False notizie, libertà di informazione ed elezioni
Tra le domande del sondaggio Facebook in cui può capitare una persona iscritta al social network, in questi giorni, c’è anche quella legata a quanto si ritiene affidabile la qualità delle informazioni che vi si trovano.
Mark Zuckerberg si affida (almeno nelle dichiarazioni) agli utenti per avviare un meccanismo di selezione delle fonti web per le notizie, dopo aver già dato priorità alle relazioni familiari e amicali. Il grande clamore suscitato da queste scelte contribuisce a percepire Facebook come il principale luogo in cui il cittadino occidentale mediamente forma le proprie opinioni. Così non è, nonostante Ministero dell’Interno e Polizia di stato abbiano contribuito a questa idea diffusa nell’opinione pubblica. A poche settimane dal voto è stato presentato un sistema che permetterà la segnalazione di false notizie sul web alle forze dell’ordine.
Uno strumento a difesa della verità e della corretta informazione, nelle intenzioni, che integrerebbe i regolamenti dedicati alla stampa tradizionale e alle trasmissioni radio/televisive (dove comunque non mancano novità, come la scelta dell’AgCom di equiparare i giornalisti a esponenti politici nei talk show, se esprimo delle opinioni). Il tema è delicato. Riguarda la libertà della singola persona, sia in senso negativo (tutela della privacy) che positivo (diritto a una corretta informazione), ma attraversa in modo significativo il funzionamento della vita sociale in praticamente tutti i suoi ambiti.
È la verità che torna a presentarsi come problemi, a poca distanza dal successo del termine post-verità. A questo dedichiamo le nostre dieci mani.
Senza voler entrare in questioni filosofiche complesse, va prima di tutto evidenziato come una pratica narrativa come il giornalismo costitutivamente non sia mai (e non possa essere) una restituzione imparziale della “realtà” – concetto che già di per sé è alquanto sfuggente. Riportare una notizia significa compiere una serie di azioni necessariamente parziali, partigiane, biased: significa raccogliere informazioni sul tema di cui si vuole parlare decidendo cosa scartare e cosa considerare e quali piste battere, significa scegliere cosa inserire nell’articolo o nel pezzo e cosa tacere, come parlare di questo o di quest’altro elemento, significa infine lavorare inseriti in una serie di contesti istituzionali con le loro particolari culture, dalla testata giornalistica al Paese di appartenenza al contesto geopolitico di quest’ultimo. Per questo anche il “pezzo” della testata migliore più imparziale, fatto più in buona fede non può fornirci che una tra le possibili interpretazioni della realtà. Più o meno epistemologicamente giustificata e per questo più o meno informativa, ma sempre una tra le possibili (il giornalismo scientifico è una parziale eccezione, che andrebe trattata a parte). Piuttosto che cercare media da certificare con il bollino di portatori della “verità” sarebbe meglio insegnare già ai bambini ad esercitare un certo scetticismo, a non accontentarsi di un’unica fonte (per quanto “true”) e a studiare criticamente il mondo che li circonda, senza disprezzare il parere degli esperti ed i media mainstream ma senza prendere per fotografie che restituiscono la realtà quelle che sono nel migliore dei casi interpretazioni. Il cargo cult dell’oggettività peggiora i danni che notizie tendenziose o false producono.
Esiste certo una linea tra ciò che ha un rapporto con la realtà e ciò che è inventato di sana pianta, o deformato fino all’irriconoscibilità. Non è in ogni caso un rapporto d’autorità: quando il rappresentante di spicco di uno dei più grandi partiti di opposizione ed un ministro della Repubblica gettano fango sulle Ong fanno forse peggio delle centinaia di sitarelli for profit dediti all’invenzione di bufale xenofobe. Troppo facile gettare la colpa dell’imbarbarimento del discorso pubblico sull’azione ostile di attori statali stranieri. La barbarie del discorso razzista viene dall’alto, è stata scientemente diffusa e alimentata dal potere statale ed economico dominante, con buona pace dei rivalutatori del populismo. Occorre che i subalterni si liberino dei discorsi dominanti che li tengono prigionieri, le loro organizzazioni non possono e non devono invece dare una legittimità a quei discorsi e alle mostruosità che quei discorsi producono.
Da anni un’offensiva bipartisan infuria contro i contributi pubblici all’editoria. Un’offensiva che ha portato a successivi drastici tagli, che a loro volta hanno portato al fallimento e alla chiusura molte testate, pubblicazioni spesso di nicchia o dichiaratamente di parte, che però offrivano buona informazione su argomenti spesso ignorati. Il vuoto di approcci critici (ma fondati) lasciato da queste testate, nell’era di Internet, è stato riempito da un ammasso informe di blog, testate online prezzolate e dubbi siti, che fanno sì disinformazione, ma strumentalizzando un bisogno reale. Le testate mainstream, nel frattempo, hanno sempre più converso verso un approccio omologato. Perché, invece di dare lavoro inutile alla Polizia, non si pensa a ridare respiro alla buona informazione?
