Oggi lo spettatore vuole realismo al cinema, ma attenzione a non volerlo a tutti i costi. Altrimenti si rischia di fare come il Riggan Thomson (Michael Keaton) di “Birdman”. Fortunatamente in Italia c’è una piccola scuola di autori che stanno ragionando, che sta provando a fare qualcosa di diverso. Non necessariamente di originale, ma sicuramente di ambizioso.
Tra questi cito Matteo Garrone, Alice Rohrwacher (Lazzaro Felice), Sidney Sibilia (la trilogia di Smetto quando voglio), Matteo Rovere (Il primo re), Gabriele Mainetti (autore di Lo chiamavano Jeeg Robot che tornerà nelle sale il 22 ottobre con “Freaks Out”) e i fratelli gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo.
Dopo l’esordio de “La terra dell’abbastanza” (2018) e dopo la collaborazione con Garrone per la sceneggiatura di “Dogman”, i due romani classe 1988 sono diventati fra i più talentuosi registi del nostro cinema.
“Favolacce”, opera seconda dei due fratelli, doveva uscire il 16 aprile al cinema. L’emergenza Covid-19 ha rinviato l’uscita a maggio in streaming sulle principali piattaforme digitali.
Nel 2018 la critica internazionale rimase sbalordita dalla solidità registica dei due fratelli. La terra dell’abbastanza vinse un Nastro d’Argento e andò alla Berlinale. Lo stesso festival tedesco ha richiamato due anni dopo i D’Innocenzo. Prima che il Covid occupasse le prime pagine, a febbraio “Favolacce” ha trionfato come miglior sceneggiatura. La “Berlinale” ha un debole per il cinema italiano ultimamente: da Fuocoammare (2016) di Gianfranco Rosi a La paranza dei bambini (2019) di Claudio Giovannesi, senza dimenticare il doppio trionfo del 2020 con i fratelli D’Innocenzo e Elio Germano per l’interpretazione di Antonio Ligabue in “Volevo nascondermi”.
Un riconoscimento che non capita a tutti. A differenza dei loro giovani colleghi, però, non hanno alcuna formazione scolastica inerente alla Settima Arte, ma sono autodidatti. Si sono nutriti di cinema e letteratura. Il risultato si vede. Al resto è bastata tanta gavetta e l’aiuto di maestri dei vari settori di cui la settima arte è composta: fotografia, montaggio, recitazione, scenografia, ecc…
Il loro secondo film “Favolacce” spiazza subito. E’ una sorta di “Raccontaccio dei raccontacci”. C’è poco fantasy. C’era una volta un sogno che oggi non c’è più (l’Italia del boom economico è sicuramente un lontano ricordo per il mondo di oggi). Questo film parla ancora una volta dei sobborghi e dell’insoddisfazione che cova senza essere mostrata. Per dirla come Pontiggia del “Cinematografo” è una storia dark tra Stephen King e Gianni Rodari. Come dice il sito Mymovies.it “quella sospesa tra il non visto e l’intuito, destrutturando qualsiasi felice mito e tenendo bene a mente che ogni crescita, anche quella più formativa, non è sempre un progresso razionale. Anzi, il più delle volte, è una rovinosa caduta”.
I personaggi tratteggiati sono sostanzialmente dei miserabili, che però si manifestano in varie forme: a volte sono avidi e violenti, a volte invidiosi e ipocriti, a volte buoni a volte cattivi. I personaggi adulti sono tutti negativi, con i nervi tesi e concentrati prevalentemente su loro stessi. Ed ecco che i D’Innocenzo centrano il bersaglio, evidenziando il contraccolpo sui bambini: invece che essere rumorosi, diventano sempre più silenziosi. La loro natura che dovrebbe essere di gioco ma anche di apprendimento, di scoperta, diventa invece pericolosa, sfociando nell’insoddisfazione precoce. Non sono né poveri né benestanti (almeno quanto sognerebbero di essere).
L’adolescenza è descritta in maniera cruda e violenta, senza fronzoli. I D’Innocenzo se ne sbattono di cosa vuol sentire lo spettatore (grazie, ve ne sono grato). A scuola non c’è educazione ma una pseudo istruzione, a casa nemmeno l’ombra. Non c’è cultura, c’è il niente, nascosto sotto il litorale cementificato e la palude bonificata.
Una storia ambientata nel profondo disagio di Spinaceto (da non confondere assolutamente con la “borgata pasoliniana”). Quartiere periferico a sud-ovest di Roma, un chilometro al di fuori del Grande Raccordo Anulare. È nato all’inizio degli anni ’70 come “quartiere dormitorio”, con grandi “palazzoni” e palazzine, villette a schiera vicino a terreni abbandonati e in mezzo a rifiuti maleodoranti. Proprio lì vivono in questa sorta di limbo questi piccolo-borghesi privi di cultura, che bofonchiano invece di parlare. Dagli anni ’80 si è arricchito di negozi, centri commerciali con uffici e aree verdi, ma fra i romani ha ancora una cattiva reputazione, di quartiere degradato ai confini del mondo. Perfino Nanni Moretti in “Caro Diario” diceva ironicamente: “Beh Spinaceto pensavo peggio non è per niente male” (lo potete vedere qui).
