E-book e libri: la morte di entrambi?
Negli Stati Uniti il numero di e-book venduti è calato drasticamente, mentre è aumentato quello dei volumi cartacei. Gli ultimi due anni vengono letti da parte della stampa internazionale come l’attestazione di una mancata rivoluzione: il digitale non sostituirà la cellulosa. Altri tentano di descrivere un futuro di armonia tra diverse offerte dei contenuti narrativi.
Le nuove tecnologie godono di almeno due principali filoni narrativi, a livello diffuso. Da una parte la favola dell’emancipazione, di un infinito ventaglio di possibilità aperte al futuro e destinate a liberarci dal peso del passato (con qualche nostalgia vintage, persino per le audiocassette, come attesta la fortunata saga cinematografica dei Guardiani delle Galassia). Dall’altra l’ombra dell’oppressione e del controllo sembra allungarsi a banda larga verso di noi. Si passa da un’attestazione assoluta ad uno slogan eclatante, confondendo chi prova a stare al passo della stampa tradizionale e del frammentato mondo dell’informazione web.
Restano però i dati: Amazon ha acquistato Whole Fods (catena di negozi statunitense, fisicamente radicata sul territorio), mentre Walmart ha risposto con un accordo assieme a Google.
Nel frattempo la produzione di contenuti visivi sta ridefinendo anche il mondo della produzione cinematografica e di intrattenimento (difficili da ricondurre alla classica definizione di “serie televisive”). Il televisore e lo schermo dei nostri telefoni ripropongono gli stessi commenti legati agli e-book, anche se raramente ci viene proposto un ragionamento complessivo sulla “fruizione di cultura”.
Il mondo dell’intrattenimento pare spostarsi al centro del consumo occidentale, plasmandosi attorno alle nuove tecnologia.
Da queste note “di costume”, di grande successo su quasi tutte le testate nazionali ed internazionali, vogliamo provare una riflessione a dieci mani.
È naturale che le fortune (e le sventure) dei mercati dei libri cartacei e degli ebook dipendano al giorno d’oggi in modo preponderante da mode culturali, legate fondamentalmente alle pratiche di creazione e performance della distinzione socioeconomica. Ed è naturale perché gli ebook ed i dispositivi per leggerli, che ci piaccia o no e tranne rari casi specifici, sono ormai paragonabili a livello di comodità di lettura ai loro cugini cartacei, mentre quest’ultimi continuano ad avere dalla loro un certo impatto estetico e d’arredamento e una – correlata – maggiore capacità di generare distinzione sociale.
Un po’ come i dischi in vinile, che perdendo la loro immediata necessità come supporto audio sono diventati una specie di badge del vero musicofilo e in questa forma continuano a vendere benissimo, una bella libreria privata fornita magari di edizioni care e prestigiose, oppure un più semplice libro in borsa, continuerà a fare un’impressione di status ben maggiore di un rettangolo di plastica.
È un oggetto così semplice come un moderno paperback a conferire l’ambito status di “lettore”, creato da un mix di anni di campagne allarmistiche sul tasso di non lettori oltre che da decenni di trasformazioni culturali scarsamente studiate, e a donare un’aura di capitale culturale, anche se magari il paperback in questione è un romanzo spazzatura o se il “lettore” in realtà non legge nemmeno la Gazzetta dello Sport.
Più che preoccuparsi di improbabili catastrofi a cui la nostra civilizzazione andrebbe incontro arrendendosi alla malvagia tecnologia sarebbe il caso – per gli ebook come per la vendita di mp3 come per lo streaming video e musicale – di farsi un paio di domande sulla proprietà intellettuale. Il pessimo abbinamento tra una disciplina del copyright che ha radici datate e progresso tecnologico ha permesso che ogni passo avanti di quest’ultimo si trasformasse in una fonte di quello che l’antropologo Stephen Gudeman ha chiamato super-normal profit: una quasi-rendita derivante dal possesso esclusivo dei diritti legali di sfruttamento di un’innovazione, non un tipo “aberrante” di profitto derivante dall’innovazione, ma una sua declinazione normale.
I DRM, Digital Rights Management, blocchi software che impediscono che il file di un ebook o di una canzone in mp3 possa essere condivisa o riprodotta su un dispositivo diverso da quello specificamente designato, si sono fatti strada in ogni tipo di contenuto digitale senza che nessuno – tranne rare eccezioni – sentisse l’esigenza di regolamentarli, per tutelare quelli che in fin dei conti dovrebbero essere i diritti di proprietà del compratore.
È consueto, specie nel mondo anglosassone, trovare in vendita ebook di testi scientifici a 20 e più sterline, magari editi da quegli stessi enormi gruppi editoriali che si sentono in dovere di censurare la scienza per non offendere un potente governo straniero o che prestano credibilità a riviste scientifiche predatorie.
