“Il capitalismo ha i secoli contati”, così affermava Giorgio Ruffolo, eppure dopo l’ultima crisi innescata dalla pandemia, terribile e tutta da indagare, ancora non sembra esserci una via d’uscita. Si è parlato di transizione verde e di digitalizzazione per “rigenerare” il capitalismo ma, ancora, sembra un orizzonte piuttosto nebuloso. Il Dieci mani di questa settimana prova a guardare oltre l’orizzonte, facendo domande e cercando di rispondere ai tanti interrogativi che si aggirano di questi tempi.
Leonardo Croatto
I processi sociali, così come tutti gli altri fenomeni naturali, hanno natura dinamica, sono in continua trasformazione. Non esiste niente di immanente, e non esiste il ritorno al passato; lo scorrere del tempo in direzione non reversibile è propria sia dei fenomeni naturali che delle trasformazioni della società.
Così come la natura, anche la società non ha stati di immobilità, di immutabilità, ma solo cambiamento, rinnovamento. Ogni fenomeno sociale ha una sua origine, un percorso di sviluppo e, prima o poi, una fine. L’idea che possa esistere una “fine della storia” (qualcuno l’ha davvero scritto, e un sacco di gente ha, incredibilmente, comprato quel libro e citato quella frase) è una fesseria.
Ma le dinamiche sociali, esattamente come i fenomeni naturali, non evolvono in maniera autonoma: ogni processo in moto influenza tutti gli altri ed è influenzato da tutti gli altri. La storia umana è il tracciato delle trasformazioni della rete di relazioni tra gli esseri umani nel tempo.
In questo senso, che il capitalismo sia destinato a scomparire, prima o poi, è un dato di fatto. La vera domanda non è se accadrà, ma come accadrà e in quale direzione. Perché, intendiamoci, anche l’estinzione della vita sulla terra a causa dell’inquinamento o del consumo delle risorse naturali vale come superamento del capitalismo.
Il tema vero, quindi, è cosa vogliamo che ci sia dopo; interrogarci se ci sarà un dopo è un esercizio inutile.
Piergiorgio Desantis
Fin dagli albori del capitalismo c’è sempre stato qualcuno che si interrogava su come esso si sviluppasse o, viceversa, crollasse. Si vive invece in un’epoca in cui, stranamente, è fisso l’unico sistema economico ed è assai difficile poter pensare alternativamente a ciò che è stato l’ordine economico vincente dopo il crollo del Muro di Berlino. Eppure, l’avvento della pandemia ha significato profonde modificazioni, quantomeno sull’utilizzo del debito pubblico, soprattutto in Europa. C’è anche un interessante dibattito sulla sorte della globalizzazione: andrà avanti, oppure avrà una regressione? Sono interrogativi molto interessanti da affrontare; per il momento, al di là della distribuzione delle ricchezze (non messa in discussione), sembrerebbe però mancare una via d’uscita dalla pandemia e una via di sviluppo. Dove andrà il mondo della produzione e dei servizi? Poche le risposte e tutte molto parziali; la sensazione è che ci saranno cambiamenti strutturali, non solamente geopolitici, ma di organizzazione e di riproduzione del lavoro.
Francesca Giambi
Il capitalismo sta morendo? Quello che conoscevamo, quelle che erano le strutture portanti del capitalismo, il cui scopo è stato ed è la creazione di un profitto, appaiono logore, anche se sempre inscindibili con la libertà.“Oggi l’intera società è modellata in tutti i suoi aspetti dal capitale che definisce il modo di vivere in gran parte della popolazione del mondo” afferma Gustavo Esteva, che facendo un esempio afferma anche come “il capitalismo ha rivelato come non mai il suo carattere: la voracità criminale e irresponsabile dell’industria della salute che subordina ai propri scopi un sistema sanitario smantellato” o come dice Ulrich K. Preuß “la teoria costituzionale borghese è legata ad un modello economico individualistico-proprietario, in cui il produttore è proprietario e il proprietario è produttore” come riporta Lucio Mamone nel suo “Capitalismo e liberismo una relazione complessa”.Oggi la crisi pandemica ha accentuato quella crisi che aveva, negli anni passati, già colpito l’Italia; ma la crisi finanziaria è solo l’effetto della crisi strutturale del capitalismo.Paolo Ferrero nel suo “Pigs” aveva già individuato tutti i nodi che oggi sono ancora più evidenti. Basta leggere i titoli dei capitoli della prima parte per comprendere quelle colpe che non vogliamo affrontare… anzi che stiamo subendo senza ribellarci:
– facendo i tagli si esce dalla crisi
– riducendo i salari e i diritti si esce dalla crisi
– con le liberalizzazioni si esce dalla crisi
– ci vuole deregulation
– bisogna lasciar fare il mercato
– etc…
Non c’è nessuna età dell’oro del capitalismo.Studiando le disuguaglianze e il capitalismo contemporaneo, l’economista Branko Milanović sostiene che sia inutile sperare che si possano ricostruire le condizioni del passato.
