Il colore politico del governo Draghi
“Non esistono governi tecnici” è un adagio che immediatamente dopo la convocazione di Draghi al Quirinale è stato ripetuto con tono polemico dai commentatori che nell’imminente avvicendamento a Palazzo Chigi scorgevano, più o meno confusamente, una restaurazione vetero-capitalistica, quasi alla Montgomery Burns, contro il benefattore del popolo Conte. Si tratta di un adagio indubbiamente vero, al di là dell’uso politico che se ne fa.
Qual è dunque il colore del governo Draghi?
Escluso lo stesso Draghi, esso si compone di ventitré ministri, dei quali quattordici con portafoglio e nove senza portafoglio.
Tra i quattordici ministri con portafoglio si contano sette indipendenti e sette ufficialmente affiliati a un partito politico. Di questi ultimi ben sei provengono da M5S, PD o Articolo Uno, cioè il nucleo di coalizione che sosteneva il Conte bis, e di questi sei cinque sono riconferme del Conte bis mentre il sesto è il vicesegretario del PD. Il settimo ministro “politico”, infine, è sostanzialmente il capo dell’opposizione a Salvini dentro la Lega.
Fra i sette ministri indipendenti, invece, possiamo distinguerne uno considerabile prettamente in “quota Draghi” (Daniele Franco), due appartenenti all’area del centrodestra moderato (le professoresse Cartabia e Messa) e quattro di centrosinistra: Lamorgese, riconfermata dal Conte bis; Cingolani, elogiato da Italia Viva e M5S; Giovannini, padre del Reddito di Inclusione istituito dal governo Gentiloni e figura politica di raccordo fra M5S e PD; Bianchi, per dieci anni assessore all’Istruzione in Emilia-Romagna.
In totale, quindi: dieci ministri con portafoglio di centrosinistra, tre moderati di centrodestra, un Draghi man.
Fra i nove senza portafoglio, infine: due M5S, una di Italia Viva, due antisovranisti di Forza Italia, un leghista giorgettiano, un tecnico già collaboratore di Renzi e Conte, Gelmini in rappresentanza della maggioranza di FI, Stefani per la corrente Salvini.
Totale complessivo: ventitré ministri di cui un draghiano, quattordici di centrosinistra, sei moderati di centrodestra, una berlusconiana, una sovranista.
Insomma, è chiara l’impronta forte di lealtà costituzionale, e all’interno di essa l’impronta del centrosinistra, e all’interno di essa l’impronta del PD, che ha sì un ministro in meno del M5S, ma tutti e tre con portafoglio (per il M5S invece sono due con e due senza).
Questa impronta risalta ancor di più se confrontata con i rapporti di forza numerici nel Parlamento, nonché con l’orientamento politico concretatosi nel voto del 4 marzo 2018.
Le basi programmatiche del governo Draghi
L’orientamento politico del 4 marzo 2018 giungeva del resto come uno degli ultimi frutti avvelenati dell’ondata sovranista, che dopo le vittorie di Brexit e Trump cercava di allungare le grinfie sulla nazione italiana. Il legame ombelicale Trump-Conte è notissimo e su ciò basti affermare ciò che sempre si è saputo: simul stabunt, simul cadent.
Merita di essere ricordata invece la relazione Trump-Draghi, ovvero il rapporto – di segno affatto opposto a quello del giallo-verde Avvocato del Popolo – fra l’allora Presidente della BCE e l’amministrazione Trump.
Il 24 gennaio 2018, parlando ai giornalisti al Forum di Davos, il segretario del Tesoro Steve Mnuchin commentò le variazioni nei tassi di cambio – all’epoca l’euro si stava già rafforzando sul dollaro, in quanto i dati sulla ripresa economica europea facevano presagire agli investitori un prossimo rialzo del costo del denaro da parte della BCE. Mnuchin dichiarò che un dollaro debole beneficiava l’economia statunitense, aiutandone le esportazioni.[1] Due giorni prima l’amministrazione Trump aveva imposto le prime tariffe sui prodotti cinesi. Le dichiarazioni di Mnuchin provocarono un ulteriore indebolimento del dollaro verso l’euro. L’indomani Draghi comunicò in conferenza stampa che dichiarazioni non della BCE, ma di «qualcun altro»[2], avevano provocato una volatilità nei cambi che violava gli accordi fra i contraenti del Fondo Monetario Internazionale.[3] In altri termini, il tentativo degli Stati Uniti di svalutare il dollaro intendeva riversare sull’Eurozona, rafforzandone eccessivamente la moneta, i costi della guerra commerciale contro la Cina.
