Bisogna ringraziare Rai Cinema (che ricordo è un servizio pubblico) che è andata in controtendenza rispetto agli altri. Una scossa per uscire dallo stallo del Coronavirus, ma anche perché gli incassi al cinema sono calati del 75% in un anno. Colpa di una fobia generale per molti versi eccessiva. Pur consapevoli delle chiusure in Emilia Romagna, Lombardia e Veneto, nelle altre regioni d’Italia è incredibile che tutto sia fermo e bloccato. Soprattutto nel settore culturale. Il rischio di perdere ulteriori posti di lavoro è alto. E allora ecco che la Rai, con una settimana di ritardo, ha lanciato questo film per avere più slancio dalla recente vittoria berlinese. Un segnale importante che mostra come ai tempi dell’isteria di massa, il coraggio è una virtù da difendere e non da criminalizzare. “Volevo nascondermi” è un film importante per il cinema italiano visti i due riconoscimenti del 1°marzo scorso alla Berlinale 2020 (miglior attore protagonista a Elio Germano per questo film e miglior sceneggiatura ai fratelli D’Innocenzo per “Favolacce”, in uscita il 16 aprile).
Ma partiamo dall’inizio. Il 18 febbraio scorso è morto Flavio Bucci. Tra i tanti film all’attivo dell’attore, c’era il film televisivo del 1977 in 3 puntate su Antonio Ligabue. Fu il primo a far conoscere, attraverso il cinema, chi era questo grande pittore e scultore italiano nato nel dicembre 1899. Dopo una lunga assenza, il regista bolognese Giorgio Diritti, allievo di Ermanno Olmi, torna a dirigere un altro grande film. Dopo gli splendidi Il vento che fa il suo giro, L’uomo che verrà (sulla strage di Marzabotto) e Un giorno devi andare, ecco il suo quarto lungometraggio.
Ligabue nacque a Zurigo come Antonio Costa (cognome materno) da una famiglia di emigranti, divenne ben presto Laccabue. La madre si sposò con Bonfiglio che lo accettò nel suo nucleo familiare. Tuttavia il giovane e irrequieto Antonio si fece chiamare Ligabue probabilmente per l’odio verso il patrigno. Nel 1913 infatti la madre fu uccisa con i tre fratelli da un’intossicazione alimentare. Antonio ha sempre sospettato che il colpevole fosse Bonfiglio. Fu affidato a una coppia di anziani svizzero-tedeschi, ma a causa di problemi psicofisici viene respinto e rimandato in Italia come se fosse un pacco postale. Finisce a Gualtieri, in Emilia Romagna, luogo di cui suo padre era originario.
Per molto tempo ha vissuto in condizioni di estrema povertà, in una capanna lungo il fiume Po. Un giorno però incontrò lo scultore Renato Marino Mazzacurati che troverà in Antonio delle qualità non comuni nel campo della pittura. Ligabue, così come l’olandese Vincent Van Gogh (vi consiglio la visione di “Sulla soglia dell’eternità” di Schnabel), utilizzerà l’arte come riscatto per provare a farsi conoscere, farsi amare dal mondo e per costruire la sua identità.
Ma nel frattempo il regime fascista incombe e questo “mostro” viene rinchiuso in un manicomio. Tutti vedono in lui solo un essere insignificante. Gli dicono che “non avete un lavoro, non avete una moglie, non contribuite in alcun modo alla crescita dell’Italia fascista”. Un discorso del tutto simile al Belpaese contemporaneo: se non lavori, non produci e non consumi a cosa servi? Sei un peso e quindi un costo.
Come si vede nella primissima inquadratura, c’è un occhio che guarda attraverso il buco di una coperta che chiaramente è metafora della sua esistenza. Antonio era un emarginato, un matto rachitico, sgraziato e perfino iracondo. E poi quei movimenti del corpo così irregolari, sgraziati, scoordinati. Naturalmente anche la sua pittura risentiva della cattiveria subita, delle sue ossessioni, dei suoi demoni, le sue manie e la sua diversità. La verità è che Antonio dipingeva spesso animali apparentemente insignificanti come cavalli imbizzarriti, tigri, gorilla, galline, leoni e giaguari che uscivano negli immensi pioppeti vicini alle rive del Po. Questi “esseri” facevano paura e non vendevano. Ed è per questo che nell’opera di Diritti si rivede il cinema onirico, fiabesco e reale allo stesso tempo “amarcordiano” di Federico Fellini.
Seguendo poi le antiche lezioni di Olmi, non mancano la natura e i luoghi come personaggi della storia: la pianura padana, il Po, i campi dell’Emilia ai tempi del fascismo. I colori (fotografia di Mattia Cocco) sembrano usciti da un film dei fratelli Taviani o di Bertolucci. Mentre l’inospitale e gelida Svizzera dell’infanzia è grigia e asettica.
