Da una parte CGIL, CISL e UIL, che sabato 26 novembre 2021 sono tornati in più piazze di Italia, per portare avanti la mobilitazione di critica alla manovra economica di cui il Presidente del Consiglio sta discutendo con i partiti in questi giorni.
Dall’altra un ampio fronte del sindacalismo di base, che dopo lo sciopero generale di ottobre attraverserà il Paese con il “No Draghi Day”.
Il mondo del lavoro vive una fase di mobilitazioni, di cui parliamo questa settimana nella nostra rubrica a più mani.
Leonardo Croatto
I lavoratori dipendenti nel nostro paese subiscono da almeno trent’anni – dal momento dell’abolizione della scala mobile – il lento declino dei propri redditi. Questo declino, aggravato da due crisi mondiali, ha colpito anche la piccola borghesia (quella che alcuni chiamano “classe media”) e i lavoratori autonomi più fragili.
Oltre ad un indebolimento della contrattazione nazionale “endogeno”, dovuto alle fragilità delle organizzazioni sindacali, una serie di dispositivi normativi sono intervenuti in questi tre decenni per accentuare la precarizzazione del lavoro, col fine di abbattere ancora il costo della manodopera, sia direttamente (scaricando sempre più sui lavoratori le crisi e liberando il capitale da sempre maggiori quote di rischio), sia, indirettamente, indebolendo le capacità rivendicative dei lavoratori, sempre meno tutelati dalle leggi dello stato nel confronto impari coi propri datori di lavoro.
Questo percorso di sottrazione di tutele e sicurezze ha visto come protagonisti, non di rado, governi sostenuti da maggioranze “di sinistra”, fino la parossismo raggiunto dal governo Renzi: contratti a tempo determinato reiterabili per tre anni senza causale, costo dei licenziamenti fissato per legge e compressione del potere sanzionatorio dei giudici per i licenziamenti illegittimi.
In questo lungo processo di smantellamento dei diritti dei lavoratori si ha l’impressione che i sindacati abbiano molto faticato a trovare elementi per costruire azioni rivendicative efficaci. Molto di quanto è stato recuperato del periodo Renziano si è ottenuto nelle aule dei tribunali, qualche volta in contrattazione, assai di rado nelle piazze.
Le motivazioni di questa debolezza sono molto più complesse delle banali accuse di tradimento che vengono da sindacati di base e partiti di sinistra (i quali a loro volta dovrebbero interrogarsi sulle motivazioni della loro irrilevanza politica), e richiederebbero una lunga e articolata trattazione.
E’ però vero che la fase attuale vede una CGIL interrogarsi profondamente rispetto al proprio ruolo sociale e alla propria composizione di classe, con una sua categoria – la FLC CGIL – che ha già proclamato lo sciopero – mentre la CISL ha come legittima posizione politica quella di trasformarsi in un sindacato-lobby, trovandosi molto a disagio nel ruolo di sindacato conflittuale.
Quello che manca, però, è un vero protagonismo da parte dei lavoratori. Contrariamente ai continui appelli allo sciopero generale provenienti da gruppi numericamente irrilevanti, il grosso dei lavoratori cede alle proprie rappresentanze politiche e sindacali ampia delega per agire in proprio nome. Che è come dire che un bel pezzo dei lavoratori italiani è contento di vivacchiare e lamentarsi ma non ha alcuna voglia di attivarsi in prima persona per il miglioramento delle proprie condizioni materiali.
Piergiorgio Desantis
Il Governo Draghi, con una maggioranza amplissima, procede nell’approvazione delle riforme. A partire da quella fiscale, che riducendo la progressività aumenta le diseguaglianze e non dà alcunché alla fascia con redditi più bassi, si conferma un governo che continua sulla lunga scia liberista di privatizzazioni e concorrenza. Da parte sindacale, di converso, si avverte una difficoltà a fare massa critica, vista anche la difficoltà di consenso e seguito, soprattutto nelle difficoltà sociali e economiche in cui vivono milioni di persone. Sarà difficile smuovere e rendere protagoniste le piazze e le soggettività che ancora stanno a guardare cosa fa il Governo Draghi. Forse, finalmente, l’annunciata riforma delle pensioni chiaramente evidenzierà il carattere regressivo del governo in carica.
