Pubblicato per la prima volta il 28 ottobre 2015
Quando si parla di migrazioni si parla di flussi, quasi a muoversi fossero correnti e non persone. Si parla di emergenza, come se si parlasse di un fenomeno nuovo, imprevedibile, mai successo nella storia dell’umanità. E si parla di immigrati, come se la loro vita abbia valore solo dal momento che sono sbarcati in Europa.
Tramite questi discorsi (e non solo!) le persone migranti vengono disumanizzate, viste come un tutt’uno omogeneo, un nemico che minaccia l’ordine costituito; questa “massa” porta malattie, dall’ebola alla scabbia, porta terroristi pronti a far stragi nella nostra terra e la loro semplice presenza è una minaccia alla cultura e alla religione autoctona.
Questi ragionamenti purtroppo non sono solo chicchere da bar, ma hanno una rilevante valenza simbolica che interessa non solo il discorso pubblico ma anche la sfera politica e giuridica della società; liquidarle come idee xenofobe, dettate dall’ignoranza e dal populismo potrebbe risultare controproducente, in quanto così facendo si rischia di sottovalutare i rischi che comportano.
Innanzitutto bisogna considerare come la divisione tra “noi” e “stranieri” è concepita spesso in termini nazionalistici; questa suddivisione, tra persone “nazionali” e “non-nazionali” è data da ciò che il sociologo algerino Sayad ha definito come “pensiero di stato”, ossia quella forma di pensiero che utilizza le categorie dello Stato-Nazione per definire la nostra identità collettiva; lo Stato infatti pensa e definisce sé stesso in quanto crea confini, separa chi è dentro e chi è fuori la nazione, legittimando in questo modo la sua stessa esistenza. D’altra parte la comunità dei cittadini tende a percepire lo stato come un dato immediato, lo “naturalizza”, senza percepirne la dimensione storico-sociale: in questo modo si riproducono a livello comune le categorie dello Stato-Nazione.
Seppur a causa dei mutamenti politici che caratterizzano l’era contemporanea, la concezione dello Stato e della sua sovranità territoriale è cambiata, in quanto esso non trova più la legittimazione in una nazione (basti pensare all’importanza degli organismi sovra-nazionali), la logica nazionalista del pensiero di stato non è mutata, tutt’altro.
Infatti la difesa dei confini dello Stato-Nazione e del pensiero di stato si incrementano nel momento in cui lo stesso Stato-Nazione risulta in crisi e cede la sua sovranità a strutture politiche più globali; in questo modo a un indebolimento politico ed economico dello Stato così come era concepito a partire dalla fine dell’Ottocento, si contrappone un aumento dell’importanza dei confini simbolici: la crisi dello stato odierno viene quindi coperta con la xenofobia e il pensiero di stato.
Da queste logiche nascono l’ossessione per la sicurezza dei confini, la necessità di difendere la ricchezza (che a seconda del contesto è quella Italiana, Europea o “occidentale”) dalla minaccia dei migranti; paradossalmente tra questi migranti ci sono anche quei profughi e rifugiati che scappano da guerre e disordini causati proprio dall’interesse “occidentale” di mantenere ed accrescere il proprio benessere.
Ma la disumanizzazione del migrante e l’azione del pensiero di stato non si limitano al rafforzamento delle frontiere: è nella stessa concezione della cittadinanza e nella difficoltà del singolo di vedersela riconosciuta che si evidenzia come “l’altro venuto da fuori” rappresenta in primo luogo un’alterità piuttosto che una persona. Infatti seppur nazionalità e cittadinanza sono termini distinti, che rinviano a concetti giuridici-sociali differenti, nella società contemporanea spesso i due termini si confondono; da questa confusione nasce l’idea di una “cittadinanza nazionale” che lega indissolubilmente l’appartenenza nazionale all’acquisizione di diritti, rinvia ad uno Stato unitario, ad un’identità linguistica, ad una tradizione comune, che ritrova nel principio dello Ius sanguinis la propria essenza. In quest’ottica l’esistenza stessa di uno Stato nazionale, che identifica i propri cittadini (coloro che possono partecipare alla sovranità) in base alla nazionalità, porta all’esclusione dal proprio spazio dei “non assimilabili”, degli stranieri.
Nel corso della storia i “non assimilabili” non sono solo i migranti: a seconda delle condizioni storiche e geografiche, questo status è stato applicato anche ai rifugiati, alle minoranze religiose ed etniche quali ebrei o le comunità romanì e in parte le stesse donne, che, anche in paesi “progressisti” quali la Francia o nei paesi scandinavi, sono a lungo state escluse dalla partecipazione politica, e dalla cittadinanza.
Non si tratta però solo di questioni legislative: la cittadinanza non è solo uno strumento per l’estensione dei diritti, ma può essere considerato come un denotatore di identità. In questa prospettiva l’idea di cittadinanza si sovrappone a quella della nazionalità, in quanto viene attribuita ad una nozione puramente politico-giuridica delle qualità ontologiche. Basti pensare che gli immigrati che vogliono avere la cittadinanza devono essere “naturalizzati”, essere pronti a cambiare la propria nazionalità: questa operazione non è però solo una pratica puramente amministrativa, ma investe in toto l’identità del neo-cittadino, in quanto la nazionalità è costellata di significati e simbolismi sociali, culturali, religiosi, politici e razziali.