I genitori sono frustrati, non hanno un lavoro soddisfacente, i figli assorbono totalmente questa negatività subendola, ma non sempre riescono a reagire.
Il “non sogno”, l’incapacità di pensare, nella “Storia Infinita” di Michael Ende generava il Nulla, una forza disgregatrice capace di spazzare via il mondo da Fantàsia. Essa si genera nella mente malata degli uomini, molti dei quali si convincono e tentano di convincere altri individui che il mondo della fantasia non esiste, che non serve a nulla se non a creare inganni o illusioni. È proprio questo pensiero, secondo Ende, ad aver distrutto la società contemporanea. Ricordate il dialogo tra Atreju e Gmork? E’ più facile dominare chi non crede in niente (vedi qui).
Il film dei D’Innocenzo, a livello di rappresentazione, è l’esatto contrario della Storia Infinita, ma il messaggio è lo stesso. Vive di sensazioni, atmosfere, immagini, tante allusioni, volti che possiamo definire quasi neorealisti.
Infatti in quest’opera gli attori sono volutamente semisconosciuti perché i D’Innocenzo non volevano che lo spettatore si immedesimasse con la loro fama. L’unica eccezione è uno spontaneo Elio Germano (che interpreta il padre Bruno) che, dopo “Volevo Nascondermi” di Giorgio Diritti, regala un’altra grande interpretazione. Sua la frase che è facilmente riscontrabile oggi in diverse persone dopo 2 mesi di quarantena: “sono mesi che sono fermo. Al cervello non fa bene”.
Bisogna mostrare la crisi culturale e l’aridità che sta attraversando la società contemporanea. Specie quella italiana. Non scordiamoci che abbiamo insegnato in tutto il mondo a fare cinema e ora ci troviamo a terra, con le pezze al lato B.
I fratelli D’Innocenzo, senza essere presuntuosi, fanno un po’ come Donato Carrisi ne “La ragazza della nebbia”: si divertono a sfidare lo spettatore per non farlo arrivare alla soluzione.
Ed ecco che il famigerato “c’era una volta” diventa una favolaccia: ovvero, come dice ironicamente il narratore Max Tortora, volevate una storia realistica e invece questa è al 50% vera e al 50% finzione.
Impossibile non notare alcuni riferimenti a “Il giardino delle vergini suicide” di Sofia Coppola, qualche intuizione narrativa che ricorda David Lynch, la fotografia acida alla “Smetto quando voglio”. Senza dimenticare i toni dei film di Yorgos Lanthimos (“Il sacrificio del cervo sacro” , “The lobster”). Tuttavia rispetto al regista greco, i D’Innocenzo non hanno la stessa freddezza perché loro si sentono come quei bambini. Rievocano la loro adolescenza. Solo che loro poi hanno avuto la fortuna di uscirne attraverso il cinema e la letteratura (come loro stessi hanno più volte sottolineato). Ma soprattutto si vede l’influenza di Matteo Garrone: quel contrasto tra reale e grottesco che non può che richiamare alla mente “Dogman”. Dove guarda caso i fratelli D’Innocenzo hanno collaborato nella scrittura. Dal regista romano hanno compreso che il vero cinema è (anche) tecnica e materia. Nei loro film c’è l’impossibilità di dividere i personaggi in buoni o cattivi, perché ognuno di noi è fatto di tante sfumature, di istinto, di raziocinio e quant’altro. Inoltre c’è l’incapacità ormai cronica dell’italiano medio di non riuscire a vedere oltre le apparenze. Come succedeva ad Aniello Arena nel film “Reality”, sempre di Garrone. Tutto ciò viene detto in modo che lo spettatore si faccia un’idea senza un intervento diretto del regista. Di questi tempi sollevare temi di questa portata è assai arduo.
La sfida dei fratelli D’Innocenzo è sicuramente vinta. Sentirete sicuramente ancora i loro nomi. Speriamo continuino così.
Fonti: Mymovies.it, movieplayer, cinematographe, comingsoon.it, cinematografo.it, badtaste.it
FAVOLACCE ****
(Italia, Svizzera 2020)
Genere: Drammatico
Regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo
Fotografia: Paolo Carnera
Sceneggiatura: Damiano e Fabio D’Innocenzo
Cast: Elio Germano, Tommaso Di Cola, Gabriel Montesi, Giulietta Rebeggiani
Durata: 1h e 39 minuti
Produzione: Pepito Films, Rai Cinema, Vision
Distribuzione: Vision Distribution
In streaming dall’11 maggio 2020
Trailer Italiano qui
Intervista ai fratelli D’Innocenzo qui
Premi: Orso d’argento per Miglior sceneggiatura alla Berlinale 2020
La frase: Sono mesi che son fermo. Al cervello non gli fa bene.
Regia **** Interpretazioni ***1/2 Fotografia **** Sceneggiatura ****
Immagine da www.dire.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.