Dmitrij Palagi
Specialmente sui social le organizzazioni sindacali vengono accusate di non pensare abbastanza al tema del green pass. Su un fronte diverso, una mobilitazione di rilevanza nazionale, come quella della GKN di Campi Bisenzio, sta quotidianamente chiedendo alla CGIL di proclamare uno sciopero generale, evidenziando l’insufficienza della conflittualità portata avanti dalle sigle confederali in questi mesi, nella contrarietà alle misure sociali prese dal Governo Draghi.
Nel frattempo i sindacati di base proseguono in una mobilitazione importante, cercando di mantenere un fronte unitario di azione, ma senza trovare momenti comuni con le Camere del Lavoro. L’attuale Presidente del Consiglio ha delle responsabilità enormi nei confronti del massacro sociale portato avanti in Grecia pochi anni fa, ma si trova a gestire una fase completamente diversa da quella del “governo tecnico Monti”. Non appare quindi come un austero burocrate insensibile alla spesa pubblica, nonostante il DDL Concorrenza minacci di privatizzare ogni genere di servizio e bene comune.
Mentre la discussione sembra polarizzarsi sulla gestione di breve periodo della pandemia, le generose azioni delle organizzazioni sindacali sembrano rimanere senza sponda politica, dentro e fuori dal Parlamento. Evidenziano però problemi reali, destinati a esplodere quando finirà la fase di “come si spendono i soldi del PNRR”. La strategia di chi governa pare essere quella di dilazionare le situazioni critiche, come nella gestione dell’emergenza abitativa, coprendo alcune decisioni strutturali “di destra” con l’attuale situazione apparentemente espansiva.
Se nell’immediato l’opinione pubblica preferisce appassionarsi sui dibattiti più astratti in merito alla libertà di andare al ristorante, è bene che la sinistra si prepari a gestire un futuro in cui molto potrebbe essere “nuovo”. Non sarebbe un cattivo proposito per il nuovo anno. Organizzare l’opposizione sociale su cui costruire una visione alternativa, che passa dalla gestione politica della pandemia ma abbraccia le urgenze evidenziate anche dalle organizzazioni sindacali in queste due settimane. Ricordandosi che ognuno ha il suo ruolo e che non si può chiedere a chi non è un partito di farlo.
Jacopo Vannucchi
Chi credesse ancora alla bona fides delle persone resterebbe perplesso di fronte alle motivazioni della protesta confederale contro la legge di bilancio. Molte di quelle legittime richieste sono state in passato soddisfatte dal Governo Renzi, contro il quale almeno il maggiore sindacato, la CGIL, si schierò senza troppe esitazioni. Riduzione fiscale sui salari (gli 80 euro), aumento delle tutele per i precari (Jobs Act: abolizione dei co.co.co., maternità, trasformazione delle collaborazioni personali in lavoro subordinato), rivalutazione delle pensioni (quattordicesima per gli assegni medio-bassi e restituzione del blocco dell’indicizzazione dell’era Monti).
La protesta contro la distribuzione degli 8 miliardi della riduzione fiscale – 7 sull’Irpef, 1 sull’Irap – è, a modo suo, “comprensibile” se proviene dagli imprenditori, ma inspiegabile da parte di associazioni di lavoratori e pensionati che ricevono letteralmente i sette ottavi delle risorse impiegate. Più sensata, invece, è la richiesta di intervenire sulla fascia entro i 15.000 euro. Questo settore definisce, però, un problema non solo di natura welfaristica, ma anche di natura produttiva. Oltre ad assicurare nell’immediato un tenore di vita dignitoso, è necessario consentirne lo sviluppo professionale onde evitare che si alimenti costantemente il nostrano esercito di inoccupabili, che producono una tripla zavorra sul Paese: di aumento del carico assistenziale, di degrado socio-politico (in quanto più soggetti al voto di scambio), di depauperamento del tessuto produttivo.Per risolvere strutturalmente il problema, però, è necessario demolire l’impalcatura del reddito c.d. “di cittadinanza” e ricostruire da capo due programmi distinti, l’uno per il contrasto alla povertà e l’altro per le politiche attive. Questa operazione è pressoché impossibile oggi per due motivi: l’arroccamento propagandistico del M5S sulla misura principe della sua demagogia sociale; la disparità di opinioni nella maggioranza su quante risorse concentrare a sostegno di inattivi e disoccupati. Tuttavia è singolare che a denunciare implicitamente l’insufficienza del vigente strumento siano proprio i sindacati che accettano il RdC con la motivazione che, comunque, esso sta tamponando la povertà.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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