Siamo giunti al terzo anno consecutivo di Firenze Rocks e francamente quando il Festival finisce si prova nostalgia per le belle giornate passate alla Visarno Arena. Dopo una splendida prima edizione e dopo una seconda meno scoppiettante, la terza francamente qualche scricchiolio lo ha avuto. Non tanto a livello di biglietti staccati e di turismo (che anzi è in aumento). Una media superiore alle 40000 presenze a serata, organizzazione e sicurezza di discreto livello nonostante i prezzi di cibo e bevande che erano veramente elevati se consideriamo il rapporto qualità/prezzo. Qualche polemica legata alla partecipazione di Ed Sheeran è fondata. Onestamente in un festival di musica rock, ci sta come il cavolo a merenda. Avrebbe potuto starci, ma magari in un contesto diverso. Grande successo per i Tool e per i Cure, ma la serata clou della terza edizione è stata un’altra.
Questo pezzo è tutto dedicato alla giornata di sabato 15 giugno. Due anni fa, il 24 giugno 2017, alla prima edizione del Festival fiorentino arrivava per la prima volta Eddie Vedder. Da solo, senza i Pearl Jam. Alcuni si ricorderanno che raccontai quella magica serata in questo pezzo.
L’ultimo baluardo della musica rock contemporanea che riesce con il suo carisma a “tenere il palco” per oltre due ore con la sua voce e le sue chitarre. È sopravvissuto al grunge (Cornell, Cobain se ne sono già andati) e alla crisi del rock. Lui e la sua band (i Pearl Jam) sono tra le poche, nate dopo il 1990, capaci di fare musica di qualità che richiama i grandi gruppi dei 30 anni precedenti (Beatles, Rolling Stones, Led Zeppelin, Neil Young, Pink Floyd, Bruce Springsteen, U2, Ramones, R.E.M.).
Ma torniamo a noi. Due anni fa vi avevo lasciato una domanda in sospeso presa da una celebre canzone dei Pearl Jam, “Untought Known”: pensa al percorso di ogni giorno, quale strada stai prendendo? Respira forte… e prendi il meglio. Si, questa è la vita. Il ciclo non è finito. Questo pezzo è l’ideale proseguimento del precedente. Eppure l’arrivo alle Cascine è stato quasi comico. Prima mi ritrovo sulla tramvia una donna che spiegava, tramite messaggi vocali su Whatsapp, l’itinerario da Scandicci, commentando pateticamente i nomi delle fermate fino alla battuta da terza elementare su Piazza Paolo Uccello. Ve la potete immaginare. Poi venti minuti in coda ai tornelli con la signora davanti a me che voleva entrare alla Visarno Arena con 3 insetticidi e l’immancabile spray al peperoncino. Per il prossimo anno ho già prenotato due flaconi con aglio e olio. Non si sa mai. L’attesa per Eddie Vedder è fortissima, ma è per fisici forti. Il caldo è opprimente, fastidioso. Non tira un filo d’aria, il sole batte forte, dritto sulla testa e fa venire l’emicrania.
Sicuramente c’è da sottolineare una maggior cura nella scelta dei gruppi che precedono l’esibizione di Vedder. Nel 2017 la scelta di far suonare Samuel dei Subsonica al posto dei Cranberries fu sciagurata. Stavolta i The Struts e i Nothing but thieves riescono a far qualcosa di decente. Anche se avrei qualcosa da dire sull’abbigliamento del cantante di questi ultimi che si è presentato sul palco come se fosse un gelataio in pigiama. Capisco che gli facesse caldo, ma poteva fare di meglio.
Fino alle 19.45 il caldo, la noia e discorsi vuoti che sento in giro hanno il meglio sul rock. Fortunatamente venti minuti si palesa il cantante irlandese Glen Hansard. Già nel 2017 mi aveva fatto una grande impressione. Prima di allora lo conoscevo solo perchè nel 2008 aveva vinto l’Oscar come miglior canzone per il film “Once”. Poi nel frattempo avevo sentito una splendida cover di “Drive all night” di Bruce Springsteen, proprio con Vedder e il sassofonista della E-Street Band, Jake Clemons. Speravo vivamente che la facesse, ma son rimasto deluso.
