Prima delle elezioni europee appariva comune l’opinione che nel futuro Parlamento si sarebbe formata una maggioranza composta da popolari, socialisti, liberali e verdi, la quale, riunendo tutte le forze che in varia sfumatura si definiscono europeiste, avrebbe espanso e rinnovato il patto a due Ppe-S&D (con l’appendice liberale) consentendo di rispondere con maggiore efficacia all’avanzata delle forze di destra.
A favorire questo esito sembrarono concorrere due accadimenti: anzitutto, l’impossibilità di comporre una maggioranza numerica con l’eventuale saldatura di un blocco di destra (popolari, conservatori e nazionalisti); in secondo luogo, il siluramento dello Spitzenkandidat popolare Manfred Weber, che dell’appeasement verso la destra nazionalista era stato un influente proponitore.
Con il proverbiale senno di poi, quella che sembrava la più progressista tra le soluzioni disponibili, con il laburista nederlandese Timmermans alla Commissione, appare oggettivamente impercorribile in quanto avrebbe sostituito lo Spitzenkandidat del gruppo di maggioranza relativa con quello di un gruppo minore.
L’accordo sulla von der Leyen può non essere stato entusiasmante, così come la nomina della Lagarde alla Bce – ma ricordiamo che il Fmi da lei diretto è stata la prima istituzione a compiere un’autocritica sui percorsi ultra-rigoristi con cui sono state gestite le crisi europee.
A questo mancato entusiasmo ha fatto da contraltare la mancata formazione di quella coalizione a quattro prefigurata dai pronostici iniziali.
A giudicare tuttavia da come la von der Leyen ha giocato la fase dei colloqui con i singoli gruppi e quella del voto in Aula, prevalendo infine con uno scarto ridotto (383 voti sui 374 richiesti), si può trarre una lettura non monocolore e tinteggiata tanto di opportunità quanto di rischi.
Le lettere da lei inviate, alla vigilia (15 luglio) del voto plenario, ai capigruppo socialista e liberale mostrano una decisa spinta verso una nuova concezione del potenziamento dell’Unione Europea. Fino a non molti anni fa il processo di crescita della Ue era identificato, in modo piano e banale, con il concetto di “allargamento” – allargamento, principalmente, dell’Unione e dell’eurozona. Gli stretti requisiti richiesti agli Stati candidati per accedere a tali unioni costituivano di fatto i pilastri fondamentali della proiezione esterna della Ue.
Il principio del mero allargamento si è però rivelato insufficiente a una sostenibilità nel lungo periodo, come manifestamente evidenziato non solo dall’impraticabilità di decisioni a carattere unanime, eccezion fatta per decisioni tali solo formalmente e non decisive nel contenuto, ma anche dal fatto che il referendum britannico ha per la prima volta realizzato una dinamica di “restringimento”.
Oggi, quindi, è intenzione delle aree più europeiste, e certamente della von der Leyen, di sostituire il precedente principio con uno che potremmo definire di “rafforzamento”, consistente cioè in un accrescimento non di quantità ma di qualità della Ue e dei suoi strumenti.
Dal punto di vista meramente procedurale, le linee guida su cui la neo-Presidente intende basare l’attività della Commissione sono costituite, per brevi punti, da:
- un diritto di iniziativa legislativa da parte del Parlamento Europeo, nelle more della cui assenza de jure la Presidente impegna la Commissione ad applicarlo de facto, facendo seguire atti legislativi a mozioni approvate dall’Aula;
- la promozione di liste transnazionali di candidati nelle elezioni europee (già permesse, ma solo in minima parte realizzate);
- l’abbandono del principio di unanimità sui temi fondamentali, individuati dalla Presidente come: clima, energia, politica sociale, fisco, affari esteri;
- la convocazione nel 2020 di una Conferenza sul Futuro dell’Europa, concepita come un organo di consultazione popolare che potrebbe aprire anche alla modifica dei Trattati.
Sotto l’aspetto politico, invece, emerge un obiettivo principale che informa poi le soluzioni prospettate per tutti i temi specifici, ovvero la necessità di fondare una nuova partecipazione di cittadinanza europea e un coinvolgimento popolare nelle decisioni.
