A fine dicembre 2020, mentre la crisi del governo si declinava in forme sempre più concrete, la Camera dei Deputati ha approvato un ordine del giorno di Italia Viva in cui si chiede al Governo di evitare ogni penalizzazione alle testate giornalistiche. Un altro testo, proposto da Forza Italia, ipotizza di rimandare di un anno i tagli al fondo per l’editoria. il manifesto è il principale quotidiano nazionale che si è impegnato a lanciare l’ennesimo allarme che metterebbe a rischio la libertà di informazione, senza il rifinanziamento dei contributi previsti per l’editoria.
La crisi della carta stampata è un tema che viene da lontano, così come il ruolo dei quotidiani nelle cosiddette democrazie occidentali. Questa notizia richiama quindi un tema più ampio, anche perché non è la prima volta che la testata “comunista” sopravvissuta nelle edicole italiane evidenzia una situazione di rischio chiusura.
Leonardo Croatto
Nell’agosto del’ 71 il giudice Powell scrive al presidente della commissione per l’educazione della Camera di Commercio un’accorata lettera intitolata “Confidential Memorandum: Attack on American Free Enterprise System”.
Contrariamente a quanto potrebbe far pensare il titolo, quel documento non ha niente a che fare con le paranoie di un cospirazionista: il memorandum di Powell è una lucida rappresentazione degli equilibri di forze in campo nel conflitto tra classi in quel momento negli USA. Powell ha chiarissimo che, oltre a una relazione molto più stretta con la politica, educazione e informazione sono obbiettivi strategici il cui controllo può dare un vantaggio schiacciante dal punto di vista dell’egemonia culturale; egli ritiene che il capitale non stia combattendo con abbastanza forza per il controllo di scuole, università e mezzi di comunicazione, accusa gli imprenditori di non impegnarsi con abbastanza convizione nello scontro per la conquista del potere nei luoghi di produzione di cultura e informazione e invita la Camera di Commercio a farsi soggetto coordinatore di un’offensiva reazionaria su vasta scala che abbia come obiettivi primari i mezzi di comunicazione di massa e le istituzioni educative.
Il piano di Powell è ben articolato e, ovviamente, non ne vengono sottovalutati i costi; egli esorta assai esplicitamente gli imprenditori americani a investire i propri capitali nel progetto: “The type of program described above (which includes a broadly based combination of education and political action), if undertaken long term and adequately staffed, would require far more generous financial support from American corporations than the Chamber has ever received in the past. […] The staff of the Chamber would have to be significantly increased, with the highest quality established and maintained. Salaries would have to be at levels fully comparable to those paid key business executives and the most prestigious faculty members. Professionals of the great skill in advertising and in working with the media, speakers, lawyers and other specialists would have to be recruited.”
Il memorandum di Powell rappresenta plasticamente il funzionamento delle democrazie liberali e il ruolo che le grandi concentrazioni di capitale hanno nel definirne l’ordinamento; la sua lettura rende evidente l’interesse che il capitale ha sempre avuto per il controllo dei mezzi di comunicazione di massa (e incidentalmente, per la privatizzazione dell’educazione, in quei paesi in cui i sistemi d’istruzione sono ancora in larga parte pubblici).
Difficile immaginare che un sistema – per quanto debole – di sovvenzione di voci libere nel campo dei mezzi d’informazione possa sopravvivere a lungo in un paese in cui è il capitale a decidere come viene investite il denaro dello stato: il finanziamento all’editoria era destinato a morire, prima o poi, e con esso quelle voci che non appartengono a gruppi organizzati. L’errore è immaginare che questo evento sia un incidente di percorso nelle dinamiche democratiche: al contrario, questo è esattamente come le democrazie liberali funzionano.
Dmirij Palagi
“Piccolo è bello” si usava dire e talvolta si usa pensare. Spazi avanzati di informazione e di inchiesta, dove avanzare inchieste e posizioni coraggiose, sono considerati fondamentali nelle narrazioni del mondo occidentale.
Così non è di fatto da molto tempo. Il digitale che soppianta la carta e l’informazione dal basso che sostituirebbe le professionalità sono temi che vengono da lontano. Nel nuovo millennio, almeno da parte della politica italiana, non si è mai affrontata una discussione su come si diventa giornaliste e giornalisti, come si svolge in autonomia tale professione in relazione alle necessità di sopravvivere con un salario, chi può permettersi un ruolo visibile nel panorama pubblico.