Le disuguaglianze sono alla base del capitalismo moderno, ma se nel secondo dopoguerra si aveva avuto una riduzione delle disuguaglianze di reddito, mantenendo nel contempo alti tassi di crescita, negli anni ’70 i partiti socialisti e comunisti, collegati ai sindacati, fecero un’opposizione forte e “ridimensionarono” i partiti di destra o borghesi che si dimostrarono più disponibili perché volevano preservare il capitalismo dalle minacce. È da questo momento che la classe capitalista è stata più propensa alle idee di una socialdemocrazia e dello stato sociale. Dal 1973, crisi petrolifera, lo stato sociale viene visto solo come un freno alla crescita economica. La sinistra, oggi più di ieri, dovrebbe ripartire dalla riaffermazione della centralità del welfare state e soprattutto dei diritti. Se oggi possiamo dire che ci sono quattro tipi di crisi del pianeta (pandemica, climatica, energetica, economica) oltre a una competizione geopolitica, si doveva supporre che si assistesse anche alla fine del capitalismo proprio perché economicamente insostenibile e distruttivo, ma purtroppo il capitalismo “nuovo” gode di ottima salute.Se infatti il mercato non coincide con il sistema capitalista è l’utilizzo della logica di mercato che lo contraddistingue; infatti, come sostiene Nancy Fraser, oggi si assiste ad una strana alleanza “tra un’agenda economica che oscilla tra un aggressivo neoliberismo, ritorno al patriottismo e estrema concentrazione del potere economico in mano a multinazionali e corporation che cannibalizzano il mercato”.
A questo vorrei anche aggiungere il capitalismo della sorveglianza, vedi il saggio di Shoshana Zuboff del 2019 dove si afferma che le grandi multinazionali del digital sfruttano i dati degli utenti come prodotti: questi dati vengono analizzati e poi rivenduti.Ma allora si può continuare a parlare in termini novecenteschi di capitalismo? Si può contrastare il capitalismo a cui eravamo abituati ed assuefatti? No, oggi tutto è esploso in un modo che forse non riusciamo a capire. Le nostre categorie non funzionano più, ma è anche vero che in questo momento non è più minimamente tollerabile né lo sfruttamento né la disuguaglianza.Oggi lo stato italiano e tutti gli stati europei dovrebbero essere i garanti della ricostruzione pubblica, proprio perché il momento della pandemia è drammatico; lo stato si deve fare carico dei problemi collettivi dei cittadini, deve intervenire in modo mirato e forte contro le tante speculazioni che si stanno creando nel momento emergenziale. Deve varare un piano per il lavoro, soprattutto femminile, e deve anche operare per una riconversione ambientale dell’economia.Si può combattere la crisi; lo stato deve essere un creatore di occupazione, ma per combattere questo aumento di disuguaglianza si deve affrontare ovviamente sia una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze sia la progressività del fisco e si deve eliminare il job act… Questo governo, purtroppo, in mano alle destre, non sembra interessato su queste linee guida, anzi sembra sempre più asservito al capitale…
Allora, sinistra sparpagliata e afona, vogliamo riprenderci le piazze ingombrate dai ristoratori e fare una opposizione dura e concreta? Vogliamo sollecitare i sindacati per una massa numericamente più consistente? Possiamo farlo, possiamo combattere…
Jacopo Vannucchi
I tre punti fondamentali dell’intervista al prof. Milanovic mi sembrano: il ruolo del socialismo, la popolarità del capitalismo, le radici della polarizzazione politica attuale.
Un’interpretazione di moda nella sinistra occidentale, ripetuta ad esempio da D’Alema per il bicentenario della nascita di Marx, è che il movimento comunista del Novecento abbia prodotto effetti più positivi nei Paesi capitalisti, causandovi la nascita dello stato sociale, che nei Paesi socialisti. Milanovic sostiene invece un’altra tesi: di fatto il movimento comunista, dove ha governato, avrebbe svolto le veci delle rivoluzioni borghesi, abolendo forme di feudalesimo e colonialismo. Uno dei capisaldi teorici del marxismo sovietico era che un determinato sistema si rompe nel suo punto più debole: per tale ragione la prima rivoluzione proletaria ha avuto luogo nel meno sviluppato fra i Paesi capitalisti. Possiamo estendere questa considerazione leggendo la Guerra d’indipendenza americana come una rivoluzione borghese nel punto più debole dell’Antico Regime, o l’introduzione del feudalesimo fra i Normanni come la rottura del punto più debole nella catena del modo di produzione antico.
