Dopo la chiusura della partita del Quirinale si sono moltiplicati i segnali di impazienza di Draghi nei confronti dei partiti della sua maggioranza. Nel corso delle trattative per l’elezione del Capo dello Stato pare che il Presidente del Consiglio sia rimasto più che deluso dal caotico immobilismo dei partiti politici, incapaci di gestire appropriatamente un appuntamento istituzionale così delicato.
Si tratta di un giudizio forse troppo tranchant se applicato indiscriminatamente ai “partiti”, ma certamente una critica di quel tipo non è lontana dal cogliere nel segno rispetto almeno alle due maggiori forze del Parlamento, ossia il M5S e la Lega.
Che il capo del governo sarebbe stato poco disposto a tollerare ulteriori manifestazioni di indisciplina – letta come un sintomo di incompetenza – era stato chiaro già dal giro di tavolo condito di sorrisi con il quale aveva aperto il primo Consiglio dei Ministri dopo la rielezione di Mattarella.[1] Il livello di attrito ha acquisito tratti sprezzanti quando il Presidente del Consiglio ha dichiarato in conferenza stampa «che se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza probabilmente un lavoro me lo trovo anche da solo»[2], respingendo al mittente le ipotesi di promoveatur ut amoveatur («mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando una sollecitudine straordinaria nei miei confronti»).
Al di là di come si evolverà il confronto tra Draghi da un lato e la sua maggioranza e i ministri che ne sono espressione dall’altro, per esaminarne le ragioni e le linee di scontro è utile tornare ai giorni dell’elezione quirinalizia. Il clima dei rapporti fra un capo del governo la cui ambizione alla Presidenza della Repubblica non era certo un mistero e i parlamentari che a tale magistratura avrebbero dovuto eleggerlo è ben reso da una dichiarazione attribuita al forzista Giorgio Mulè (peraltro sottosegretario alla Difesa): «Questo Parlamento non sarà il massimo [l’originale è un po’ più colorito], ma Draghi non può trattarci così!».[3]
In realtà, il rispetto verso il Parlamento e il riconoscimento della funzione centrale che esso riveste nel nostro impianto costituzionale sono stati uno dei pilastri della condotta di Draghi lungo tutta la sua funzione di governo, come dichiarato fin dal ricevimento dell’incarico[4] e ribadito ancora di recente durante la presentazione della riforma del CSM.[5]
L’apparente contraddizione si scioglie facilmente considerando meglio le dichiarazioni non solo di Draghi, ma anche della persona che, nei giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica, era apparsa come il più autorevole campione di una percepita riscossa della politica contro i tecnici – il senatore Casini.[6] Solitamente i cantori di tale parte ricorrono alla citazione di frasi rese da Vittorio Emanuele Orlando durante il dibattito all’Assemblea Costituente: «il tecnico della politica è l’uomo politico! Vi è una tecnica della politica, la quale appartiene ad una categoria di tecnici che sono gli uomini politici. Il vero uomo di Stato, nelle questioni tecniche che deve affrontare, deve sapere servirsi degli esperti o dei tecnici, ma deve poi tradurre le loro conoscenze in un’azione di Governo e politica, per cui occorre ben altra vocazione, ben altra intuizione e ben altra esperienza».[7]
Ora, fa davvero sorridere pensare che possa non essere un tecnico della politica, un uomo politico, una personalità che, come Draghi, è stato al vertice apicale della Banca d’Italia, della Banca Centrale Europea, e infine del Governo italiano. Per citare solo l’esempio più ovvio, richiamato dallo stesso Draghi, il Presidente della BCE deve continuamente interagire – non sempre in concordia – con il Ministro delle Finanze tedesco.[8] A questo punto sembrerebbe che il tecnico della politica coincida non con il politico, bensì strettamente con il parlamentare. Se non fosse che degli ultimi cinque Presidenti della Repubblica (Ciampi 1999, Napolitano 2006, Napolitano 2013, Mattarella 2015, Mattarella 2022) soltanto uno era parlamentare al momento dell’elezione: Napolitano al primo mandato, e per di più come non eletto, bensì senatore a vita. Ciampi non era mai stato eletto in Parlamento, Mattarella lo era stato l’ultima volta nel 2006, Napolitano nel 1994.
L’idiosincrasia dei parlamentari verso Draghi discende dunque né dalla sua estraneità alla politica né dalla sua estraneità al Parlamento, bensì dalla sua estraneità ad un sottoinsieme ancora più ristretto: quello dei partiti.