Ma torniamo a noi. Quando ha preso il via con la chitarra, sembrava che nemmeno un fulmine potesse abbatterlo.
L’esibizione di Hansard è stata compatta, sanguigna, viscerale: da buon irlandese, insomma. Il pubblico lo ha percepito e gli ha tributato un lunghissimo applauso. Anche se era diventato rosso come un peperone e gli si era gonfiata una vena stile Adriano Pappalardo quando canta “Ricominciamo”. Glen si scherza, non mi querelare.
Poco prima delle 21 termina la sua breve esibizione. Hansard si agita come un tergicristallo a velocità massima: dalla sua testa il sudore cola giù copioso. Intanto il pubblico rimane immobile sul posto, ma sa che deve attendere quasi un’ora. Nel frattempo compare un avviso di non registrare. Effettivamente nel 2017 l’uso di aste da selfie e smartphone era davvero insopportabile. Quest’anno devo dire che il concerto è stato più vivibile.
Ci sono oltre 40000 persone alla Visarno Arena, il sole è andato giù e si comincia a respirare. Quest’anno sono riuscito ad arrivare in una buona posizione: terza fila dietro la barriera che ci separa dal Pit. Posizione come se fosse Antani: visuale buona, centrale con leggero scappellamento a destra. Amici miei insegna sempre, c’è poco da fare. Nell’attesa ecco un po’ di discorsi vuoti, selfie, cervelli fritti, vegane al limite dell’anoressia che degustano dolci carotine come se fossero frattaglie e le solite polemiche dei fan club storici dei Pearl Jam che fanno paragoni con altri concerti ai tempi giurassici dell’era mesozoica. Basta, avete rotto. Non si può pretendere che Vedder canti come quando aveva 20 anni.
Le lancette corrono. Arrivano le 21.45. È l’ora X. Ci siamo. Il frontman dei Pearl Jam sale sul palco in jeans e camicia. Sembra un rappresentante di enciclopedie con quel plico blu che ha in mano. Comincia a girar la voce, poi fondata e reale, che Eddie non stia bene. Effettivamente era imbottito di Tachipirina per fargli calare la febbre.
Nel 2017 scrissi che sembrava di essere attorno a un falò con un gruppo di amici. Stavolta si aveva l’impressione di essere ad un concerto vero. Non mi fraintendete: la qualità è stata alta, ma stavolta Vedder ha posto dei correttivi. Suonare da solo davanti a oltre 40000 persone non è assai facile. In questo live ci sono trent’anni di carriera rivisitati con una chitarra e un pedale che batteva su una piccola cassa in legno per scandire il ritmo. Stavolta però sul palco non era solo: oltre a qualche comparsata di Hansard, c’era una mini orchestra con 2 violini, una viola e un violoncello.
Eddie si avvicina al piano e parte “Cross the river”. Poi ringrazia l’Italia, luogo che ama dove ha conosciuto la sua attuale moglie, la modella Jill McCormick. La figlia primogenita della coppia si chiama Olivia. Questo spiega il rapporto tra il cantante e il Belpaese. “Ero nervoso – afferma Vedder emozionato – per dover suonare qui, perché questa città e questo paese hanno dato tantissimo a me e alla mia band. Volevo solo tornare qui e restituire qualcosa”. Il pubblico è in delirio. Vedder è tornato al Firenze Rocks perché nel 2017 ha battuto tutti i record, staccando quasi 50000 biglietti per un’esibizione solista chitarra e voce. Numeri da capogiro.
Dopo un inizio strumentale, ecco che si riparte dalla hit “Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town”. Anche due anni prima era partito così. Le canzoni dei Pearl Jam dominano la prima parte: ecco in ordine I am mine, Immortality, Whishlist, Indifference. La gente inizia a cantare con lui, il concerto si scalda e inizia a diventare molto bello. Nel mezzo una splendida cover dei Pink Floyd: Brain Damage, tratto dalla pietra miliare del rock, “The dark side of the moon”. Dopo arriva uno splendido omaggio a Tom Petty, ex leader degli Heartbreakers recentemente scomparso, a cui Vedder ha dedicato “Wildflowers”. “Mi manchi tanto amico” – ha detto il frontman dei Pearl Jam. La foto di Petty campeggia sullo schermo principale dietro l’artista.
