto negli Stati Uniti con le critiche della comunità afro-americana a Sanders, reo di derubricare l’oppressione delle persone di colore a un dato economico di minore tenore di vita. Tuttavia la base economica resta fondamentale per disinnescare le pulsioni razziste della comunità maggioritaria: sia garantendo un equo tenore di vita per quest’ultima, sia evitando di trasformare la popolazione immigrata in un esercito industriale di riserva.
Per quanto riguarda la Francia, inoltre, non guasterebbe astenersi da una politica estera imperialista che ha aperto autostrade alla disgregazione terroristica in Paesi come la Libia e la Siria.
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https://fr.euronews.com/2020/10/21/macron-nous-ne-renoncerons-pas-aux-caricatures-aux-dessins ↑
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https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2020/10/26/erdogan-lancia-appello-a-boicottare-prodotti-francesi_26e8d541-5794-4815-aa3e-5a7c75f3fd6b.html ↑
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https://twitter.com/Malbrunot/status/1320291361174786048?s=20 ↑
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https://www.elysee.fr/emmanuel-macron/2020/10/02/la-republique-en-actes-discours-du-president-de-la-republique-sur-le-theme-de-la-lutte-contre-les-separatismes ↑
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https://thecanadian.news/2020/10/30/muhammad-cartoons-freedom-of-expression-has-its-limits-according-to-justin-trudeau/ ↑
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https://www.lefigaro.fr/politique/a-dijon-marine-le-pen-fustige-la-fievre-communautariste-et-demande-un-moratoire-sur-l-immigration-20200616 ↑
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https://www.washingtonpost.com/outlook/macron-france-reform-islam-paty/2020/10/23/f1a0232c-148b-11eb-bc10-40b25382f1be_story.html ↑
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https://www2.census.gov/library/publications/decennial/1860/population/1860a-46.pdf ↑
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Citazione voluta da «una libertà diversa da quella americana», in G. Gaber, Qualcuno era comunista. ↑
Immagine di Makunin da Needpix
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.