L’antipartitocrazia nella Prima Repubblica
È noto che, almeno nel periodo della cosiddetta Prima Repubblica, l’Italia abbia vissuto uno squilibrio nel ruolo dei partiti: da un lato essi erano i veri luoghi decisionali della vita politica, e il Parlamento si limitava a ratificare decisioni che i partiti avevano preso – perfino quando non lo faceva, era per causa dei franchi tiratori, cioè di vicende interne ai partiti. Dall’altro lato, i partiti, che pure sono enti di rilievo costituzionale, hanno sempre avuto e continuano ad avere lo status di enti non riconosciuti.
Continuando a limitarci per ora all’Italia dalla Liberazione a Tangentopoli, questo squilibrio parve giustificare agli occhi di alcuni una polemica contro la «partitocrazia», neologismo in cui il partito si sostituisce al dèmos come depositario della sovranità. Nella polemica antipartitocratica è possibile rintracciare almeno due filoni, quello fascista e quello tecnocratico. Il primo evidenzia non soltanto i partiti come veicolo di corruzione e quindi di mancato decisionismo, e come elemento di divisione della nazione, ma ritiene altresì che la partitocrazia sia una forma di esercizio del potere che ipocritamente replica proprio quell’occupazione inamovibile del potere rinfacciata al partito fascista. Il filone tecnocratico muove invece da una prospettiva opposta, vedendo cioè i partiti come un indebito filtro delle energie della società civile, unendovi però sempre la denuncia di una corruttela che drena sangue dai settori propulsivi della nazione (sostanzialmente, l’iniziativa individuale).
Pur muovendo da principii ideologici diversi, di fatto queste due correnti hanno operato in comune ogniqualvolta sia stata prospettata la formazione di un governo di tipo tecnico. Come esempio tipico si ebbe il ventilato esecutivo che, guidato dal Presidente del Senato Merzagora, avrebbe dovuto sopperire alla frana del centrosinistra nel 1964: nelle parole di allora di Pietro Nenni, «un governo di emergenza, affidato a personalità cosiddette eminenti, a tecnici, a servitori disinteressati dello Stato, che nella realtà del Paese quale è, sarebbe stato il governo delle destre, con un contenuto fascistico-agrario-industriale, nei cui confronti il ricordo del luglio 1960 sarebbe impallidito».[9]
L’unione tra l’antipartitocrazia totalitaria fascista e l’antipartitocrazia libertaria borghese nasceva appunto sulla base della «realtà del Paese quale è», ossia dell’interesse dei grandi gruppi capitalistici di stroncare l’azione politica dei partiti di massa. L’artificio retorico in tal caso consiste nel dipingere il partito come opposto al dèmos, quando invece esso è proprio la forma specifica per mezzo di cui il dèmos agisce efficacemente, concorre con metodo democratico (come recita la Costituzione) a determinare la politica nazionale.
Ovviamente, al gioco partitocratico – per adottare la terminologia dell’antipartito – non erano certo estranei gli stessi partiti politici che organizzavano quel tipo di interessi. Nell’aprile 1993, annunciando le dimissioni del proprio governo, Giuliano Amato affermò alla Camera che quanto stava morendo era «quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale».[10] Un’affermazione che fu approvata entusiasticamente da due sole forze, la Lega Nord e il Partito Radicale, ma che fuori dal Parlamento fu promossa con entusiasmo da un altro intellettuale socialista, Luciano Cafagna.
Analizzando, a mero titolo di esempio, i risultati elettorali nel Comune di Milano si può osservare come il consenso alla Lega Nord alle amministrative del 1993 e alle politiche del ’94, e quello a Forza Italia alle politiche ed europee del ’94, fosse correlato strettamente al consenso precedente a quattro partiti ben individuati: MSI, PRI, PLI, PR.[11]
I partiti italiani oggi
Sembrerebbe dunque che, nella sua polemica contro i partiti pur nel riconoscimento formale della centralità del Parlamento, Draghi invererebbe un contenuto di oggettiva reazione capitalistica, un «torniamo alla Costituzione» analogo al «torniamo allo Statuto» con cui l’ala destra del notabilato liberale intendeva ripristinare l’autoritarismo regio al di sopra dell’azione politica di massa.
Ma un giudizio simile sarebbe miope. Non terrebbe cioè conto della nenniana «realtà del Paese quale è». Nella Prima Repubblica i partiti erano veramente, almeno per i primi trent’anni, vettori di espressione del dèmos. Non solo riflettevano genuinamente l’articolazione sociale interna della nazione, ma garantivano uno spazio democratico che rendeva fattivamente possibile l’espressione politica dei loro gruppi sociali di riferimento.
Oggi i partiti sono diventati invece gli attori di un trinceramento oligarchico. O, meglio: le forze che hanno sempre rappresentato l’oligarchia continuano a fare il loro lavoro, mentre quelle che un tempo rappresentavano le masse (o che discendono da chi un tempo rappresentava le masse) si sono votate più che mai a esigenze di governance che prescindono dal controllo popolare.