Per esperienza, ogni minimo ragionamento sulla cultura libera, fuori dagli ambienti “nerd”, viene accolto con sbuffi e scrollate di spalle, magari in nome del benaltrismo. Eppure le lamentele contro questa o quella piattaforma non mancano mai. Potere del passato…
In Occidente l’analfabetismo funzionale è una realtà che si afferma con sempre maggior forza con l’aziendalizzazione della scuola. I dati sul calo nella lettura di libri sono preoccupanti. In Italia in seguito alla crisi abbiamo subito un drastico calo anche nel settore editoriale, e ancora oggi il numero complessivo dei lettori italiani risulta in calo del 3,18 % tra il 2010 e il 2016.
Indubbiamente la lettura in formato digitale non garantisce la qualità del cartaceo, in ogni caso consente di abbattere i costi di produzione e di offrire il prodotto a prezzi inferiori, consentendo comunque la divulgazione del sapere tra una popolazione sempre più alienata dal mercato dell’intrattenimento digitale.
In un mondo sempre più orientato verso forme di disinformazione, qualsiasi forma assuma la ricerca di un sapere critico è da accogliere e sostenere.
Inoltre, resta da affrontare anche il tema della distribuzione cartacea che assume forme sempre più massificate (vedi Amazon qui) che consentono di incrementare i profitti e soppiantare i settori di mercato concorrenti (vedi l’apertura degli Amazon Books).
È complicato scrivere di fenomeni di “costume e società” senza scadere nel gossip o nel banale è complesso. Solitamente infatti quasi nessuna testata ci riesce, nemmeno quando si sfogliano riviste specializzate in nuove tecnologie.
Non a caso rispetto a libri ed e-boook si è consumata un’oscillazione ai limiti del ridicolo. Prima è morta la narrativa (e saggistica) su carta, ora è il turno del digitale. Nel frattempo si consuma l’aumento vertiginoso della quota di pubblicità raccolta sul web, mentre crolla quella dei periodici stampati (resiste la radio, cala la televisione, lieve aumento per i cinema).
Guardando i dati economici dovrebbe diventare centrale un’osservazione: l’industria culturale, più che in passato, è fondamentale per il mercato. Tra i principali colossi figurano sempre più coloro che si occupano del tempo libero, cioè tempo di consumo.
Perché dovresti scegliere tra cartaceo e digitale, quando puoi convincere qualcuno ad acquistare entrambe le versioni, o assecondare la tendenza a “possedere” a chi si pone problemi di spazio (i lettori forti non hanno più limiti con le nuove tecnologie).
I fenomeni di costume sono fortemente influenzati dalle leggi economiche, anche se il mercato è pronto ad ascoltare ovviamente le tendenze più facili da ammaliare.
Interessante è vedere come il mercato dell’autoimprenditorialità abbia conquistato l’ambito editoriale. Amazon lucra anche su chi sceglie di pagarsi, a costo irrisorio, una propria opera, per poi venderla ad amici o cultori dello specifico tema. Lo facevano anche alcune case editrici, ma con strumenti diversi.
Non c’è niente di nuovo. È il mercato. Il costume in una società capitalista non è mai esterno dal resto del contesto sociale. O si ragiona di come si produce cultura, di come cambia il tessuto economico anche in ambi di fruizione del tempo libero, o si finiscono per scrivere sentenze ridicole ai posteri, convinti che tanto nel caos generale nessuno si ricorderà di ciò che si è detto o scritto.
Di tutte le ragioni addotte per spiegare il calo di vendite dei libri digitali la più interessante è forse quella relativa ai consumi delle giovani generazioni – quelle, si presume, che avrebbero dovuto costituire il parco di mercato per la nuova tecnologia. Già quattro anni fa oltre il 60% dei giovani britannici dichiarava di preferire la versione cartacea a quella elettronica e la maggioranza di loro fornì come motivazione “mi piace tenere in mano il prodotto” (qui).
La mente non può che andare a (serie di) libri di grande successo, come “Harry Potter”, che hanno generato negli anni una comunità estremamente fidelizzata e un universo culturale espanso. Harry Potter è stato riedito innumerevoli volte, in vesti grafiche che hanno catturato l’interesse estetico degli appassionati. Ma pensiamo anche a fenomeni in cui il cartaceo è il punto di arrivo o, meglio, di ritorno di un altro settore: ad esempio si guardi il boom delle vendite di “A song of ice and fire” causato dalla serie televisiva prodotta da HBO.
Viviamo nell’era delle “storie” sui social network, che si autodistruggono nel corso di 24 ore, e quindi dobbiamo chiederci: questo revival del cartaceo è un mero tributo alla vanità estetica oppure tradisce la preoccupazione di conservare un supporto di informazione, una stele di Rosetta che possa essere recuperata e decifrata anche dopo mille anni?
