Nel secondo anno di pandemia la statistica mostra che l’impatto economico ha prodotto, tra le altre cose, un ulteriore aumento della disuguaglianza. Al tempo stesso, è cresciuto il volume dei depositi bancari, una crescita concausata – almeno in Italia – dall’aumento del deficit pubblico e dal trasferimento di tali fondi ai cittadini sotto forma di aiuti economici. L’altra causa è però la capacità di almeno una parte della popolazione di risparmiare questi fondi invece di convertirli interamente in beni di necessità. Di questa dinamica si è occupato di recente il Corriere della Sera confrontando questo dato con le indagini mensili della Commissione europea.
Piergiorgio Desantis
Rientra ormai nella normalità vedere nelle città e nei paesi della penisola lunghe file di italiani e non italiani al momento della distribuzione di generi alimentari svolta da realtà associative, cattoliche e laiche. Queste scene narrano una situazione di povertà non solamente presente, ma consolidata. Con la fine del blocco dei licenziamenti e degli sfratti si va delineando, inoltre, una situazione di macelleria sociale davvero preoccupante. L’aumento dei depositi liquidi nelle banche italiane è un fatto reale che sconta una lunga tradizione italiana di risparmio e sacrifici, di riduzione progressiva di tutti i tipi di consumi secondari e, perfino, primari, con piccole pause durate un paio di decenni. Perché l’altro aspetto da considerare in Italia e in Europa sono i consumi fermi al palo e la tendenza ad un’ulteriore contrazione. A ciò si aggiungano i salari italiani (i più bassi d’Europa) che continuano a far stagnare l’economia interna. È la crisi più grande che il capitalismo sta affrontando, cercando una soluzione ai problemi che appaiono molteplici, collegati tra di loro e, per il momento, senza alcuna prospettiva di soluzione.
Francesca Giambi
L’evoluzione della situazione pandemica, come evidenziato in altre occasioni, ha fatto da lente di ingrandimento di diversi problemi, soprattutto di natura economica ed acuito le disuguaglianze. Non si sente più il refrain “ne usciremo migliori” perché soprattutto guardando la situazione economica e sociale si capisce come serviranno grandi doti di lungimiranza politica per riuscire a colmare le problematiche innescate.
Il lavoro è il grande sconfitto, il malato più grave, anche se parte dei sintomi erano ben evidenti prima della pandemia. La precarietà, le forme contrattuali ridotte all’osso, la “delega” lavorativa data a partite iva e liberi professionisti hanno creato un terreno fertile su cui la crisi economica ha proliferato. Nell’ultimo anno le disuguaglianze tra categorie lavorative si sono acuite ed hanno innescato anche una sorta di “rivalsa sociale”, in cui spesso il “nemico” non viene individuato nel datore di lavoro, nel “padrone”, nell’iniquità salariale, ma nello “statale”, in chi ha lo stipendio assicurato, perché forse considerato anche meno produttivo.
L’annientamento, sperabilmente temporaneo, di alcune categorie lavorative ha portato come conseguenza anche una sorta di stallo dei consumi, ma nel contempo un aumento di depositi, soprattutto nelle fasce più anziane della popolazione, a tutela di possibili altre crisi economico-sociali.
Bisogna quindi rivolgere tutte le possibili attenzioni e visioni per il futuro al lavoro e ad i suoi diritti, perché solo con una distribuzione più equa, più stabile e più giusta potremmo fronteggiare non solo il periodo post pandemico nel migliore dei modi, ma anche programmare una stabilità sociale duratura nel tempo.