I ricordi di questi scontri con gli Stati Uniti, e il correlato confronto fra l’assetto istituzionale-economico di Stati Uniti ed Eurozona, informarono forse il discorso di commiato che Draghi rese alla BCE il 28 ottobre 2019[4], i cui temi portanti – differenza tra mercato unico e area di libero scambio; definizione della sovranità; irreversibilità dell’euro e percorso di integrazione europea – erano già stati delineati nella lectio magistralis ad Harvard sei anni addietro.[5]
In tale sede il Presidente uscente ripercorse le origini dell’euro partendo dalla trasformazione del mercato comune in mercato unico e definendo quest’ultimo «un tentativo coraggioso di “gestire la globalizzazione”. Ha coniugato concorrenza e livelli, unici al mondo, di tutela dei consumatori e di previdenza sociale», pensando forse, come termine di paragone, al NAFTA istituito nel 1993 fra Canada, Stati Uniti e Messico. L’introduzione della moneta unica sorse quindi dall’impossibilità tanto di mantenere cambi fissi tra le valute del mercato unico quanto dall’eccessiva fluttuazione dei cambi liberi dovuta all’accresciuta mobilità dei capitali.
La ventennale storia dell’euro, tuttavia, ha presentato a parere di Draghi due lezioni.
In primo luogo, la necessità di impiegare la BCE non soltanto per moderare l’inflazione, ma anche per combattere la deflazione. Tali sarebbero «le caratteristiche essenziali della banca centrale che la BCE era diventata e che la maggior parte dei cittadini europei si aspettava: una banca centrale moderna capace di impiegare tutti i suoi strumenti in funzione delle sfide da affrontare e un’istituzione autenticamente federale che agisse nell’interesse di tutta l’area dell’euro». Anche qui, il termine di confronto è evidentemente la Federal Reserve, il cui compito non si limita alla stabilità dei prezzi ma include anche la crescita economica e l’occupazione.
In secondo luogo, per una più rapida ed efficace implementazione delle politiche della BCE si richiede una politica di bilancio unica, in quanto coordinare più politiche è estremamente complesso e affidarsi a politiche non coordinate abbatte l’effetto di propagazione degli interventi espansivi. Al fine di ridurre l’azzardo morale, per accrescere la condivisione del rischio si rende necessaria un’unione dei mercati dei capitali. Di nuovo torna il confronto con gli Stati Uniti: «In altre regioni in cui la politica di bilancio ha assunto maggiore rilevanza dopo la crisi, abbiamo osservato che la ripresa è iniziata prima e il ritorno alla stabilità dei prezzi è stato più rapido. Gli Stati Uniti avevano in media un disavanzo del 3,6% dal 2009 al 2018, mentre l’area dell’euro registrava un avanzo dello 0,5%. In altre parole, gli Stati Uniti godevano sia di un’unione dei mercati dei capitali, sia di una politica di bilancio anticiclica. L’area dell’euro non disponeva di un’unione dei mercati dei capitali e aveva una politica di bilancio prociclica».
La questione, per Draghi, non era soltanto monetaria e neppure soltanto macroeconomica, bensì concerneva direttamente la possibilità per il popolo europeo di mantenersi sovrano. Nel mondo globalizzato le quattro sfide per cui le forze dello Stato-nazione si rivelano insufficienti erano così elencate: «tutelare i nostri interessi nell’economia mondiale, resistere alle pressioni di potenze straniere, influenzare le regole globali affinché riflettano i nostri standard e imporre i nostri valori alle imprese multinazionali».[6]
Draghi, parlando quattro mesi prima che la Covid-19 iniziasse a devastare l’Europa, riteneva che un appropriato consolidamento del bilancio europeo richiedesse molto tempo, perché, storicamente, l’espansione di simili bilanci è originata dalla necessità di rispondere a una grave crisi contingente. L’esempio erano ancora una volta gli Stati Uniti, con la dilatazione del bilancio federale per fronteggiare la Grande Depressione degli anni 1930. Draghi ipotizzava: «Forse, per l’Europa, vi sarà bisogno di una causa pressante come l’attenuazione dei cambiamenti climatici per realizzare questa dimensione collettiva».