Nel frattempo è nato un quotidiano online diretto dalla sempre più mediatica figura di Mentana e c’è un nuovo quotidiano nelle edicole, anche a seguito dei campi di proprietà tra i principali gruppi editoriali.
il manifesto sopravvive come unico foglio per ciò che si ritiene a sinistra del Partito Democratico, raccogliendo però innumerevoli critiche, specialmente nell reti social. La sua lunga marcia per la sopravvivenza sembrava aver raggiunto un equilibrio, del tutto fragile, che ora sembra rischiare di venire spazzato via dalla sempre presente volontà del Movimento 5 Stelle di prendersela con tutto ciò che è contributo pubblico.Il problema è l’opinione pubblica però. Quante persone leggono i quotidiani? Che ruolo effettivo hanno? Non può essere una questione di mera tutela dei livelli occupazionali di settore e neanche tradursi in teorica discussione sull’informazione. Quanto si può essere piccoli e al tempo stesso indipendenti dal sistema?Ci sarebbe da analizzare e descrivere il mercato dell’editoria. Questo è un tema politico e istituzionale, da molto tempo inutilmente prioritario.
Jacopo Vannucchi
In Italia non esiste oggi alcun giornale che occupi lo spazio intermedio fra «la Repubblica» e «il manifesto» e che possa dunque fornire una rappresentanza editoriale al tradizionale bacino del PCI, che nel suo periodo di massima espansione (1968-1977) era giunto a rappresentare circa il 30% del popolo italiano.
Non solo: è in atto un parallelo unificarsi della stampa borghese “benpensante”, oggi evidentissimo nel controllo sia de «la Repubblica» sia de «La Stampa» da parte della famiglia Agnelli-Elkann, ma forse già manifestatosi nel 2006 con l’endorsement del «Corriere della Sera» alla coalizione di centrosinistra.
Il risultato è che da questo centro «diciamo… medio-progressista» (autodefinizione del Megadirettore fantozziano) si sono differenziati una serie di fogli della destra becera i quali, però, non hanno alcun corrispettivo a sinistra – o, meglio, hanno un corrispettivo di gran lunga inferiore per bacino potenziale; «il manifesto», appunto.
Questa rassegna non sarebbe completa se non si citasse il caso peculiare de «il Fatto Quotidiano», che fornisce il corrispettivo nella stampa di ciò che è il M5S nella politica, ossia la sottrazione di (e)lettori dalla sinistra tramite un inganno demagogico; questi (e)lettori possono poi essere usati come massa di manovra.
Questo desolato panorama è la conseguenza diretta dei tagli nel finanziamento pubblico tanto all’editoria quanto ai partiti, per cui hanno maggiori possibilità di sopravvivenza quegli orientamenti politici la cui base di classe è costituita da gruppi sufficientemente danarosi da garantire un finanziamento privato.
Perché il web, la cui struttura reticolare è almeno teoricamente democratica, non è riuscito a supplire a simili tagli pubblici?Anzitutto il web, come tutte le attività umane, non è affatto esente da costi; ma anche con la riduzione di costi che esso permette il risultato è stato semmai il formarsi, a sinistra, di un pulviscolo di testate impossibilitate a fare massa, poiché espressione di gruppi ristretti. Questo però non è solo la conseguenza dell’assenza di una direzione unificante: anche i tentativi di testate digitali o cartacee del Partito Democratico non hanno avuto soverchio successo.
Il problema sembra risiedere dunque non solo nella carenza di fondi ma forse anche nelle caratteristiche del web, in particolare nella sua non-regolamentazione e nell’eccesso di offerta che deriva dai minori costi e proprio dalla struttura a rete. Un’illusione che le elezioni politiche del 2013 (duemilatredici) dovrebbero aver spazzato via per sempre è che la massa deve essere sempre organizzata: quando non lo è, ciascun singolo regredisce a (credere di) lottare solo per la propria sopravvivenza, ma, poiché l’individualismo non è fisicamente possibile in questo Universo (nel quale tutti siamo sempre il risultato delle nostre interazioni sociali), nei fatti l’esito è quello di una riagglomerazione come limo informe, un corpo fisico privo di coscienza.
Alessandro Zabban
Il mondo dell’editoria rappresenta in modo plastico come si viva in una democrazia formale ma non sostanziale. Si possono fondare quotidiani e riviste, la libertà di parola è sancita dalla Costituzione. Questo permette anche a tantissime piccole realtà editoriali di sinistra di esistere. Ma quale impatto sociale più vasto possono avere nella società senza avere a disposizione i fondi necessari? Pochissimi gruppi editoriali che hanno alle spalle ingenti finanziamenti privati controllano quasi tutti i giornali del globo. Parlare di libertà in queste condizioni è ipocrita. All’interno di un ordine liberale come è il nostro, l’unico modo per rimediare almeno parzialmente alla mancanza di democrazia formale sarebbero degli ingenti finanziamenti pubblici all’editoria. Quelli esistenti sono però minimi e difficili da ottenere per le piccole realtà. La sinistra italiana (e non solo) si trova in un circolo vizioso: minor forza politica significa poter esercitare meno pressioni sul sistema per riequilibrare il mondo iniquo dell’editoria. A sua volta, la scarsa diffusione delle proposte giornalistiche di sinistra frena ancor di più la circolazione delle sue idee e ne indebolisce la forza politica.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.