Un esempio di ciò lo si può trovare nelle legislazioni di paesi tradizionalmente di emigrazione, quali l’Italia e la Germania: esse includono la possibilità della doppia cittadinanza, per lasciare all’emigrante la nazionalità d’origine; ciò rinvia all’idea che la cittadinanza sia strettamente legata al patriottismo, essa è un’entità che passa per l’appartenenza «di sangue», è un elemento che si eredita. Nel caso dell’Italia, la richiesta di cittadinanza e il processo di “naturalizzazione” di una persona sono fortemente favoriti per chi ha antenati italiani (anche se non ha mai di fatto vissuto in Italia), oppure per i cittadini dell’unione europea, mentre agli altri individui viene richiesto come prerequisito la residenza perpetua sul territori nazionale per almeno dieci anni. Questa concezione che lega la cittadinanza al “sangue” risulta ben visibile nel fatto che il diritto al voto è garantito per gli italiani all’estero, mentre ai migranti che risiedono sul nostro territorio, e al quale contribuiscono a costruirne la ricchezza, questa possibilità è preclusa.
Alla proposta di utilizzare anche lo Ius soli come principio di acquisizione della cittadinanza parte dell’opinione pubblica e dei partiti politici hanno risposto in maniera estremamente negativa, quasi fosse un abominio considerare legittima la presenza di persone che non hanno ereditato “l’italianità” (qualunque cosa essa significhi) dalla propria famiglia.
Questa difficoltà a separare la cittadinanza dalla nazionalità relega i migranti a una condizione di “sudditi”: ad essi viene richiesto di adeguarsi alle leggi dello stato, leggi però alle quali non possono contribuire a costruire, in quanto non godono dei diritti di elettorato. In questo modo i migranti vengono di fatto esclusi dal discorso politico ufficiale.
Ma se a livello della politica ufficiale il ruolo dei migranti è di sudditanza, essi riescono comunque ad agire, sopratutto a livello locale, ad accedere a servizi e benefici sociali e a far sentire la propria voce: difatti a fianco di una cittadinanza “dall’alto”, legata alle leggi statali e alla giurisprudenza, esiste una cittadinanza “dal basso” che corrisponde alle effettive pratiche di accesso ai contenuti della cittadinanza, alla concreta possibilità di fruizione dei propri diritti.
In questa seconda tipologia di cittadinanza vengono inclusi anche quei migranti che, pur non avendo uno status giuridico formalmente riconosciuto, sono attivi nella comunità locale, in quanto compiono degli “atti di cittadinanza” che vanno dalla partecipazione alla politica locale e al volontariato, alla partecipazione al mercato del lavoro, e dall’iscrizione all’anagrafe al confronto con le istituzioni formative nei casi di scolarizzazione dei figli. Tramite questi atti i migranti contribuiscono di fatto alla vita collettiva della comunità locale anche se non sono ancora riconosciuti come soggiornanti regolari. In questo modo riescono ad essere attivi nel contesto politico-sociale italiano, nonostante le problematiche legate al riconoscimento dei loro diritti, ottenendo in tal modo la possibilità di avere una rappresentanza.
In particolare la “voglia” di cittadinanza dei migranti, di agire in spazi in genere a loro preclusi, di ottenere una rappresentanza politica-sociale li porta ad essere sempre più protagonisti di associazioni, movimenti sociali e collettivi; movimenti quali quelli del primo marzo e le diverse associazioni di migranti presenti nel territorio, sia “etniche” che interculturali, dimostrano come vi sia una richiesta di inclusione e partecipazione politica da parte di alcuni migranti, che sentono il bisogno di far sentire la propria voce e di rivendicare i propri diritti, la propria “umanità”.
Si tratta però di percorsi politici fragili e difficili da realizzare, per svariati motivi.
Innanzitutto bisogna considerare lo status di vulnerabilità sociale del migrante dettato proprio dalla sua condizione di non-cittadino: è più difficile per i migranti, ed in particolar modo per le migranti, trovare un lavoro che gli permetta di avere il tempo libero e le risorse necessarie al fine di poter partecipare attivamente a un percorso politico; inoltre in genere vi è una minor conoscenza del territorio, delle sue leggi e una conseguente maggior difficoltà a creare rete con le associazioni preesistenti.
Un altro problema è dato dalle istituzioni locali che spesso favoriscono le associazioni italiane per migranti, a scapito di quelle formate solo da migranti, in quanto le considerano più affidabili.
Negli ultimi decenni vi è stata infatti la tendenza da parte delle istituzioni a delegare ad associazioni italiane, in quanto spesso considerate più sicure e maggiormente strutturate, gli appalti e i bandi per i servizi relativi all’immigrazione. Questa diffidenza da parte delle istituzioni nei confronti delle associazioni migranti comporta però il rischio di alimentare un “circolo vizioso” in quanto, se queste non elargiscono fondi e non affidano responsabilità alle associazioni migranti proprio a causa della loro “debolezza”, quest’ultime non riescono ad ottenere le risorse necessarie per potersi strutturare maggiormente, e quindi poter diventare associazioni più affidabili.
In questo modo però si ostacola l’autodeterminazione dei migranti, e si favoriscono fenomeni di situazioni di dipendenza dai servizi erogati dalle associazioni caritatevoli, di sovra-determinazione e nei casi più gravi di sfruttamento degli assistiti per scopi di lucro, come è emerso recentemente dall’inchiesta di “Mafia-capitale”.
Fortunatamente, nonostante queste problematiche e nonostante lo scarso supporto da parte dell’opinione pubblica a questi movimenti, la voce dei migranti si sta facendo sempre più spazio all’interno della società civile, nella speranza di vedersi riconosciuti un’inclusione politica completa.
Immagine di Gigi C. (dettaglio) da flickr.com
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.