Oggi l’Europa ha trovato questa causa nella pandemia. Se nel corso di quindici mesi il pensiero di Draghi non è cambiato, è chiara la direttrice su cui egli si adopererà. In conclusione del suo discorso di commiato egli ringraziò per nome tre leader nazionali: Macron, Mattarella, Merkel. È chiaro anche quale sarà l’asse di politica estera necessario per realizzare questa sovranità europea che replica sul piano economico le idee già espresse dal Presidente francese sul piano militare.
M5S e PD di fronte al Governo Draghi
I quattro pilastri di sovranità elencati da Draghi a ottobre 2019 – affermazione nell’economia mondiale, indipendenza in politica estera, multilateralismo regolatore, lotta a cartelli e monopoli – formano le basi di un programma schiettamente di sinistra, perché quella via è l’unica per la quale le popolazioni europee potranno dirsi indipendenti nei confronti delle grandi forze ostili di capitali stranieri.
Le dichiarazioni dei sovranisti leghisti sono state come al solito miopi: «Draghi è la scelta più sovranista che possiamo fare», ha dichiarato Borghi, perché egli perseguirà l’interesse italiano contro gli altri interessi nazionali.[7] In questa visione l’europeismo non solo non è sottoscritto, ma non è neppure considerato un fattore politico.
Se però deve corrispondere a verità la linea che Goffredo Bettini, il Richelieu di Luigi XIII-Zingaretti, ha tracciato per distinguere i vecchi alleati giallo-verdi – Giuseppe Conte «ha diviso il populismo fra quello mite e quello estremista»[8] – e se questo Conte nel suo canto del cigno ha reso al Parlamento un accorato peana europeista[9], allora dal M5S e dal PD che gli è così affezionatamente vicino ci si dovrebbe aspettare un endorsement completo alla linea politica draghista, occasione d’oro per tradurre in fatti o almeno in lotte i contenuti verbali di tanti manifesti e dichiarazioni.
Tuttavia il Partito Democratico ha subìto la scelta del governo Draghi, invece di propugnarla, mentre dal M5S la prima dichiarazione venne dal capo politico Crimi e fu un no netto e senza appello alla fiducia al governo.
Il silenzio del PD e la sua subalternità a chiunque altro muova le carte – qualunque sia il nome: Napolitano, Monti, Renzi, Mattarella, Draghi, Bettini… – sono spacciati come «responsabilità»[10] ma i casi più probabilmente sono altri due: o quel silenzio è figlio di una colossale impreparazione politica della dirigenza – e a ciò farebbe pensare l’articolo steso da Nicola Zingaretti per il centenario del Partito Comunista d’Italia[11] – oppure si tratta di una scelta politica molto chiara, cioè quella di essere «il partito della stabilità».[12] Il problema è che perseguendo la stabilità ad ogni costo il Partito Democratico non solo cercherebbe di conservare un sistema sociale iniquo, ma piegandosi al vento di chi definisce i contenuti di questa stabilità scontenta, come pare stia emergendo dai più recenti sondaggi[13], entrambe le opposte componenti del suo elettorato. La gauche contesta infatti il repentino mutamento dal grido di guerra «o Conte, o il voto!» al docile ingresso nel recinto di Draghi, mentre l’ala liberale è scandalizzata dall’appiattimento sul M5S.
Il Movimento 5 Stelle era stato fino ad oggi il principale fattore di instabilità della scena politica italiana, intendendo instabilità non come il positivo e rivoluzionario contrario di una imbracatura forzosa, bensì come una pericolosa opera sismica nei confronti delle istituzioni democratiche. Lo era per una serie di ragioni costitutive: l’opacissima struttura decisionale, l’assenza di qualsiasi mezzo di formazione del personale politico (elevata a valore del partito!), l’essere il canale di raccolta di confusi sfoghi purulenti del Paese, la concezione proprietaria e predatoria dello spazio pubblico, l’insulto più violento come mezzo di comunicazione…
Adesso pare però che il M5S, come in un pendolo di Newton, abbia trasmesso la propria instabilità appunto al partito che dietro il nome di stabilità maschera l’assenza di linea politica: il PD. Anche nella recente decisione di costituire un intergruppo parlamentare fra M5S, PD e LeU non è affatto chiaro quale iter deliberativo sia stato seguito, mentre è molto chiaro che nessun organo collegiale del PD abbia formalmente deliberato.
