Pubblicato la prima volta il 2 Novembre 2016
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Nel primo decennio del Novecento, in Italia si discute dell’allargamento del corpo elettorale; interessi diversi premono per ampliare il numero di cittadini (maschi, ovviamente) a cui estendere il diritto di voto, che è ancora considerato esercizio di una capacità e non diritto soggettivo.
Il diritto di voto è ancora legato al possesso di strumenti ritenuti necessari per esercitarlo con consapevolezza, quindi all’alfabetizzazione. Ovviamente, la selezione per alfabetizzazione ha serve primariamente ad escludere una fetta enorme della popolazione – la più povera – dalla partecipazione democratica, assicurando che il governo del paese resti in mano all’esigua minoranza benestante del paese.
Quando però questo principio di esclusione viene messo in discussione, il tema della capacità del cittadino di esercitare correttamente il proprio diritto di voto torna al centro del dibattito politico.
L’estensione del diritto di voto per le elezioni del 1913 fu preceduta da un lungo lavoro di studio (abitudine che il legislatore sembra aver, purtroppo, perso). Un interessantissimo documento della Camera, “Suffragio universale e analfabetismo”, descrive la situazione demografica del paese in relazione a come si modificherà il corpo elettorale, con particolare attenzione all’educazione (e quindi alla capacità di esercitare consapevolmente il diritto di voto) degli elettori.
Il paese era caratterizzato da un tasso elevatissimo di analfabetismo, nonostante i tentativi di espansione (più formale che sostanziale) dell’obbligo scolastico, che si attesta intorno al 50% della popolazione, senza sostanziali variazioni dagli ultimi anni dell’800, con picchi del 70% al sud.
Secondo l’analisi statistica effettuata all’epoca, gli elettori, a seguito dell’estensione del diritto di voto, sarebbero passati dai circa 2 milioni del 1909 a circa nove milioni previsti per le successive elezioni del 1913. Il corpo elettorale rideterminato sarebbe risultato composto da soli tre milioni e mezzo di elettori istruiti e oltre cinque milioni di elettori analfabeti o semianalfabeti, con un gradiente di analfabetismo crescente da nord a sud.
Le conclusioni che ne vengono tratte sono molto interessanti, e dimostrano un senso di civiltà e una consapevolezza del ruolo della democrazia come strumento di partecipazione molto più sviluppato di quello odierno: “…l’elettore analfabeta può facilmente essere tratto a votare contro la propria intenzione […]. Quanto più la massa degli elettori è analfabeta, tanto più cresce la probabilità di errori e di frodi su vasta scala ed in misura tale da falsare interamente il risultato delle urne”; ed inoltre ancor più stupefacente rispetto al dibattito attuale: “la vita rappresentativa-costituzionale di un paese non consiste semplicemente nel fatto che un elettore ogni quattro o cinque anni depone nell’urna una scheda. Questo è uno dei lati meno importanti. La funzione rappresentativa in tanto si esercita coscientemente, in quanto l’elettore e il paese mantengono un controllo continuo e illuminato sul deputato e sul governo, grazie alla parola, allo scritto, alla stampa. Questa funzione sostanziale del sistema rappresentativo non può esercitarsi dagli analfabeti”.
Alla luce del dibattito attuale sulla riorganizzazione dell’architettura istituzionale e dell’ennesima riforma della legge elettorale, quel documento stimola alcune riflessioni: il problema dell’analfabetismo è stato risolto, e quindi possiamo considerare assolto il dovere dello Stato di dare a tutti i cittadini gli strumenti per esercitare il loro ruolo in democrazia? E se no, perché il dibattito politico ha smesso di occuparsi della democrazia sostanziale e si è avvitato sulle dinamiche della democrazia formale? E ancora: che senso ha un intervento sulle strutture formali di una democrazia in assenza di interventi sul problema – sostanziale – della capacità di azione consapevole degli elettori?
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Alcune risposte a queste domande ce le fornisce una decina circa d’anni dopo l’onorevole Alfredo Petrillo, in un suo intervento alla Camera prima del voto di un’importante riforma della legge elettorale.
Petrillo sostiene che l’architettura istituzionale deve corrispondere ai rapporti reali tra Camera, Governo e Cittadini. In particolare, quando il governo è forte di una grande popolarità nel paese, la Camera deve riconoscere al Gov erno il ruolo di diretto rappresentante del popolo e rinunciare, di conseguenza, alle proprie prerogative. Racconta così la situazione all’epoca: “Gli altri governi si erano sempre presentati all’Assemblea in veste di giudicabili […] Il nuovo Governo venne alla Camera da giudice: non venne a chiedere alla Camera un giudizio; venne a pronunziarlo”. E la Camera, che riconosce la forza dell’investitura popolare di cui è forte il Governo “[…] umile, devota, pareva dovesse ripetere di fronte al Governo l’ecce ancilla domini, fiat mihi secundum verbum tuum”.
Spiega Petrillo: “noi dobbiamo guardare la Camera dal punto di vista di un’altra funzione, di una funzione essenzialmente di collaborazione col potere esecutivo; […]”, e “[…] questo non può aversi se non vi è come base una maggioranza omogenea, che sorregga il Governo in tutte le sue manifestazioni”.
In questo quadro, l’opposizione ha un ruolo puramente formale; per l’opposizione deve restare lo “jus murmurandi”, o, come altri suoi colleghi sostengono anche in tempi recentissimi: il “diritto di tribuna”. Di conseguenza la legge elettorale che deve essere messa al servizio di questo progetto deve “[…] togliere per quanto è possibile l’occasione di peccare, per così dire, alle masse elettorali, per esuberanza delle loro passioni”.