Di particolare rilievo in questo senso è una specificazione contenuta nel primo dei punti indicati da von der Leyen nelle lettere ai gruppi S&D e Renew Europe, quello che prevede un’Europa a impatto zero sul clima. Dopo aver elencato tutti gli strumenti e gli obiettivi, la Presidente specifica che la transizione sarà graduale e accompagnata, in quanto il progresso ecologico «non può avvenire a spese della nostra gente e delle nostre regioni». Il riferimento evidente è a quel vasto settore di proletariato e borghesia piccola e media che dipende in larga parte o da attività industriali o dall’uso di mezzi di trasporto a carattere inquinante. Negli ultimi venticinque anni le zone carbonifere degli Stati Uniti (Ohio, West Virginia, Kentucky), un tempo dominate da democratici sicuramente conservatori ma sindacalizzati, sono diventate un territorio profondamente schierato a destra e in cui si toccano le massime punte di consenso per Trump. L’intento di evitare una torsione simile anche in Europa, e di frenarla e invertirla là dove già in essere, traspare anche dalle indicazioni fornite sulla politica commerciale. Riaffermando la vocazione internazionale del commercio europeo, la von der Leyen prospetta quest’ultimo come «aperto» e «equo», ma evita la parola «libero». In pratica, quello che era un tempo uno slogan liberal-progressista, “free and fair trade”, ha visto il primo termine sostituito con il più sfumato “open”, come a significare che la libertà del commercio non è più uno dei valori costitutivi per la nuova Commissione.
Tutto questo si riversa anche in materia di politica sociale, che viene dettagliata in particolare nella lettera inviata al gruppo socialista-democratico. Nel tratteggiare un’Europa «sociale, giusta, equa» viene riaffermato il cardine dell’economia sociale di mercato, in cui però il termine da rafforzare è quello sociale: obiettivo da perseguire restringendo le maglie fiscali nei confronti delle grandi aziende e prevedendo, tra le altre cose, un salario minimo pan-europeo. Il confronto con i monopoli è adombrato anche dalla dichiarata volontà di recuperare all’Europa la leadership tecnologica, investendo nelle nuove frontiere della ricerca (intelligenza artificiale, blockchain, informatica quantistica).
Fin qui le opportunità. Ma i rischi?
Anzitutto, l’ingresso dei Verdi nella maggioranza non si è concretizzato. Pur esprimendo apprezzamento per le inaspettate aperture a sinistra effettuate nel discorso al Parlamento, il gruppo ecologista ha confermato il voto contrario. Non solo, ma la maggioranza di partenza è più ristretta e debole di quanto in precedenza immaginabile. I socialdemocratici tedeschi hanno confermato il loro nein alla candidata merkeliana, seguiti in ciò dagli ancor più deboli colleghi francesi.
E se la volontà della neo-Presidente di rifiutare i voti della destra sovranista ha trovato risposta nell’opposizione totale del gruppo Id (anche della Lega, inizialmente orientata a favore) e quasi-totale di Ecr (i polacchi di PiS hanno abbinato un sì di principio alla libertà di coscienza nel voto), non è rimuovibile il fatto che siano risultati decisivi i voti dei parlamentari del M5s, attualmente nel gruppo dei Non iscritti.
Risulta perciò prioritario, per gli anni a venire, il rafforzamento della maggioranza tramite l’inclusione di gruppi e forze progressisti: la Spd, i Verdi, ma anche elementi della Sinistra europea.
In secondo luogo, non è possibile non giudicare insufficiente la posizione assunta in materia di immigrazione: accanto a generici impegni alla revisione del Regolamento di Dublino e a un maggior coordinamento delle attività di ricerca e soccorso in mare si prospetta di «proseguire sulla via dell’immigrazione legale e favorire l’ingresso di persone con le abilità e i talenti di cui abbiamo bisogno»: definizioni che mal si attagliano alle cause umanitarie e alle dimensioni epocali del fenomeno migratorio africano di cui le proporzioni attuali sono solo la punta dell’iceberg rispetto ai prossimi decenni – a meno di ben più radicali cambiamenti nel tessuto sociale ed economico dell’Africa.
Chruščëv ebbe a dire che la Russia assomigliava a un grande impasto di farina: uno affondava le proprie mani nella forma, vi scavava due buchi, e aveva l’impressione di aver modellato l’impasto. Ma poi, appena ritratte le braccia, lentamente ma inesorabilmente la pasta si riagglomerava, i buchi venivano colmati, e di tutto il precedente impegno non restava niente.
Questo è naturalmente il massimo e onnipresente rischio per ciò che riguarda la riforma dell’Unione Europea; oppure, che la lentezza della riforma finisca per essere superata dalla rapidità di avvenimenti più violenti e che costringano ad una mutazione in cui il fatto storico si impone alla forma.
Immagine di European Parliament da www.flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.