Naturalmente questa linea conta degli oppositori dentro il PD, ma quanto la situazione interna sia precaria lo si desume dai rappresentanti del PD nel Governo: Orlando, Guerini, Franceschini; vale a dire il vicesegretario, il capo della principale minoranza, infine a fare da baricentro un grande elettore di Zingaretti che però dopo il 2009 non è mai stato in minoranza.
Potrebbe sembrare che nel centrosinistra si confrontino al solito le due linee tipicamente presenti dentro il Partito Comunista Italiano: da un lato, in Italia Viva, quella togliattiana dell’accordo fra i grandi partiti di massa, nell’ottica di una gestione condivisa del governo del Paese; dall’altro quella della costruzione di un’alternativa di sinistra, nel quadro di una contrapposizione dura fra blocchi politici. Questa linea fu difesa ad esempio da «il manifesto» che, scrutinate le elezioni politiche del 1983, propose una coalizione di sinistra fra PCI, PSI, Partito Radicale e Democrazia Proletaria: un gruppo come si vede estremamente eterogeneo, sia per cultura sia per programmi, e che dunque difficilmente avrebbe potuto costituire un blocco solido in un contesto di contrapposizione.
L’idea togliattiana dell’unità antifascista fu ripresa successivamente da Berlinguer con il compromesso storico e infine da Renzi con il Partito della Nazione. Alla linea ingraiana dell’alternativa di sinistra è stata invece fatta risalire, certo non senza forzature polemiche, la linea Bettini.[14]
Il problema qui non è solo numerico. Cioè, non si tratta solo di considerare i seguenti rapporti di forza nel periodo del governo Conte II: destre (Lega-Fd’I-Cambiamo) 42%, PD-LeU-M5S 38%, centro (IV-FI-Più Europa-Azione) 14%; ossia l’Intergruppo non è mai stato maggioranza neanche relativa e se Forza Italia resta legata alla destra è pressoché impossibile che lo sia.
Il problema è politico, cioè il Movimento 5 Stelle non può far parte di una maggioranza alternativa di sinistra perché non è di sinistra. Esso può certamente essere coinvolto in un’ottica di patto fra forze a elettorato popolare: tuttavia il fatto che il M5S abbia un elettorato popolare, ben lungi dal costituire un salvacondotto per le sue credenziali politiche, dovrebbe invece interrogare sul come recuperare quelle forze a una prospettiva realmente di sinistra.
Certamente l’elettorato del M5S non è tutto uguale, come è stato dimostrato plasticamente dal voto online degli attivisti riguardo la partecipazione al governo Draghi. Ma governisti ed estremisti condividono un tratto politico, che in ottica progressista è un grave vizio: l’incapacità di leggere dialetticamente la realtà, ossia l’incapacità di comprendere due cose. Primo, che le iniquità sociali non sono né un’imperfezione transitoria in un ingranaggio perfetto né una condanna universale in un sistema naturale ed eterno, bensì invece la risultante di processi storici fondati su basi materiali autocontraddittorie, e che possono essere quindi superati materialmente e storicamente agendo su tali contraddizioni interne. Secondo, che di conseguenza il compito del politico non consiste né nel ripristinare ipotetiche condizioni perfette né nel predisporre strumenti caritatevoli-assistenziali per consolare gli afflitti nati dopo la cacciata dall’Eden, bensì nello sviluppare le forze produttive fin tanto che esse non avranno un potere tale da imporre il cambiamento dei rapporti di produzione nella direzione di un’equa ripartizione della ricchezza.
Poiché nel M5S sia i governisti sia gli estremisti non comprendono questo concetto, il sonno della loro ragione genera i mostri.
Per i governisti il focus è «il reddito di cittadinanza», «l’abolizione della povertà», nomi ecumenico-escatologici che affondano le proprie radici nel vagheggiamento di un regno messianico privo di infelicità in cui la terra produca ricchezza inesauribile: nomi che però sono solo una pennellata sopra forme di pubblica carità assai ben più prosaiche, anche come importi.
