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Ma anche sulla micro-criminalità degli stranieri occorrerebbe stare molto attenti a cedere a facili generalizzazioni che semplificano, e spesso eludono, la complessità del problema senza impegnarsi a cercare soluzioni concrete e a elaborare analisi e visioni più complete e veritiere, limitandosi al bieco additamento dello straniero come pericolo pubblico per la sicurezza dei cittadini autoctoni.
Inutile poi dire che, almeno in Italia, il numero di reati (esclusi i femminicidi e le violenze sulle donne, spesso perpetrate all’interno delle mura domestiche da parte di un familiare) sono scesi esponenzialmente, ma, al contempo, a detta di quanto ammettono politici (coadiuvata dalla cassa di risonanza dei media), sembra aumentata la percezione di insicurezza. Questa percezione è però fomentata, come detto, da alcune forze politiche che fondano il proprio programma politico e la propria azione di governo sull’alimentare il senso di insicurezza proprio per poter trovare una legittimazione e una giustificazione a politiche militaristiche, poliziesche, autoritarie, di pulizia delle marginalità e della povertà nelle città, di persecuzione dei “gruppi etnici”, di soggetti marginali come immigrati, senzatetto, Rom e Sinti, lavavetri e “accattoni”, per allargare il Daspo urbano nelle città spazzando via tutto ciò che, nella logica di tali forze politiche, mina l’ordine pubblico e la sicurezza e soprattutto l’estetica – il cosiddetto decoro – e il consumismo turistico all’interno dei centri urbani, indipendentemente dal tasso di criminalità realmente presente.
La nostra stessa percezione si inserisce in frames, in cornici, in schemi precostruiti e pre-ordinati che la orientano in un determinato modo, influenzandola profondamente fino all’interiorizzazione di una precisa rappresentazione e costruzione sociale di un certo fenomeno. La sbandierata insicurezza e la retorica della criminalità degli stranieri, propagandata da politici e media mainstream si inserisce in queste cornici, in queste griglie di pensiero attraverso le quali ci formiamo una certa visione del mondo, senza renderci però conto che questa stessa visione del mondo è essa stessa pre-condizionata, pre-costruita e viziata proprio da quelle griglie che vengono ritagliate dentro le nostre teste influenzando il nostro pensiero critico e intorno al nostro vivere sociale e che ingabbiano e compromettono la nostra autonomia di ragionamento. Se non ci dotiamo di strumenti con cui riuscire ad analizzare il reale, ci lasceremo sempre orientare da una costruzione che agisce e pensa al posto nostro, che genera il senso comune, il sentito dire che si radica fino a sostituirsi alla verità, fino a costruire una narrazione e una rappresentazione che assumono un livello di “fatticità”, di “dato di fatto”, di asseverazione che nessuno smascheramento delle statistiche parziali e orientate, nessuna considerazione logica e razionale, nessuna dimostrazione scientifica di determinati fenomeni, nessuna argomentazione di buon senso, riescono a frantumare.
E allora rimaniamo impastati nei luoghi comuni e nell’idea che la presunta cultura di determinati soggetti li renda pericolosi criminali contro cui mettere in atto apparati polizieschi e persecutori. Restiamo nella melma del senso comune, delle retoriche vuote e degli stereotipi discriminatori ed escludenti. Senza farci domande, senza porci i perché, limitandoci a dare risposte che qualcuno ha già dato al posto nostro. Risposte veloci, superficiali, sbagliate, a fenomeni e domande complessi. Risposte che inibiscono e compromettono la convivenza umana, che distruggono i diritti universali, che calpestano la dignità di determinate persone assunte ormai a pericoli pubblici, a nemici della “nostra” civiltà (quale civiltà? Contrapposta a quale presunta inciviltà??) e della “nostra” sicurezza.