C’è invero ancora una differenza fra questi due campi. Quello che è nato oligarchico mira a restringere il margine di azione dello Stato, e con esso quello del popolo, a vantaggio dei potentati economici. Dire che Lega e Fratelli d’Italia siano contro l’Unione Europea, ad esempio, è fuorviante: sono contro l’integrazione europea, ma non certo contro un mercato libero, disarmonico e senza controlli. Il campo che invece oligarchico non è nato, ma lo è diventato, esprime un’istanza diversa: non si limita a favorire le forze di mercato, bensì intende impedire che i contraccolpi della loro libertà travolgano le istituzioni dello Stato (il cui compito, comunque, è di favorire ordinatamente il mercato). Per questo il Partito Democratico è il più solerte attore di taglia-e-cuci costituzionali e regolamentari che hanno l’obiettivo tanto di restringere l’influenza popolare sullo Stato quanto di garantire il continuato funzionamento della macchina statale: dall’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti al taglio dei parlamentari, dall’accorpamento delle commissioni parlamentari alle penalità per i parlamentari che lasciano il gruppo di elezione, sino all’azzardo di cambiare persino poteri e mandato del Presidente della Repubblica per risolvere una scadenza istituzionale contingente.
Per garantirsi una base di massa la destra parla alla falsa coscienza dei ceti subalterni (xenofobia, armi libere, maschilismo…), il centrosinistra invece alla falsa coscienza della borghesia (ogni tanto una bella campagna sui diritti civili con Pisapia, Saviano ed Elly Schlein), ma dietro la cortina di fumo ci si incontra sempre: maggioranze eterogenee hanno approvato sia la riduzione dei parlamentari sia l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti.
Poiché i partiti oggi non rappresentano, nel loro complesso, un effettivo vettore di trasformazione politica come espressione della volontà popolare, la loro autodifesa assume di fatto un carattere di rendita di posizione al tempo stesso parassitata e parassitaria. Parassitaria oggettivamente per la loro mancata capacità di dar voce alla popolazione, ma ancor più parassitata in quanto ostaggio dei reali poteri che determinano le scelte strategiche in campo economico e politico.
L’insofferenza di Draghi nei loro confronti assume quindi i tratti non già di condiscendenza o di tecnocrazia antidemocratica, bensì all’opposto un’esigenza oggettiva di recuperare alla politica il controllo decisionale. Certo in assenza di formazioni politiche organizzate che sostengano tale esigenza vi è il rischio che essa assuma tratti bonapartisti, con l’illusione di un uomo risolutore che «fa silenzio, ed arbitro s’asside in mezzo a lor». Ma se declinata in vista della creazione di un nuovo potere statale, di nuove istituzioni regolatrici del mercato, e anche di nuove formazioni politiche dotate di reale efficacia, l’azione politica di Draghi può essere l’innesco per rompere la continua involuzione oligarchica.
https://www.corriere.it/politica/elezioni-presidente-repubblica-2022/notizie/giro-tavolo-strette-mano-draghi-vuole-periodo-stabilita-ma-ministri-c-tensione-5c7da22a-82e3-11ec-aab0-830a654a2007.shtml ↑
https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/draghi-mi-candidano-ovunque-ma-lavoro-me-trovo-solo/AENL1aDB ↑
https://www.corriere.it/politica/elezioni-presidente-repubblica-2022/notizie/quirinale-diretta-whatsapp-aldo-cazzullo-seconda-votazione-f1b3c2ee-7de2-11ec-8b49-c4c27e1fecd7.shtml ↑
https://www.adnkronos.com/riforma-csm-via-libera-governo-draghi-non-porremo-fiducia_6sxRVN6VKzDFwvesH7LICz ↑
https://www.repubblica.it/politica/2022/01/30/news/elezione_mattarella_casini_errori_draghi-335733070/ ↑
https://www.camera.it/_dati/Costituente/Lavori/Assemblea/sed056/sed056.pdf ↑
https://www.youtube.com/watch?v=T1Xca4sxAgc, minuto 51:42 ↑
https://avanti.senato.it/js/pdfjs-dist/web/viewer.html?file=/files/reader.php?f%3DAvanti%201896-1993%20PDF/Avanti-Lotto2/CFI0422392_19640726_167.pdf ↑
http://legislature.camera.it/_dati/leg11/lavori/stenografici/stenografico/34736.pdf ↑
Elaborazione personale su dati estratti dalla Banca dati elettorale del Comune di Milano, https://siel.comune.milano.it/ ↑
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.