Le dediche sono appena cominciate. Prima c’è Christoph McCandless (“sono più di 10 anni che mi corri dietro”- ha ricordato il frontman dei Pearl Jam), le cui avventure sono state raccontate nell’indimenticabile film di Sean Penn “Into the wild”. Vedder ha scritto le musiche realizzando una colonna sonora diventata un cult in tutto il mondo circa 12 anni fa. Arriva “Far Behind”.
Poi l’omaggio a Firenze e al regista fiorentino Franco Zeffirelli, morto proprio il giorno del concerto. Eddie
Vedder fa venire i brividi. Sul palco con lui c’è la Red Limo String Quartet:
arriva la tenerissima “Just Breathe”, già utilizzata da Gabriele Salvatores nel
sequel “Il ragazzo invisibile seconda generazione” nella scena di ricongiungimento
familiare tra la madre e i due figli.
Il pubblico applaude convinto. Un grande gesto di umanità che Vedder ha nelle sue corde. Sempre trascinato dall’orchestra, il frontman dei Pearl Jam continua a regalare grandi momenti di musica con Can’t Keep, Sleeping by myself (dedicato alla moglie e ai figli che durante il tour non avranno il padre con loro) fino all’immensa Guaranteed.
Ancora una volta la colonna sonora di Into the wild regala emozioni vere, genuine.
Tanta gente si commuove. Intanto un gruppo di donnette pettegole cominciano ad agitarsi per la canzone successiva. Nelle tappe precedenti del tour europeo 2019 (Amsterdam e Bruxelles), questo pezzo non l’aveva ancora fatto. Nel concerto 2017 fu il momento più bello che coronò la totale simbiosi tra Firenze e Vedder. Eddie ha preso appunti. La risposta si palesa davanti agli spettatori. Mentre la luna piena si presenta in tutto il suo splendore, arriva “Black”. La dedica arriva puntuale per Chris Cornell, ex leader dei Soundgarden. Eddie, ai tempi dei Temple of Dog e poi dei primi Pearl Jam, aveva condiviso tanti bei momenti. Il suicidio del 2017 aveva scosso Vedder e la sua band. Tant’è che il nuovo disco è stato rinviato e uscirà probabilmente nel 2020.
Anche stavolta Black arriva direttamente al cuore dello spettatore. Lo ripeto: questo pezzo è da overdose emozionale. Gli occhi diventano lucidi, i cuori battono forte, la pelle trema. Una cosa indescrivibile. Il pubblico canta a squarciagola a tempo con il vocione di Vedder a scandire il tempo. Il frontman dei Pearl Jam comincia a bere vino. Stavolta lo regala, con tanto di bicchieri, al pubblico delle prime file. Segno di gradimento per l’impresa compiuta. La cosa incredibile è che la voce di Vedder rimane sempre la stessa. Non perde mai intensità e brillantezza. Con l’aiuto del “doping”, aumenta la velocità. Eddie diventa una lepre imprendibile. Arriva Partin’ ways e Porch. Nel mezzo una splendida cover di “Should I stay or should I go” dei Clash. Pubblico in delirio.
Poi Vedder lascia il palco. Sì la solita finta. La Red Limo String Quartet parte a suonare. Dopo un po’ si capisce che sono le note di una delle canzoni più importanti dei Pearl Jam. Il pubblico si sente quantomai “alive”.Da qui in poi Vedder mette la sesta e lascia tutti secchi sul posto. Con distacco. Si vola a ritmo di “Unthought Know”. Ed ecco che ritorna l’eco della frase di inizio pezzo: “quale strada stai prendendo? Respira forte… e prendi il meglio. Si, questa è la vita”. La strada porta alla mega hit “Better man” che ha due chiavi di lettura: da una parte un uomo che intraprende una relazione “tossica”, ma anche una dedica al (non tanto amato) patrigno di Vedder che sposò sua madre. Considerate che il vero nome del cantante è Edward Louis Severson. Il pessimo rapporto con il patrigno si incrinò a tal punto che Eddie assunse legalmente il cognome da nubile della madre Karen Lee Vedder. Questa storia è raccontata nella canzone “Alive” (contenuta nell’album Ten del 1991).