Anche per quanto riguarda il luogo comune secondo il quale “gli immigrati ruberebbero il lavoro”, durante il terzo incontro, grazie alle relazioni di Federico Oliveri, ricercatore presso il Polo delle Scienze per la Pace dell’Università di Pisa e di Stefano Scibetta, sindacalista della FILCTEM CGIL, sono stati chiariti i fattori che possono determinare questa percezione errata, questa rappresentazione socio-politica. Oliveri ha parlato, usando un’espressione del già citato Abdelmalek Sayad, di “pensiero di stato”, intendendo l’abitudine a pensare “territorialmente”, ragionando secondo determinate griglie concettuali per le quali una persona esiste solo se può essere categorizzabile e identificabile all’interno di precise coordinate statali/nazionali.
Come dicevamo prima, la stessa idea di un “territorio nostro” e percepito come tale dai nostri frames mentali, dal nostro pensiero simbolico, rientra in questo “pensiero di Stato”, che per Sayad è “figlio di un’ideologia centralizzatrice e nazionalista che rimuove le differenze ‘interne’ ed esaspera le differenze ‘esterne’”: “Le nazioni e i diritti che esse si sono date in materia di nazionalità non amano i conflitti di nazionalità […]. Tutte e tutti vorrebbero un’appartenenza nazionale che escluda ogni altra forma di fedeltà a qualche altro potere, anche quando questo non sia, propriamente parlando, politico”1.
Come il territorio, anche il lavoro, in realtà, non è di nessuno, non è una proprietà privata e quindi non c’è nessun “loro” che rubano il lavoro a un “noi” costruito sulla base dell’appartenenza nazionale. È sicuramente vero che il lavoro, o per lo meno, il lavoro di qualità, il lavoro che conferisce dignità e stabilità economica, sociale e psicologica a un individuo, sta sparendo, ma il furto, se di furto si può chiamare, non è additabile agli stranieri. Se si guardano i tassi comparati di occupazione tra stranieri e italiani, dal 2014 al 2017, possiamo notare che si assiste a un fenomeno di parallelismo che segue il ciclo economico. Non c’è contrapposizione. E se il tasso occupazionale degli stranieri può risultare più alto, è principalmente per due fattori: sono i più numerosi nella fascia anagrafica 18-36, che è la più attiva e hanno una necessità vitale di trovare lavoro per poter rinnovare il permesso di soggiorno e avere la garanzia così di poter rimanere nell’Unione Europea. Per lo più gli stranieri lavoratori sono collocati nella fetta del lavoro “a basso contenuto professionale”. È altresì vero, che, pur non essendoci nel complesso forte contrapposizione, emergono comunque delle convergenze, delle tangenze in alcune aree del lavoro che coinvolgono sia stranieri che italiani così, probabilmente, da aumentare quel senso di competizione e di rivalità percepito spesso nella mentalità del lavoratore italiano che si vede “trafugare” il proprio lavoro dalla manodopera straniera.
Gli elementi che però generano maggiore frustrazione riguardano il mercato del lavoro in sé e soprattutto la stagnazione dei salari, che, unita alla frustrazione dei sovra istruiti rispetto al lavoro che svolgono, possono innescare un senso di insopportazione e insofferenza verso l’ outsider, trovando in esso il facile e comodo colpevole della propria precarietà lavorativa ed esistenziale e della conseguente frustrazione, anziché soffermarsi a un’analisi più realistica del funzionamento del sistema capitalistico che genera condizioni di precarietà, auto-sfruttamento, accettazione di qualsiasi tipo di salario e condizione lavorativa e rivalità tra categorie di lavoratori e tra lavoratori stessi. È dunque proprio nella struttura stessa del mercato lavoro e del sistema capitalistico che vanno ricercate le cause dell’insoddisfazione dilagante e dei casi di precarietà lavorativa, povertà e marginalizzazione diffusa e non, nella fetta di lavoro occupata dagli immigrati. Così come andrebbe sradicato il luogo comune secondo il quale gli immigrati “contribuirebbero all’abbassamento medio di tutti i salari accettando qualsiasi remunerazione”. Anche in questo caso si svia dal vero problema, che non consiste nell’accettare, per necessità vitali, qualsiasi tipo di lavoro e qualsiasi tipo di salario, ma nel fatto che ci sono soggetti che assumono a simili condizioni salariali, o che, senza assumere pagano a nero i lavoratori, sottoponendoli a qualsiasi ricatto, fisico e psicologico e condizioni disumane senza alcuna garanzia e tutela sindacale e contrattuale, pena la perdita del lavoro stesso.