Dmitrij Palagi
Lecito ritenere le letture soggettive un errore. Eppure nell’aumento delle disuguaglianze la percezione gioca un ruolo fondamentale. Ci relazioniamo a chi abbiamo intorno, con continui paragoni, immersi in un flusso costante di merci da acquistare, da una nuova dimensione digitale che ancora di più ci chiede di diventare direttamente oggetti del mercato, in cui l’apparire si declina in nuove modalità. Da alcuni meccanismi c’è chi rimane completamente escluso, con un divario di significati tra generazioni che raramente viene affrontato con consapevolezza dal dibattito pubblico, tolti ovviamente i settori di studio e gli approfondimenti specifici dedicati al tema.Più un paese è segnato dalle disuguaglianze, maggiore sarà il divario che si registrerà tra chi stava peggio e chi stava meglio.Il tutto in una realtà dove non è maturata alcuna fiducia nella dimensione pubblica, nonostante il ruolo della sanità e l’incidenza delle decisioni istituzionali nella vita quotiamo. Quanto della ricchezza privata accantonata e accumulata potrebbe essere “utilizzata” per mitigare le profonde ingiustizie che attraversano la nostra Repubblica?
Difficilmente una simile operazione potrebbe ottenere consenso in Italia. Ogni volta che si affronta questo tema le persone tendono ad associarsi a categorie superiori, nel caso in cui si stia male ma non lo si voglia ammettere (il fallimento sarebbe responsabilità nostra), oppure ritenendosi nella parte bassa della società (perché anche ammettere di avere un certo di livella di ricchezza si accompagna a forme di sensi di colpa).
Dopo oltre un anno di pandemia è inutile aspettarsi una discussione pubblica sul tempo di lavoro e la distribuzione di quanto viene prodotto, tanto in termini di consumo, quando di distribuzione delle ricchezze. Ci sono però tante ritualità che potrebbero essere superate, accettando che il futuro sia inevitabile e che non abbia alcun senso rinchiudersi in atteggiamenti difensivi, rinunciando a un diritto alla volta.
Partire da questo sentimento di forte disuguaglianza, come condizione soggettiva che riguardare larga parte della nostra società, potrebbe essere una strada per chi ambisse a rimettere al centro le tematiche sociale, per definire un programma politico. Ogni riforma è destinata al fallimento, o a un livellamento verso il basso, a difesa delle rendite e dei privilegi, se non si determinano rapporti di forza tali da costringere a un evoluzione in positivo delle cause che hanno portato alle rilevanti sproporzioni che segnano il nostro Paese.
Jacopo Vannucchi
Per circa vent’anni il centrosinistra moderato, rispettabile, ulivista o neo-ulivista, ha sostenuto la scelta di aumentare l’età pensionabile e ridurre gli assegni pensionistici per garantire la sostenibilità previdenziale. La sinistra radicale ha solitamente risposto che il problema non è generazionale, bensì di classe. Entrambe le posizioni mancavano di considerare un aspetto del problema.Il centrosinistra ha preferito sorvolare sul fatto che ridurre le tutele sociali delle generazioni più giovani, invece di investire sul loro inserimento in una dinamica di stabile crescita economica, produce un circolo vizioso di sempre maggiore impoverimento nazionale – ciò fermo restando che l’aumento dell’aspettativa della vita e dell’età media di ingresso nel mercato del lavoro rendono non irragionevole l’aumento dell’età pensionabile. Chiaramente per alcuni partiti era molto più conveniente, in orizzonte di cinque anni, scaricare i costi su coorti di età più ridotte e meno sindacalizzate.La sinistra radicale aveva ragione nell’indicare la dinamica di classe come quella fondamentale, ma troppo sbrigativamente tralasciava la questione generazionale: è proprio perché le pensioni dei padri sono maggiori degli stipendi dei figli che si produce una trasformazione nella struttura di classe di una società.Non stupisce, perciò, che l’unico gruppo anagrafico che dichiara un miglioramento economico nel primo anno di Covid-19 siano gli ultrasessantacinquenni e che il peggioramento delle condizioni sia direttamente proporzionale al calare dell’età.Anche sul tema previdenziale, ove negli ultimi anni si è timidamente parlato di “pensione di garanzia” per i giovani, valgono le conclusioni di Fubini sul Corriere: «In Europa oggi si preferisce fingere di credere che il Recovery sia la sola risposta possibile e sufficiente. E Italia i partiti, anche di sinistra, parlano quasi solo di se stessi».
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.