Al termine riecco affacciarsi sul palco Glen Hansard che nel frattempo è meno rosso di prima e meno sudato.
Dura poco. Parte “Song of Good Hope” in duetto che culmina in quel capolavoro chiamato Society. Ancora Into the wild. Subito la mia testa parte per la tangenziale chiamata Alaska, in viaggio con McCandless. La
speranza di un mondo e di una società migliore diventa realtà. Abbiamo
un’avidità con la quale abbiamo accettato di convivere.
La cosa si palesa negli spettatori che cantano a squarciagola, ma poi si dimenticano ciò che questo pezzo dice. Le azioni e i discorsi della gente parlano da sole: l’ipocrisia rivela la grande essenza di questa canzone. In poche parole Society you’re a crazy breed. Il finale di canzone arriva a livelli altissimi. Hansard e Vedder girano a 1000 e regalano un’ovazione dal pubblico (gustatevi l’esibizione qui). Insieme a Black, probabilmente la parte migliore dello spettacolo. Il concerto sta per finire. Vedder diventa come Mescal del film “Lo chiamavano Trinità”. Dov’è il vino? Sul palco arriva il tecnico del suono con elmo da centurione romano. In mano ha una bordolese. Poi attacca la musica.
Il momento di gloria del romano de Roma finisce perché arriva Hard Sun. Tra l’altro molti non sanno che la versione di Vedder è una cover di Indio, nome d’arte del cantautore canadese Gordon Peterson (la puoi ascoltare qui). Ancora Into the wild. Delirio. L’entusiasmo per un nuovo viaggio è contagioso. Come McCandless quando decide di lasciare tutto per andare in Alaska. Una canzone semplice che arriva al cuore dello spettatore. Tutti pensano sia finita, come due anni fa. E invece no. Il gran finale è riservato a una pietra miliare del rock: la monumentale cover di “Rockin in a free world” di Neil Young. Al basso c’è Hansard e ovviamente c’è l’orchestra. Il pezzo rivela la sua totale adesione al pacifismo.
Il concerto finisce qui. Le emozioni volano, il pubblico è felice, c’è qualcuno che ovviamente critica perché era meno bello di due anni fa. Qualcuno avrebbe voluto vedere Rita Pavone e Matteo Salvini a salutare Vedder. Io invece sono particolarmente felice di aver assistito a un grande concerto. Ancora una volta nella vita contano le categorie e la musica di Eddie lo dimostra.
Da circa 20 anni la qualità musicale in circolazione è piuttosto diminuita. Quando assisto a concerti come questo, invece ci si riconcilia con il vero potere che quest’arte ha: quella di unire e rendere felici tante persone diverse. Una cosa che sembra facile, ma che non lo è affatto. Chiedetelo in giro e capirete quanto l’arte può ancora fare.
Dal Firenze Rocks 2019 è tutto. Secondo quanto annunciato durante la serata, è probabile che Eddie tornerà nuovamente da queste parti. Considerando che nel 2020 uscirà il nuovo disco dei Pearl Jam.
Staremo a vedere. Alla prossima edizione.
Scaletta del concerto
Cross River
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town (Pearl Jam)
I Am Mine (Pearl Jam)
Brain Damage (Pink Floyd cover)
mmortality (Pearl Jam)
ishlist (Pearl Jam)
Indifference (Pearl Jam)
Wildflowers (Tom Petty cover)
Far Behind
Just Breathe (Pearl Jam)
Can’t Keep (Pearl Jam)
Sleeping By Myself
Guaranteed
Black (Pearl Jam)
Parting Ways (Pearl Jam)
Should I Stay Or Should I Go (The Clash cover)
Porch (Pearl Jam)
Alive (strumentale)
Unthought Known (Pearl Jam)
Better Man (Pearl Jam)
Sleepless Nights (Everly Brothers cover)
Song of Good Hope (Glen Hansard cover)
Society (Jerry Hannan cover)
Hard Sun (Indio cover)
Rockin’ In The Free World (Neil Young cover)
FONTI: Rockol, Firenze Rocks, Rolling Stone, Virgin Radio
Immagine da www.firenzetoday.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.