Il problema delle economie sommerse è infatti un altro dei nodi cruciali della situazione sistemica del mercato del lavoro, ed è contro di esse che andrebbe puntato il dito contro mettendo in atto politiche di concreto ed effettivo contrasto. Purtroppo tutti questi fenomeni alimentano la percezione che il problema del (non)lavoro, del lavoro che non corrisponde alla reale formazione e alla preparazione del lavoratore, del lavoro sottopagato, della precarietà lavorativa, falsamente e ipocritamente edulcorata e mascherata dall’esigenza della flessibilità (se vogliamo essere competitivi con gli altri paesi e all’altezza delle logiche del mercato) e della continua auto-formazione che fa sentire tutti perennemente inadeguati e mai appagati, sia da imputare alla manodopera straniera e non alle logiche feroci del mercato del lavoro stesso, di un sistema che genera sfruttamento e depaupera il lavoratore della propria dignità, sottoponendolo a un ricatto meschino affinché sia disposto ad accettare qualsiasi forma di lavoro. Oggi è molto in voga il concetto di “nuove schiavitù” per riferirci a quei casi estremi di sfruttamento disumano e alla violenza fisica e psicologica che devono subire lavoratori e lavoratrici, come nel caso del caporalato o come nella vicenda delle lavoratrici rumene che lavorano nelle serre di Siracusa che vengono sfruttate e molto spesso abusate dai propri datori di lavoro. Ma tra questi casi sicuramente assimilabili a nuove forme di schiavitù e un ipotetico lavoro ideale che starebbe dalla parte opposta, c’è tutta una marea di lavoro altrettanto sfruttato che però rimane più silente, più tacita, più subdola, perché si colloca al limite della legalità. Lo stesso concetto di caporalato riesce a velarsi e mascherarsi dietro forme di para-legalità. Basti pensare al caso di Paola Clemente, la bracciante morta di fatica nei campi di Andria, che era stata legalmente assunta tramite un’agenzia interinale a sua volta perfettamente autorizzata a esercitare il proprio ruolo. Esistono degli intermediari (agenzie interinali, cooperative, piattaforme digitali come Huber, Foodora, Deliveroo etc.) che si servono e agiscono tramite meccanismi di sfruttamento (buste paga non corrispondenti alle effettive ore lavorative; non applicazione del contratto nazionale relativo al lavoro svolto; dumping contrattuale o salariale; reperibilità permanente che è una forma di ricatto per il lavoratore che, se non si dà disponibile ogni volta rischia di perdere il lavoro ecc..) e di forme di intermediazione (contratti di appalti, contratti commerciali, contratti di lavoro) che stanno al limite del legale e che non vengono contrastate da politiche attive del lavoro, in una logica che in un mondo in cui tutto è svendibile, sacrificabile sull’altare del profitto a qualsiasi prezzo, in cui tutto è funzionale alla logica del consumo, anche la persona umana viene spogliata dei suoi diritti, della sua dignità, della sovranità sulla propria vita, dell’autodeterminazione e della possibilità di scegliere il meglio per se stessa.
Sono questi i reali problemi di un mercato del lavoro che strozza il lavoro stesso, e non l’immigrato che come chiunque altro ha il diritto a un lavoro dignitoso e appagante da tutti i punti di vista. Basi pensare ad esempio, per renderci conto del problema sistemico del mercato del lavoro, che in Italia il 70/80% dei consumi alimentari viene assorbito dalla grande distribuzione e che questi enormi soggetti hanno il potere di determinare il prezzo finale del prodotto attraverso quello che viene chiamato un fenomeno di squeeze, di abbattimento, di “strizzamento” dei costi della filiera (costi della materia prima, dei trasporti, degli ammortamenti, dell’imballaggio primario, dall’energia, fino ad arrivare alla raccolta) che possono permettere ai consumatori di trovare quel prodotto a un prezzo irrisorio. Prezzo che però è appunto il risultato di una riduzione radicale dei costi che hanno realizzato quel prodotto, dunque anche della “spremitura” della quota salariale di chi, rimanendo nell’ambito dei beni alimentari, ha raccolto pomodori, arance ecc, che statisticamente è di circa il 5% ( a fronte del 12% che va alla raccolta nella filiera corta, etico-sociale dei Gruppi d’Acquisto Solidale). Questa caccia allo straniero non è nuova.
