L’operazione denominata “Ombre Rosse” ha segnato la fine di aprile 2021. Dieci persone, ricercate dalla giustizia italiana per episodi di violenza, hanno ricevuto il mandato di arresto in Francia. Sulla stampa si è scritto molto della fine della “dottrina Mitterrand”, espressione con cui si fa abitualmente riferimento alle decisione dello stato d’oltralpe di non concedere l’estradizione a chi è ricercato in altri Paesi per atti di ispirazione politica ma sceglie di rinunciare a ogni forma di violenza. I nomi sono legati a organizzazioni diverse tra loro: Brigate Rosse, Lotta Continua e Nuclei Armati Contropotere Territoriale. Gli omicidi per i quali hanno ricevuto le condanne si inseriscono nel contesto di quelli che vengono chiamati gli Anni di Piombo.
Si apre adesso una fase – che si stima possa durare fino a due anni – che potrebbe concludersi con il rientro in Italia delle persone interessate, per le quali si stavano avvicinando i termini di prescrizione. Su questa vicenda si concentra la rubrica a Dieci Mani di questa settimana.
Dmitrij Palagi
Nella vicenda legata all’operazione Ombre Rosse è difficile ritrovare i principi della separazione dei poteri. È il potere nel suo insieme che si è difeso e si è mosso per reprimere un nemico assoluto. Probabilmente per questo si accetta di vedere la politica svolgere un ruolo improprio, che senza pudore fa trapelare alcune letture nel sistema d’informazione. Il credito internazionale dell’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri avrebbe aiutato a sbloccare la situazione. Il Presidente francese, mosso dalla necessità di rafforzare la sua retorica sulla sicurezza in vista delle prossime elezioni nazionali nel 2022, in cui cercherà la riconferma. La scelta di agire a ridosso dei termini di prescrizione e la strumentalità dei giudici di arrivare a considerare i colpevoli “delinquenti abituali”, nonostante il loro essersi integrati oltralpe. Un ulteriore passo verso una logica disciplinare che si fa sempre più pesante nelle nostre società, in cui una categoria si fa occasione per aggirare i limiti delle norme.
Quanto andato in scena negli ultimi giorni di aprile 2021 ha avuto sicuramente toni diversi rispetto alla cattura di Battisti. In quel caso le pulsioni giustizialiste e vendicative erano più esplicite. La situazione presente non è però meno oscena, nonostante non sia scontato l’esito delle singole procedure di estradizione. Su un quotidiano come Avvenire, ritenuto vicino alle posizioni di sinistra se si escludono alcune tematiche etiche, si è proposta una lettura in prevalenza unilaterale. Qualche sfumatura legata al sentimento della pietà cristiana si è fatta avanti, ma per il resto la testata si è allineata ad elogiare l’operato del Governo italiano: in particolare con riferimento alla Ministra della Giustizia, che non è un mistero essere vicina agli ambienti di Comunione e Liberazione.
Non si può ricostruire la complessità degli Anni di Piombo in poche parole. Però vorrei utilizzare un passaggio di un articolo di Vincenzo R. Spagnolo, del 29 aprile: «Come se quelle condanne nei tribunali italiani fossero state emesse in assenza di garanzie sul piano del diritto». Sì. Era in corso una guerra, stando alle dichiarazioni delle istituzioni di allora. Si sono portate avanti condanne in contumacia. La Repubblica democratica si è raccolta contro gli opposti estremismi e ha esercitato le sue scelte, sacrificando anche pezzi di democrazia. Ritenere il sistema giudiziario neutro e astratto è un grave errore, che mina ogni possibilità di vivere in uno stato dove le libertà individuali siano davvero garantite, così come la dignità della vita rispettata. Piuttosto occorre chiedersi quanta consequenzialità ci sia tra i continui stati di emergenza che sospendono i quadri normativi a tutela delle persone.
Colpisce la superficialità con cui le dieci vicende vengono parificate. Pietrostefani faceva parte di Lotta Continua. Ancora oggi, insieme a lui, Sofri viene descritto come l’omicida di Calabresi. Nessuno dei due è in realtà stato condannato come esecutore materiale. Ma tutto questo non interessa. L’importante è compiere un rituale, con i mostri sacrificali che nessuna voce potrà mai azzardarsi a difendere. Perché ogni persona che voglia provare a ricordare la necessità di un senso della giustizia slegato dai sentimenti di vendetta finisce per essere archiviata come “connivente” o “di salotto”.La banalizzazione della categoria di terrorismo, che tiene insieme l’11 settembre 2001, piazza della Loggia e la lotta curda, è il meccanismo che rivela quanta cattiva fede muova le dichiarazioni politiche di questi giorni.La lotta per una futura umanità passa anche da questi elementi: dalla capacità di fare i conti con la complessità della storia e la non neutralità del diritto. Provando anche ad aprire una discussione pubblica sullo stato di diritto, a partire dalla sua definizione.