Mentre le fake news sono sulla bocca di tutti, proprio in campagna elettorale passa un provvedimento restrittivo che punta a far intervenire direttamente la polizia postale quando una notizia viene segnalata da molti utenti sul web. Già il concetto di fake news implica l’esistenza di un giudizio poco chiaro sull’affidabilità delle notizie, se poi si pensa che una notizia verrà segnalata alla polizia sulla base del numero di segnalazioni degli utenti stessi, si cade nel paradosso. Un giudizio imparziale evidentemente non esiste.
Chi stabilisce il rischio sociale della diffusione di dati farlocchi sull’occupazione? Nessuno, se la gran parte dei fruitori di infotainment non è in grado di leggere la farsa dietro ai dati ufficiali. Siamo d’accordo che i benefici anticancro del bicarbonato siano una fake news per comprovati motivi scientifici, ma in base allo stesso principio non andrebbero sottovalutate le bufale statistiche sull’occupazione nonostante esse vengano direttamente dai dispacci ufficiali dei principali istituti di statistica.
Il tema delle fake news diventa quindi un gioco strumentale al potere per giustificare la sua narrazione, screditando ogni controinformazione, dalla più sguaiata alla più puntuale sulla base della pura omologazione al pensiero unico. La gravità di una stretta repressiva proprio in campagna elettorale è dettata dalla volontà di imporre una visione univoca su determinati fatti, tra questi fatti non troviamo solo le cose più estemporanee e poco credibili. Il rischio più grave è proprio di coinvolgere in questo giro di vite sulle notizie anche la più banale libertà di espressione che per forza di cose si esprime via web.
In mezzo a qualche bufala c’è molta critica, dibattito e libera espressione di malcontento. Tutti elementi pericolosi e da celare in campagna elettorale. Invece, come è arcinoto, tra i media tradizionali risiede l’autentica verità con tanto di regio sigillo. Quella deontologicamente corretta che non è passibile di segnalazione e approvazione da alcuna autorità. Si veda il recente caso di Repubblica con la rivelazione da parte dei suoi giornalisti che il loro non è un editore puro e immacolato e che dunque anche chi è iscritto a un ordine non è un oracolo della verità per cui ci si deve sottomettere ai finanziatori, cioè alle banche, ai gruppi che operano nel settore dell’edilizia e via dicendo. Senza dubbio però tali news non saranno mai giudicate bufale, viviamo pur sempre nell’epoca del pensiero unico.
Sul tema di questa settimana mi permetto di rimandare a due articoli scritti nei due anni passati. Sono i resoconti sintetici di un convegno alla Camera dei Deputati introdotto da Laura Boldrini (vedi qui) e di uno organizzato dalla Scuola Normale Superiore di Pisa (vedi qui). Di entrambi è possibile rivedere anche i video integrali, per chi avesse la curiosità e il tempo, non volendosi fidare degli articoli.
Quello della Fake News è un problema delicato non tanto per l’entità del problema (su cui soffia la moda del sistema di informazione) quanto per le conseguenze che rischia di avere in una società dove le notizie orientano il mercato. Le elezioni influenzate da informatici al soldo del Cremlino o della Corea del Nord sono utile materiale per film di spionaggio dal basso contenuto di realtà: in questo senso appassionano e aiutano dal rendersi conto della realtà entità del problema legato alla libertà, alla privacy e al controllo di nuove tecnologie sempre più invasive.
Alfabetizzare e rendere ogni persona capace di orientarsi con spirito critico nel mondo contemporaneo dovrebbero essere le priorità di una democrazia. Questo non accade.
Il problema di come si fa informazione non riguarda Facebook, se non in parte marginale. Da una parte c’è la categoria di verità (una questione che si aggiorna con il mutare dei tempi), dall’altra chi detiene forme di potere diverse dal passato, senza rispondere a criteri diversi dal proprio profitto.
In tutto questo la campagna di Ministero dell’Interno e Polizia di Stato suona disarmante. Fa venire voglia di arrendersi alla barbarie di cui il politicamente corretto si rende complice, da strategico alleato della marea di ignoranza che ci circonda. Gli anticorpi migliori, al solito, sembrano arrivare da chi si organizza con obiettivi alternativi rispetto allo “stato di cose presenti”, ma in questo circuito si pagano deboli rapporti di forza e scarsa capacità aggregativa. Un complottista oggi rischia di avere più successo di un rivoluzionario…
Come sono lontani i tempi in cui Bersani ammoniva che “non si può fare politica con Twitter!” – essendosi perso evidentemente la rilevanza di Facebook nelle presidenziali Usa 2008.
L’impatto dei social network sulla formazione dell’opinione politica è ormai molto rilevante e i problemi che esso pone sono non dissimili da quelli che hanno coinvolto tutti gli altri mezzi d’informazione: la carta stampata, la radio, il cinematografo, la televisione. I falsi di propaganda non sono nati con il Web 2.0: uno al quale ho creduto io stesso, fin quando non ne ho letto la smentita, riguarda la famiglia Montefiore che si sarebbe arricchita giocando in Borsa avendo ricevuto in anticipo l’esito della battaglia di Waterloo. Ho appreso poi che il falso fu forgiato a fine Ottocento contro i Rothschild da ambienti antisemiti francesi.
