Il 2018 è stato davvero un “annus horribilis” per Facebook e per il suo fondatore Mark Zuckemberg: scandali, accuse di spionaggio, crolli in borsa e addii di dirigenti vari.
Ne parliamo questa settimana al Dieci Mani.
Piergiorgio Desantis
È interessante analizzare e seguire la parabola di Facebook e del suo fondatore (padrone e ideologo pensante) per capire il capitalismo contemporaneo e le sue dinamiche. È un sistema in profonda crisi in Occidente, delegittimato forse, anche a causa di grandi scandali tra i quali quello di Cambridge Analytica.
Viviamo, infatti, in un contesto globale in cui tutte le nostre azioni e movimenti su internet e, in modo particolare, quelli svolti anche involontariamente sui social vengono tracciati, profilati e rivenduti per le aziende e i loro mercati.
Facebook è veramente l’hard core di questo business che, tuttavia, appare in forte sofferenza.
La borsa parla chiaro e manda segnali univoci, probabilmente ipotizzando un superamento e una sua ricostruzione e, forse soprattutto, annusando la forte concorrenza che viene dai social che spopolano in Oriente (in Cina ad esempio Facebook non sfonda).
Forse la distruzione creativa di Schumpeter è già in moto?
Dmitrij Palagi
Ricordo i dibattiti sulla televisione. In un terribile film di Batman era uno strumento con cui si potevano acquisire (risucchiare) informazioni e memoria degli spettatori.
Sono cresciuto circondato dall’idea che guardare il piccolo schermo implicasse un disastro culturale. Bonvi disegnò anche delle strisce descrivendola come l’arma finalen del Dottor Goebbels (pubblicate su radioCorriere TV).
Quando scriviamo del capitalismo delle piattaforme e di Facebook in particolare dovremmo forse confrontarci di più con i nuovi cosiddetti “nativi digitali”.
I problemi economici di un’azienda hanno delle conseguenze rilevanti nella quotidianità delle persone. Il mercato ha però la grande capacità di trovare nuove risposte e influenzare significativamente lo sviluppo di nuovi bisogni secondo logiche di profitto.
Molti degli scandali che hanno riguardato Facebook nel 2018 avrebbero dovuto spingere la società a interrogarsi maggiormente su se stessa, invece di osservare il colosso social come si guarderebbero all’orizzonte il sorgere di Cthulhu.
A chi diamo le nostre informazioni quando le immettiamo su internet? O meglio dove vanno? Chi ne può usufruire? Che tipo di consapevolezza abbiamo di tutti gli strumenti di cui ci circondiamo?
Ci sarebbero numerose questioni da affrontare in maniera sistematica, che però andrebbero ben oltre Facebook, oggi uno strumento particolare, parzialmente in crisi ma decisamente fuori dalle semplificazioni in cui cade spesso anche il giornalismo (in larga parte travolto dai mutamenti tecnologici nel campo della comunicazione).
Facebook, il “libro dei volti”, ovverosia il tradizionale annuario scolastico consegnato a fine anno nelle scuole degli Stati Uniti, era nato come un social network completo in cui l’utente aveva la possibilità di caricare qualsiasi tipo di contenuto (testi, audio, video, link…), di fornire varie proprie informazioni personali, di entrare in contatto con altri utenti oppure con pagine relative a organizzazioni, personaggi pubblici, addirittura pubblici poteri…
La volontà di replicare un Internet nell’Internet, e l’aver reso la vita virtuale una parte molto rilevante della vita reale, hanno condotto a un cortocircuito che, alla fine, ha sovraccaricato di tensione gli utenti. I quali oggi sembrano prediligere social network più riservati, in cui l’utente fornisce minori informazioni personali e ha meno possibilità di contatti, ma in cui può caricare più contenuti.
Questo richiama, anzitutto, alla necessità di una regolamentazione del discorso web che sappia coniugare la libertà di espressione con la tutela della dignità degli utenti. E naturalmente anche a una gestione dei dati personali rispettosa delle leggi e del diritto alla privacy.
Ma apre anche uno squarcio più profondo circa le potenzialità dei social e le capacità con cui usarli.
Ad esempio: da quando Instagram ha reso disponibili le storie, ossia contenuti che si autodistruggono in 24 ore, le pubblicazioni sono aumentate esponenzialmente (in forma di storie, appunto). Ossia, la possibilità di un’espressione occasionale e fondamentalmente non importante (se fosse importante, l’utente non lascerebbe che scompaia in 24 ore) ha prodotto l’aumento di tali espressioni stesse.
Allora viene da chiedersi: con chi si comunica?
È vero che, in fin dei conti, non conserviamo copie di tutte le nostre comunicazioni: ad esempio, non registriamo le nostre telefonate. Ma quindi le reti sociali sono sociali solo perché radunano contemporaneamente una massa sostanzialmente informe di utenti, collegati soltanto dall’aggiornamento dei feed?
Probabilmente il difetto non risiede nello strumento in sé, e neppure nelle mancanze degli utenti (che pure sono spesso affetti da analfabetismo tecnologico o da diseducazione alle relazioni), ma nelle strutturali difficoltà comunicative, nelle strutturali alienazioni che producono narcisismo, disinteresse al prossimo, e in ultimo fughe dalla realtà.
Il modello di Facebook è il simbolo della nuova commistione fra liberismo digitale e totalitarismo: da una parte uno spazio formalmente libero in cui chiunque può esprimersi, dall’altra un’agorà digitale gestita e plasmata dagli algoritmi aziendalisti con finalità di incremento del fatturato.
La fortuna di Facebook, un po’ in affanno recentemente ma non in crisi, si deve alla sua logica di estrazione di informazioni per alimentare il sistema dei big data.
Se è vero, come dice Foucault, che il potere moderno nasce con la capacità di fare della conoscenza una forma di potere in grado di plasmare l’individuo nel corpo e nella mente, allora Facebook rappresenta uno stadio biopolitico in cui cosa desidera, sogna, fa un individuo non diventa solo la fonte di alimentazione di nuove e più sofisticate tecniche di potere come il marketing che rendono più efficace e “naturale” l’equazione desiderio=consumo, ma rappresenta anche un bacino di informazioni per il controllo e la sorveglianza indiretta.
L’obiettivo è l’uomo calcolabile, idealmente rappresentabile da (e riducibile a) un algoritmo, in cui tutto ciò che viene espresso soggettivamente possa diventare informazioni per il sistema che poi le utilizza per plasmare la personalità, gusti, desideri, bisogni, in un circolo vizioso in cui a vincere è solo un progetto di soggettivazione entro il modello dell’uomo-impresa e del cliente consumatore.
Il pericolo di Facebook sta nel suo meccanismo intrinseco di potere, gli scandali a cui è associato sono invece solo un elemento puramente superficiale.
Per qualche strano motivo, il fatto che Facebook venda alle aziende i dati degli utenti per influenzarne desideri e bisogni non fa paura, ma se questo viene fatto per influenzare il voto elettorale, è uno scandalo.
Ci sono buone possibilità che Facebook fra qualche anno non dominerà più il mercato mondiale dei social network ma solo perché verrà superato da strumenti ancora più efficienti di estrazione di informazioni.
Ad essere messo in discussione dovrebbe essere l’intero sistema biopolitico degli algoritmi e le sue logiche perverse, il tentativo di plasmare l’uomo a partire dalle esigenze del mercato, più che le querelle su Cambridge Analytica.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wired.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.