Gli estremisti invece hanno il loro obiettivo non nella costruzione di una rete di prebende e benefìci, bensì nell’attacco distruttivo al “sistema”. Eloquenti le parole di Toninelli, che contro Draghi ha fatto ricorso a un armamentario di leggende oscure riguardo la salda presa che banche e grandi interessi finanziari avrebbero sui Parlamenti e la necessità di spezzare a tutti i costi questa morsa soffocante. Le consonanze con campagne antisemite ahimé di ampio successo sono più che evidenti. Anche il suo compagno di corrente Crucioli ha attinto alla stessa pozza: «siamo sempre quelli né di destra né di sinistra, oggi manca proprio uno schema diverso, però direi che manca un sovranismo di sinistra in senso economico. Non ci si può fidare di chi tolse la liquidità agli sportelli delle banche alle famiglie greche».[15]
Conclusioni
Per rispondere ai quesiti posti inizialmente – se in un mondo globalizzato il nuovo apogeo vedrà lo sfibramento forse definitivo della potenza europea oppure al contrario una riassunzione della sua presenza; quale sarà, all’interno della UE, l’indirizzo politico consensuale; se possiamo individuare un legame tra le risposte a questi due quesiti – la traiettoria su cui intende incardinarsi il governo Draghi è evidentemente quella di far prevalere nella UE un nucleo forte italo-franco-tedesco che sia tenacemente compatto dietro l’obiettivo della costruzione di un’Europa sovrana.
La stessa ampiezza dello spettro politico di maggioranza nel Parlamento italiano cessa allora di essere un problema per tramutarsi in un punto di forza: questa maggioranza non è sovraestesa e spuria come quella che si riparò sotto l’ombrello Monti, ma al contrario, scomponendo e ricomponendo gli allineamenti politici, come testimoniano le spaccature emerse in queste settimane in piccoli e grandi partiti, potrebbe fornire ciò che agli stati europei è sempre mancato per sostenere la propria causa contro le tracotanti ingerenze esterne: un quasi-universale consenso popolare di massa.
Se dunque nei prossimi anni l’indirizzo Draghi-Macron si affermerà concretamente in Europa ci si potrà aspettare un ampliamento del peso europeo, avvantaggiato dal ridimensionamento dell’esposizione degli Stati Uniti. In caso contrario il Vecchio Continente diverrà un territorio sempre più marginale, indebolito nei suoi fondamentali produttivi da una persistente crisi demografica.
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https://www.cnbc.com/2018/01/24/a-weaker-dollar-is-good-for-the-us-treasury-secretary-mnuchin-says.html ↑
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https://www.ft.com/content/37253596-01d8-11e8-9650-9c0ad2d7c5b5 ↑
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https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2019/html/ecb.sp191028~7e8b444d6f.it.html ↑
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https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2013/html/sp131009_1.it.html ↑
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Nella traduzione italiana ufficiale si parla, invece che di potenze straniere e imprese multinazionali, rispettivamente di «forze esterne» e «grandi imprese». Le versioni inglese, francese e tedesca non lasciano però dubbi: «foreign powers, global corporations»; «puissances etrangères, entreprises multinationales»; «außenpolitischer Druck, multinationalen Unternehmen». ↑
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https://www.tpi.it/politica/borghi-lega-sostegno-draghi-scelta-sovranista-20210208739710/ ↑
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https://www.askanews.it/politica/2021/01/25/bettini-conte-imprescindibile-ha-garantito-il-paese-pn_20210125_00036/ ↑
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https://www.reuters.com/article/conte-senato-idITKBN29O0Y0 ↑
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Ad esempio da Debora Serracchiani: https://www.facebook.com/serracchiani/photos/10157949751460886 ↑
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https://immagina.eu/2021/01/21/immagina-cento-anni-pci-zingaretti-pd/ ↑
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https://www.linkiesta.it/2021/02/intervista-matteo-orfini-pd/ ↑
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https://tg.la7.it/politica/il-sondaggio-politico-di-luned%C3%AC-15-febbraio-2021-15-02-2021-158199 ↑
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https://www.repubblica.it/politica/2021/02/15/news/crucioli_errore_storico_m5s_meloni_passera_incasso-287651310/ ↑
Immagine European Central Bank (dettaglio) da flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.