Il che ci porta ai problemi fondamentali, che non sono l’esistenza dei falsi in sé bensì l’esistenza di persone che vi credono (anche quando manifestamente surreali) e, peggio ancora, di persone che ne fanno discendere un rabbioso rancore. Nel caso della fake news riguardante la sorella di Laura Boldrini, che gestirebbe cooperative per l’accoglienza dei migranti, è evidente che tra i ricettori il razzismo è un prerequisito e non una conseguenza.
L’uomo, notava Hobbes, è l’unico animale padrone del linguaggio e quindi è anche l’unico che può dire il falso. Per depurarci dal falso dobbiamo combattere il sottosviluppo sociale e culturale che ne favorisce la diffusione. Questo è un impegno di lunga durata, che forse coinvolge non soltanto la struttura socio-economica ma gli stessi meccanismi cognitivi umani.
Nel frattempo, analogamente alla pdl Fiano per la repressione della propaganda nazifascista, un valido aiuto può venire dalle strutture deputate a garantire la sicurezza dei cittadini e la democrazia politica dello Stato, ovvero le forze dell’ordine e i servizi di informazione. Quanti gridano allo scandalo per la scelta del Viminale di agevolare la segnalazione alla Polizia di fake news online dimenticano il dato fondamentale che dire il falso non è libertà. Chi si straccia le vesti parlando di Ministero della Verità e di Stato etico dimentica che sei milioni di ebrei sono stati assassinati da un regime che aveva – questo per davvero – il Ministero della Propaganda che diffondeva la fake news della cospirazione ebraica internazionale.
Qualche anno fa Oskar Gröning, “il contabile di Auschwitz”, durante il processo a suo carico si è dichiarato colpevole e ha ricordato che, nonostante le atrocità del Lager lo scioccassero tanto da fargli domandare il trasferimento al fronte, era all’epoca intimamente convinto della verità delle parole di Hitler; credeva sinceramente che, se non combattuti, gli ebrei avrebbero distrutto la nazione tedesca. Non si vede quali potrebbero essere i motivi validi per impedire il ripetersi di simili stragi.
L’argomento delle fake news è troppo spesso affrontato superficialmente mettendo l’accento sugli aspetti più epidermici: proliferazione dei social network e delle piattaforme di condivisione digitale, narcisismo dei like, ignoranza dilagante, analfabetismo funzionale e quant’altro. Non che questi aspetti siano secondari, ma forse il problema meriterebbe di essere esplorato a monte. Se invece di pensare a soluzioni ridicole e inutili per risolvere il problema, come quella di un feedback dei cittadini alle autorità competenti, in primo luogo i social network e poi in via ausiliaria gli Stati (che è un po’ come pensare di risolvere il problema delle uccisioni da arma da fuoco semplicemente chiedendo alle gente di segnalare quando c’è uno sparo), concentrassimo l’analisi sui meccanismi strutturali che hanno permesso il proliferare delle fake news forse si potrebbero compiere dei passi in avanti per arginare il fenomeno.
Le operazioni di chirurgia plastica a un mondo dell’informazione in putrefazione aiutano molto poco. L’ignoranza che rende tanto popolari certe fake news è socialmente prodotta e le radici del problema si diramano in profondità nel tessuto e nei meccanismi sociali. L’istruzione ormai non è più vista come un mezzo per orientarsi nella complessità della realtà o come uno strumento volto alla promozione dell’autonomia individuale ma è solo un set di competenze pratiche (skills) da acquisire per assecondare le necessità del mercato. Le riforme dell’istruzione in tutti i paesi avanzati hanno progressivamente eroso il sapere critico, subordinando ogni forma di conoscenza alle necessità del mercato. Gli stessi che si lamentano dell’analfabetismo funzionale e dell’ignoranza dilagante sono stati i primi a spingere per una riforma educativa ritenuta innovativa e smart.
Anche i luoghi più predisposti all’esercizio e alla diffusione del sapere critico, come le facoltà di scienze sociali, storiche e letterarie si sono dovute (o volute) adattare a un mondo nel quale solo un progetto che produce risultatati quantitativi immediati è finanziabile. Il sapere è ciò che il mercato ritiene utile per se stesso. Lamentarsi dell’incapacità delle persone di non discernere la “verità” da una bufala diventa così ridicolo se prima non si mette in luce il processo di discredito che la conoscenza critica e disinteressata ha subito e di cui sono responsabili quelle stesse personalità e istituzioni che ora si lamentano delle fake news. Si vuole risolvere il problema delle fake news? Occorre trasformare radicalmente il modo in cui nelle società occidentali si produce conoscenza.
Immagine liberamente tratta da www.fanpage.it
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.