Alfredo Petrillo era deputato per i liberali democratici e fu sottosegretario ai lavori pubblici nel primo governo Mussolini.
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Solo pochi anni dopo, quindi, rispetto al dibattito sul suffragio universale e la sua corretta attuazione, la nuova configurazione suggerita dal nostro Petrillo è più o meno questa: non serve un parlamento veramente rappresentativo dell’intero corpo elettorale, è preferibile insediare un Governo che goda di un ampio consenso di popolo e costruire – a posteriori e con metodi artificiali (consapevoli che tanto gli elettori non saprebbero ben usare il proprio diritto di voto) – un parlamento che si limiti a supportare l’azione del Governo, dando ad un sistema autoritario una parvenza di democrazia ma senza tutti gli intralci alla rapida azione decisionale di uno o pochi che questa produce.
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Alla luce delle ricostruzioni precedenti, viene da chiedersi se la battaglia per un elettorato consapevole, che i parlamentari di epoca giolittiana consideravano cardinale per il corretto funzionamento della democrazia, non sia stata abbandonata volutamente, e che la scelta di un sistema strutturato secondo le idee del nostro Petrillo – forte mediatizzazione della figura del capo di partito, costruzione del consenso popolare su di esso, elezione finalizzata a trasformare il candidato-leader vincente in capo del governo e a “cristallizzare” artificialmente nel parlamento il consenso popolare sul candidato-leader – sia in realtà la parte conclusiva di un progetto di espropriazione morbida della democrazia dalle mani dei cittadini, reazione ad un diritto di voto concesso per necessità ma di sicuro non gradito, che ha alla base l’impedimento all’accesso agli strumenti culturali necessari ad esercitare correttamente il proprio ruolo di elettori e si completa con una modifica in senso verticale dell’architettura istituzionale ed una compressione degli spazi di partecipazione democratica.
Colpisce come anche il dibattito contemporaneo sulle forme della politica sia, in ogni luogo in cui si sviluppa, totalmente schiacciato sulle stesse argomentazioni (con le stesse esatte parole!) che la destra usava negli anni Venti per giustificare le sue “riforme” istituzionali, e che la forza con cui queste idee hanno egemonizzato il dibattito sia tale da aver trasformato in assiomi una serie di principi: semplificazione dei processi decisionali, autonomia dell’esecutivo, verticalizzazione dei poteri, accelerazione nella produzione normativa, compressione degli spazi di democrazia partecipativa, lettura negativa del ruolo delle opposizioni, chiusura al dialogo sociale.
In un sistema così organizzato i cittadini – privati degli strumenti culturali – sono sempre più spettatori che elettori. Un sistema del genere sostanzia le teorie di un altro collega del nostro Alfredo Petrillo: Gaetano Mosca. Per Mosca, esponente della Destra Storica, parlamentare dal ’09 al ’19 e assolutamente contrario all’estensione del diritto di voto, la democrazia formale non è altro che uno strumento costruito per consentire ad una élite (legittimata a governare perché in possesso degli strumenti per farlo, contrariamente alle masse popolari) di accedere e presidiare tutti ruoli di potere del paese, che viene nella sostanza governato da un’oligarchia che attraverso la modifica delle forme della democrazia tutela se stessa.
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Mettendo da parte la fortissima tentazione di soffermarsi sul fatto che i membri del Partito Democratico si esprimano oggi con lo stesso linguaggio della destra (poi fascista) degli anni ’20, non sfugge come le “riforme” proposte dal governo Renzi – la riforma della scuola, la riforma costituzionale e la legge elettorale -, in piena continuità con i governi (di destra) precedenti, vadano con forza nella direzione della costruzione di un sistema simile a quello descritto dai nostri due liberali d’esempio, Petrillo e Mosca: divisione dei percorsi di formazione scolastica separando il canale che prepara per l’università da quello con cui si accede rapidamente a lavori di bassa qualifica, eliminazione del principio dell’universalità dell’alta formazione, differenziazione del finanziamento delle scuole e delle università per area geografica, riduzione degli spazi di esercizio del voto con l’eliminazione delle elezioni per province e senato, legge elettorale con elevatissimo premio di maggioranza, identificazione del capo di governo col capo di partito, partiti trasformati da strumenti di partecipazione democratica a comitati elettorali, rifiuto del principio socialdemocratico del dialogo sociale come strumento di cogestione.
La pratica della democrazia, in un sistema del genere, diviene pastorizia. Un gruppo ristretto di soggetti dotati dei mezzi necessari competono per la cattura e l’estrazione del voto del maggior numero possibile di cittadini-elettori inconsapevoli. Le proposte di modifica dei meccanismi formali con cui si esercita la democrazia, come quello in gioco adesso, sono strutturate esattamente secondo la logica di competizione capitalistica del mercato, in modo cioè da escludere dalla competizione il maggior numero possibile di nuovi competitor e rafforzare gli oligopoli, che – come suggeriva Mosca, e come ci ha ricordato recentemente Scalfari -in democrazia si chiamano, appunto, oligarchie.
Immagine da www.pixnio.com
Delegato sindacale CGIL dal primo contratto di lavoro, rimasto tale anche durante i periodi di precariato a vario titolo, alla faccia di chi dice che il sindacato non è per giovani e per precari. Ora funzionario sindacale per la FLC CGIL. Sono stato in minoranza di qualsiasi cosa durante tutta la mia storia politica.