Jacopo Vannucchi
Il responsabile del Servizio antiterrorismo interno, Eugenio Spina, ha affermato: «Noi ci troviamo davanti a terroristi, persone che hanno ucciso. Per questo motivo riteniamo che sia naturale che debbano scontare la pena nelle patrie galere».
L’affermazione è solo parzialmente corretta, perché delle sette persone arrestate in Francia quattro hanno ricevuto l’ergastolo per aver commesso omicidi, mentre l’omicidio non rientra fra i reati riconosciuti agli altri tre. La scelta semantica dei termini riguardanti la pena detentiva risulta inoltre fastidiosamente populista e sommaria.
D’altro canto una simile e opposta leggerezza la si riscontra nella posizione espressa da Adriano Sofri, secondo il quale dovremmo chiudere la stagione con un’amnistia. Qui si evidenziano due problemi:
1) Il dato della lunga distanza temporale dal reato commesso viene fatto debordare, indebitamente, dalla sfera della riflessione morale a quella dell’ordinamento giuridico. Ciò appunto rafforza, invece di superare, la dicotomia a mio avviso insensata tra non riconoscimento dell’abbandono della violenza e non riconoscimento delle responsabilità penali.
2) L’idea che la matrice dei reati sia sostanzialmente collettiva, perché quei reati sarebbero figli di un contesto sociale e politico con direttrici specifiche, viene tradotta in uno sgravio generale delle responsabilità penali del singolo. Questo concetto, se applicato, rischierebbe di fondare una pretesa di impunibilità non soltanto per tutti i reati per i quali si adducono moventi politici (anche quelli fascisti, ovviamente), ma addirittura per ogni reato, perché anche un furto, una frode fiscale o un parricidio avvengono in un contesto sociale che li incuba e li determina.
Erich Priebke fu condannato all’ergastolo a 85 anni per reati commessi 54 anni prima. Reati certamente più gravi di quelli dei brigatisti rossi – erano crimini di guerra e contro l’umanità – ma mai più ripetuti da un uomo che aveva poi condotto una vita da incensurato. E anche per essi qualche avvocato potrebbe tentare l’alibi “erano crimini di quel tempo”, e infatti Priebke lo fece (“obbedivo agli ordini”).
Oskar Gröning a 94 anni fu condannato per reati compiuti 70 anni prima, reati essi pure derivanti dall’adesione all’ideologia nazista. Anche Gröning aveva condotto una vita esemplare. Priebke morì centenario da ergastolano, Gröning invece ricevette solo quattro anni. Non soltanto perché lui non era stato responsabile diretto di stragi e torture, ma anche perché aveva abiurato radicalmente al nazismo e anzi proprio il suo impegno contro il negazionismo della Shoah ne aveva fatte emergere pubblicamente le responsabilità come SS ad Auschwitz.
Ritengo che, mutatis mutandis, anche nel caso presente sia possibile applicare una simile differenziazione. La Repubblica Italiana seppe trovare una soluzione umanitaria per Ovidio Bompressi e saprà trovarne anche ora. Si parla molto di riconciliazione e chiusura delle ferite: sono operazioni delicate, il cui costo non può gravare a carico di una parte sola.
Alessandro Zabban
L’operazione Ombre Rosse si pone in triste continuità con la cattura di Cesare Battisti, uno spot propagandistico volto a esibire il “mostro” come trofeo di guerra. Gli Anni di piombo e il terrorismo rosso non possono essere semplificati mettendo da una parte il bene e dall’altra il male. Sicuramente la lotta armata ha dimostrato il suo fallimento ed intraprenderla è stato un errore in cui sono caduti in molti, compresi quelli che pur non partecipando al brigatismo, ne sostenevano metodi e azioni. Tuttavia dobbiamo ricordare che per far fronte a una situazione di guerra civile a bassa intensità come sono stati quegli anni, lo Stato di diritto è stato sospeso. La dottrina Mitterrand non è una bizza anti-italiana ma nasce dalla consapevolezza che in Italia la lotta al terrorismo aveva assunto una proporzione incompatibile coi valori democratici e liberali di cui si vantava l’Europa Occidentale. Per Mitterrand l’asilo agli ex brigatisti passava dall’impegno di questi ultimi ad abbandonare la violenza. Coloro che rischiano oggi l’estradizione si sono fatti una vita e una famiglia in Francia, rinunciando alla violenza e rispettando le leggi dello Stato francese. La rottura unilaterale di questo patto è dunque una ferita che Macron infligge allo Stato di diritto francese. Non meno gravi le responsabilità italiane che invece che aprire una riflessione seria e attenta di quegli anni preferisce una bieca vendetta che mostra il bassissimo spessore della nostra classe dirigente.
Immagine (dettaglio) di Stefania Garonzi da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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