Tale posizione mantiene a mio avviso la sua validità; spiega non soltanto la Rivoluzione russa, ma anche quella cinese. La Cina, cioè, non era un Paese feudale colonizzato economicamente da un capitalismo esterno, bensì un sistema sociale composito dove feudalesimo e capitalismo convivevano (Lenin addirittura evidenziò in Russia la convivenza di tutti i modi di produzione, da quello di sussistenza in Siberia a quello capitalista avanzato nei centri industriali).Riguardo la popolarità del capitalismo, il prof. Milanovic nega la naturalità di questo sistema ed evidenzia semmai la sua capacità di rispondere ai bisogni, bisogni che però possono essere modificati. A mio parere la possibilità di modificare i bisogni evidenzia come questi bisogni stessi non siano naturali; il capitalismo, cioè, produce bisogni fittizi a cui poi si incarica di rispondere. Ancora una volta, non vi è molto di diverso dal modo in cui si manteneva la legittimazione dei precedenti sistemi. Il sistema feudale in Francia fu abbattuto non perché fosse un sistema oppressivo – in tal caso sarebbe stato abbattuto secoli prima, o non sarebbe neppure sorto – ma perché la popolazione non vi trovava più la soddisfazione dei propri bisogni (nello specifico, sussistenza materiale, anche tramite forme assistenziali). Ça va sans dire, in questo meccanismo un ruolo primario lo ha lo scontro tra coscienza di classe e falsa coscienza, ma, semplificando, la falsa coscienza resiste a una serie di mutamenti quantitativi interni al sistema fin quando essi diventano troppi per essere sopportati e si rovesciano in un mutamento qualitativo, che sostituisce non solo un rapporto sociale ad un altro, ma una coscienza ad un’altra.Infine, ricondurre la polarizzazione politica al «disinteresse delle élite per ciò che sta accadendo alla classe media» è illuminante. È la classe media, infatti, a produrre entrambi i poli della radicalizzazione politica. Non soltanto quello trumpista, che deriva da una classe media poco istruita e abituata a una vita benestante in virtù di piccola imprenditoria, ma anche quello podemista, che deriva da una classe media molto istruita e abituata a una vita benestante in virtù degli alti redditi da lavoro dei genitori. Per questa ragione non è possibile vedere a mio avviso nel radicalismo podemista una forma genuinamente “di sinistra”. Marcuse nella sua ultima produzione rilevò l’incipiente proletarizzazione di quadri e tecnici; questa proletarizzazione oggi è di fatto compiuta, ma i proletarizzati si sentono ancora medio-borghesi, vogliono vivere e lottare come medio-borghesi e non come proletari. Questo vizio di fondo contamina anche quelle esperienze politiche che di per sé nascono nell’alveo del socialismo, come ad esempio il Labour Party sotto la guida di Corbyn. Includere questi gruppi in un’alleanza progressista è fondamentale, ma lo è anche tenere presente la distinzione ferrea che li separa dal campo del socialismo.
Alessandro Zabban
Si possono trovare molti spunti condivisibili nell’intervista che l’economista Branko Milanovic ha rilasciato a Jacobin. Innanzitutto appare corretto il suo invito a non vivere nella permanente nostalgia di una supposta età dell’oro. Sperare di ritornare al trentennio glorioso del Dopoguerra è una pia illusione dato che le condizioni strutturali sono completamente cambiate. Questo non deve precludere ovviamente la sinistra dal lottare per riaffermare la centralità del Welfare State e dei diritti sociali, ma lo si può fare solo se si comprendono i profondi mutamenti intercorsi. Anche da questo punto di vista, mi sembra corretta l’analisi di Milanovic che invita a non vedere la globalizzazione come in una fase di declino inesorabile. Nonostante la moltiplicazione dei movimenti sovranisti, i ritorno di politiche protezionistiche e il Covid-19, il modello della globalizzazione resterà nel prossimo futuro ancora lo scenario entro cui si muoveranno gli attori economici mondiali. Finché non saranno appianate o quantomeno fortemente ridotte le divergenze di reddito fra paesi è improbabile pensare a un mondo post-globalizzazione. Difficile in questo contesto ritenere plausibile il ritorno a un ordine westfaliano.Ma ovviamente lo shock pandemico e i nuovi rapporti di forza sullo scenario mondiale potrebbero cambiare alcune delle regole del gioco della globalizzazione. Il modello cinese che resta il maggiore entusiasta del sistema mondialista, può essere etichettato come ci pare ma è evidente che rappresenta un approccio diverso al globalizzazione, anche solo per il diverso rapporto che sussiste fra potere economico e potere politico, con il secondo non subordinato al primo.
Milenkovic propone alcune soluzioni pratiche per cercare di mitigare il problema che la globalizzazione ha significato soprattutto per i paesi occidentali in termini di crescita delle disuguaglianze e impoverimento del ceto medio. Tutte cose di buon senso che però devono incontrare la volontà politica di essere realizzate. E la storia insegna che senza una “spinta” al cambiamento, difficilmente le élite riducono il loro potere e la loro ricchezza in favore dei meno abbienti. Con i movimenti di sinistra nel mondo occidentale in stato comatoso, l’unico impulso a cambiare paradigma all’interno di un’economia globalizzata potrebbe venire proprio dall’ascesa cinese. Come l’Unione Sovietica costituiva la minaccia che spingeva i governi occidentali nel Dopoguerra a cercare di soddisfare il più possibili i bisogni materiali del popolo, così la concorrenza del modello cinese potrebbe spingere la politica a mettere da parte gli interessi effimeri dei grandi gruppi industriali e finanziari per far crescere i salari e la qualità della vita alla base della piramide, per provare a spengere il grande malcontento che si è generato negli ultimi decenni e che rischia di crescere esponenzialmente senza interventi decisi.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.