È di queste ore il video dell’aggressione a Saverio Tommasi durante una manifestazione di contrari al “Green Pass” svoltasi il 25 luglio a Firenze. Il giornalista ha subito violenza perché era nel capoluogo toscano per fare il proprio lavoro, ovvero documentare e raccontare la realtà di quanto stava accadendo.
Davanti a quelle immagini di violenza viene spontaneo – ovviamente non a coloro che hanno perpetrato tale atto – chiedersi quale possa essere la ragione di un simile comportamento: se nel caso di specie la risposta sta tutta nella tipologia di manifestazione e di manifestanti, lo stesso non si può dire se si osservano i commenti sui social network – o anche le conversazioni dal vivo – su qualsivoglia notizia. La maggior parte di coloro che dicono la loro online su fatti di cronaca lo fa per attaccare coloro che fanno per mestiere informazione: da una parte troviamo il partito del “è tutto falso”, dall’altra c’è chi invece afferma perentoriamente “non sono queste le notizie importanti da dare”.
In entrambi i casi chi legge è convinto di saperne di più di chi scrive, ma ancor di più vorrebbe che la realtà raccontata rispecchiasse la “propria” verità, il personale modo di guardare ed interpretare le cose. Quindi ad un giornalista non si chiede più di osservare e raccontare la verità così com’è, ma si pretende a suon di violenza – talvolta fisica, più spesso verbale – che il professionista si adegui al nostro modo di ragionare, e ci racconti la storia che abbiamo scelto di ascoltare.
Ne consegue che, per una certa parte della popolazione, il Covid-19 non esiste, ma i giornalisti avrebbero non meglio precisati motivi per far apparire una realtà che non esiste. Quali sarebbero questi motivi? Ovviamente la necessità di portare a casa la pagnotta, quindi di obbedire agli ordini dell’editore per cui si lavora. D’altronde un giornalista è chi scrive e fa informazione di mestiere, per vivere: nulla di male ovviamente se percepisce uno stipendio. Ma lo stesso viene da chiedersi: a che pro parlare di qualcosa che non esiste? Lo stipendio messo in tasca da Tommasi e colleghi sarebbe lo stesso raccontassero la “verità vera”? A che pro un editore dovrebbe commissionare alla sua redazione articoli falsi? E – se così fosse – a che pro partecipare ad una manifestazione anziché chiudersi nel proprio ufficio e lasciare libero sfogo alla fantasia?
Oltre al fenomeno per il quale le persone tendono a pretendere di sentirsi raccontata una storia gradita, anziché la scomoda realtà dei fatti, viene da pensare che il sentire comune tenda a considerare l’attività del giornalista come qualcosa di semplice, banale, aperto a tutti: in fondo l’abilità di scrivere viene appresa dopo pochi mesi dall’ingresso alla scuola elementare. Perché quindi – si chiedono in tanti – ci sono persone che vengono pagate per fare qualcosa che è appannaggio quasi di chiunque?
Purtroppo non è così scontato capire che il/la giornalista non è “colui/colei che scrive” ma “colui/colei che racconta” e, prima ancora, “colui/colei che (si) documenta”: la scrittura è un atto puramente formale e tecnico, che viene dopo tutta una serie di azioni per le quali non sono assolutamente sufficienti le competenze apprese durante l’istruzione personale.
Il giornalista deve essere in grado di penetrare la realtà davanti alla quale si trova, deve capirne le sfumature: è necessario che vada oltre i clichés e la vulgata comune. Solo in questo modo potrà andare oltre l’essere scribacchino: deve essere capace di fare e farsi domande sul mondo in cui si trova, deve capire le ragioni più profonde di quanto accade intorno a lui/lei. Ma è indubbio che queste ragioni possano anche essere scomode e sgradite a una fascia più o meno grande di persone, financo sgradite a chi ha il potere.
Certamente durante questo disgraziato periodo, ma non solo, abbiamo visto anche esempi di pessimo giornalismo: siamo stati testimoni dell’opera di mestieranti più interessati a avere seguito ed interesse da parte del pubblico piuttosto che fare vera informazione. D’altronde sarebbe impossibile che, tra i più di 100.000 giornalisti censiti in Italia lo scorso anno, non ci siano le mele marce. Proprio per questo sarebbe utile riconoscere coloro che agiscono con professionalità, così da sapere a quale voce – o a quale tipologia di voce – dare ascolto.
Il ruolo di chi racconta e, come abbiamo detto, analizza ed interroga la realtà in cui viviamo è tanto più importante quanto meno la popolazione sente di averne bisogno: è proprio quando la maggioranza non si fa domande che deve scendere in campo chi quegli interrogativi sa porli, perché anche le altre persone siano messe in grado di capire che quanto viviamo spesso non è come ci appare da un’analisi superficiale. Un augurio sarebbe che i responsabili della violenza nei confronti di Tommasi in futuro – anche lontano – si voltassero indietro e leggessero le parole usate per narrare la manifestazione, guardassero le immagini girate, e si rendessero conto dell’errore fatto, forse non solo a rendersi protagonisti del pestaggio.
Immagine di Kafka4prez (dettaglio) da flickr.com
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.