Basterebbe rileggere Marx, citato da Oliveri nella sua lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, del 1870, per capire che il conflitto tra autoctoni e stranieri è una costruzione sociale alimentata da stampa e politici: “In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime lo standard del tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’unione americana. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo”2.
Se riuscissimo a farci un quadro più complesso della realtà, lavorativa e non solo, forse ci renderemmo conto che non esistono risposte semplici, e probabilmente più comode, a problemi complessi, le cui cause sono molto più difficili da trovare, ma soprattutto più difficili da combattere e da contrastare, perché manca la volontà politica di farlo. Molto meglio diffondere l’idea che la causa della precarietà del lavoro e del lavoro sfruttato o della mancanza stessa di lavoro degno di questo nome, sia da ricercare nella manodopera straniera; meglio diffondere e radicare la falsa percezione dell’insicurezza nelle città per legittimare politiche autoritarie e discriminatorie contro la marginalità. Meglio continuare a crogiolarci in un linguaggio che annienta la complessità delle cose e che crea barriere mentali e fisiche. Meglio rimanere ciechi e ovattati in questa costruzione politica e sociale del razzismo per creare un “noi” da proteggere contro “altri” da spazzare via. Meglio fingere di credere a un’ipocrita integrazione dimenticando che con questa parola si intende un’assimilazione forzata, imposta, sempre unilaterale. Meglio nascondere a noi stessi che i conflitti di classe non esistono e che se manca il lavoro buono non è a causa del sistema selvaggiamente neo-liberista, ma perché c’è qualcuno che ha la pelle nera, o gialla,o che parla arabo o in dialetto Urdo, che viene a rubare il lavoro o a delinquere per le strade.
Gli incontri all’Asev, grazie alla preparazione dei relatori e al loro continuo impegno rispetto al tema dell’immigrazione, contribuiscono a decostruire questo immaginario, questa narrazione che irretisce e si radica fino a diventare senso comune, percezione comune che a sua volta viene elevata a realtà effettiva e incontrovertibile. Nell’era della cosiddetta “post-verità” neanche i dati, le contro-verifiche, i numeri, le prove scientifiche scalfiscono l’habitus mentale e la retorica di media e forze politiche, dimenticando troppo spesso che siamo tutti quanti esseri umani e che in quanto tali dobbiamo pretendere e rivendicare tutti gli stessi identici diritti, di cui tutti siamo portatori per il semplice fatto di essere persone. Vorrei concludere riportando una poesia molto significativa di Franco Marcoaldi che è stata citata durante gli incontri e che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, perché lì le parole sono perfette e meravigliosamente giuste.
“E dimmi, dimmi – tu, cosa ne pensi?
Un tempo, neppure poi troppo lontano,
ci intendevamo, accomunati
dalla lingua della medesima tribù.
Veniva a tutti spontaneo, naturale,
opporsi ad ogni forma di abuso
e prepotenza. Perché poi tanti fra noi
si sono fatti sordi e ciechi,
appagati di appartenere
alla ristretta cerchia dei salvati?
Allora è vero che era solo
la coperta dell’ideologia
a tenerci al caldo, uniti.
Adesso che quella coperta
si è stracciata, ciascuno viaggia nudo
e ciascuno risponde per suo conto.
Il coro tace, si è fatto solitario il canto”3.
1 A. Sayad, op. cit., p. 327.
2 http://www.bibliotecamarxista.org/marx/Lettera%20%20a%20%20Meyer%20e%20Vogt.htm.
3 http://www.biagiocarrubba.com/la-poesia-postcontemporanea-10-contiene-anche-recensione-analitica-del-libro-franco-marcoaldi-2/.
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Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.