Esiste sicuramente una dimensione che fa appello alla ricerca di senso da parte dell’essere umano: non per niente i casi letterari citati narrano di universi epici e popolati di profondi fedi politiche o morali. L’anno scorso ebbi a suggerire, provocatoriamente ma non troppo, la candidatura di J.K. Rowling a leader laburista: una personalità della sinistra interna ma in grado di attrarre anche l’elettorato moderato e, soprattutto, con un messaggio popolare e solido. Ma il suo “Il seggio vacante”, un’acuta denuncia del classismo della società britannica, non ha avuto il successo di Harry Potter.
Le persone amano sognare per fuggire da una realtà oppressiva, perché lottare è una fatica in più per chi lavora e soffre. Per questo Corbyn ha battuto Smith e i suoi tediosi, antiquati riferimenti al governo laburista del 1945. Nella campagna elettorale Corbyn ha capito meglio di altri che la lotta politica e programmatica deve oggi essere coniugata a una dimensione narrativa leggera: nell’oceanico comizio ai giovani di Glastonbury disse che la politica ha a che fare con la vita di tutti i giorni ma, significativamente, la prima definizione fu “ciò che sogniamo”. Ben Okri, il poeta preferito di Corbyn, gli ha dedicato la poesia “Un nuovo sogno in politica”.
La tecnologia non è mai neutra. Questo perché essa viene sempre concepita, immaginata, pensata e poi impiegata e sviluppata in un certo contesto storico-sociale. Basta leggere come è nato internet per rendersene conto. Una tecnologia che si sviluppa in un contesto come quello del capitalismo contemporaneo tenderà a plasmarsi secondo leggi e convenzioni di una società di mercato: Facebook ha avuto successo in quanto esalta e ottimizza quegli elementi narcististici e quei legami liquidi tipici della nostra società.
Successivamente, quando il potenziale di questo social network è stato completamente compreso da chi dispone delle adeguate risorse, è diventato anche uno strumento indispensabile per le nuove forme di marketing e le nuove pratiche di controllo. Questo però non significa che ci si possa permettere di rifiutare la tecnologia in quanto “strumento della borghesia”. Difficilmente si può pensare di contrastare il capitalismo senza usare le sue stesse, formidabili, armi. Faremmo la triste fine di qualche sfortunata società tradizionale dell’Africa Centrale o dell’Amazzonia, spazzata via del “progresso” tecnologico. L’Armata Rossa ha sconfitto il nazismo con quelle stesse armi che furono messe a punto dall’occidente per colonizzare mezzo mondo.
Occorre però uscire da quell’entusiasmo ingenuo di chi vede nelle nuove tecnologie la via per cambiare il mondo senza sporcarsi le mani. La tecnoscienza attuale ha l’aspetto di una nuova religione che si alimenta su una metafisica del software e un culto dell’immateriale (anche molti noti marxisti post-operaisti sono stati traviati da questa falsa illusione), che ha come sacerdoti i guru della Silicon Valley e che promette nuove forme di socialità e condivisione in un mondo in realtà sempre più grigio e reificato. Una sovrastruttura inquietante di una base economica sempre più predatoria e iniqua.
L’industria culturale di massa non è esclusa da queste problematiche tecnologiche. La maggiore possibilità di accesso ai prodotti culturali riproducibili in serie è sicuramente l’esito del miglioramento delle tecnologie informatiche e di una trasformazione nelle logiche economiche: guardare un film in streaming o ascoltare un disco su Spotify non è pirateria ma un nuovo modo di “comprare” un certo prodotto, anche senza tirar fuori la carta di credito.
Con le nuove tecnologie il consumo si è democratizzato ma la speranza che con internet arrivasse, dal basso, la possibilità di rovesciare l’apparato industriale della produzione culturale è rimasta una illusione. La capacità di plasmare le scelte di consumo, di omologare verso certi prodotti è anzi probabilmente aumentata proprio perché nell’era del digitale il connubio fra produzione, consumo, pubblicità, marketing e saperi/poteri connessi (psicomarketing, scienze cognitive e comportamentiste) è sempre più stretto e le tecnologie di dominazione sono sempre più raffinate.
Rispetto a tutto questo, mi sembra che la dicotomia fisico/digitale sia poco rilevante: la rivoluzione digitale è in corso anche se la gente continua a comprare vinili o libri cartacei perché nel frattempo con le nuove tecnologie si trasforma l’organizzazione del lavoro, viene ripensato il tempo libero e vengono riconfigurate le relazioni sociali. Intento però resta paralizzante lo sgomento della sinistra di fronte a un mondo che si trasforma più rapidamente delle nostre possibilità di interpretarlo.
Immagine liberamente tratta www.meltwater.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.