Non è un caso che gran parte del film è con i sottotitoli perché i personaggi sono ancorati al territorio e alle sue radici. Come accadeva in quel gioiello chiamato “L’uomo che verrà” che raccontava la comunità di Marzabotto prima e dopo la famosa strage nazifascista. Oppure il dialetto montano de “Il vento fa il suo giro” con il forestiero francese che non è accettato dalla comunità occitana (situata tra la Francia e parte della provincia di Cuneo).
La grandezza di questo film è che ci fa capire che era un’Italia chiusa (siamo ai tempi della dittatura), ma c’era una vastità di persone che si relazionavano. Nei paesi, nel lavoro nei campi, nelle parrocchie tutti si conoscevano, si incontravano, c’era lo stupore per l’incontro verso l’altro, c’era solidarietà.
Oggi tutto ciò non c’è quasi più. “Volevo nascondermi” per certi versi è l’opposto di “Joker”: nel primo c’è un coinvolgimento, un interessamento per cercare di far uscire Ligabue dai suoi problemi. L’arte diventa il mezzo, il fulcro per la guarigione. Nel secondo invece Arthur, interpretato dal neo premio Oscar Joaquin Phoenix, è isolato da una società che non gli offre spazi. E lui arriva ad immaginare il modo di prenderseli.
Il film è stato realizzato grazie al contributo della Regione Emilia Romagna e alle istituzioni locali di Reggio Emilia e dintorni (il film è stato girato proprio nel Reggiano). Questa atipica pellicola di Diritti ci mostra che il cinema italiano ha le qualità per uscire dal pantano culturale di oggi. Già dal titolo si capisce che questo film è un’opera non oggettiva, ma è filtrata come se fosse lo stesso Ligabue a raccontare. A essere protagonisti non sono i fatti, ma le emozioni. Uno sguardo che anticipa che in futuro qualcosa accadrà, pur in mezzo a mille difficoltà: materiali, esistenziali, fisiche e non solo. Grande merito della riuscita del film va sicuramente a Elio Germano, attore camaleontico dall’immenso talento, premiato per il suo coraggio come miglior attore a Berlino. “Il premio voglio dedicarlo a tutti gli “storti”, gli “sbagliati”, gli emarginati e i fuori casta, e ad Antonio Ligabue, alla grande lezione che ci ha dato, che è ancora con noi, che quello che facciamo in vita rimane”. Una lezione splendida, dedicata agli italiani.
Così come ha fatto Pierfrancesco Favino per “Hammamet”, per entrare nel personaggio Germano ha impiegato circa 3-4 ore di trucco al giorno per applicare le numerose protesi facciali (gran lavoro di Lorenzo Tamburini, già al servizio di Garrone in “Dogman”). “Non è stato facile lavorare in condizioni di gran caldo o gran freddo, in riva al fiume, nella vegetazione che diventa quasi una giungla, una zona ostile in cui lui viveva. Per prepararmi ho visto i pochi filmati esistenti, ho parlato con chi l’aveva conosciuto e raccolto un’aneddotica su di lui straripante, al limite del verosimile” – ha raccontato l’attore a Comingsoon. Pur tra le mille difficoltà (cammina gobbo, si nasconde, parla farfugliando), riesce a comunicare l’incredibile umanità del Ligabue uomo. Qui ha un impatto devastante sulla storia, con il pregio di far uscire dal suo personaggio il suo istinto animalesco e il suo difficile carattere. A coadiuvare Germano, c’è una fotografia di grande livello. Sul comparto sonoro invece c’è da dire che la presenza/assenza della colonna sonora è funzionale alla storia: il silenzio è un personaggio vero del film ed esprime tutta la difficoltà di espressione di Ligabue.
Qualche problema però si ha nella sceneggiatura e di conseguenza nella regia: a volte i salti temporali sono un po’ bruschi e alcuni passaggi rischiano di non essere di facile comprensione. Si ha la sensazione che infanzia e età adulta siano un po’ schiacciati (forse per rientrare nelle due ore di durata?).
In ogni caso “Volevo nascondermi” è un’opera autoriale probabilmente per pochi, ma vitale per il cinema italiano. Non è un caso che questo film ci abbia rappresenti alla 70a Berlinale, prestigiosa vetrina del cinema europeo che non ha niente da invidiare a Venezia e Cannes.
Regia ***1/2 Fotografia **** Interpretazioni **** Sceneggiatura ***1/2 Sonoro ***1/2
Fonti principali: Comingsoon.it, Cinematographe.it, Mymovies.it, Cinematografo
VOLEVO NASCONDERMI ***1/2
(Italia 2020)
Genere: Biografico
Regia: Giorgio Diritti
Cast: Elio Germano, Oliver Ewy, Leonardo Carrozzo, Pietro Traldi
Fotografia: Matteo Cocco
Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Tania Pedroni, Fredo Talla
Durata: 2 ore
Uscita: 4 Marzo 2020
Prodotto da Rai Cinema e Palomar
Distributore: 01 Distribution
Orso d’Argento alla Berlinale 2020
Trailer italiano qui
Intervista a Elio Germano e Giorgio Diritti qui
La frase: Si dice che non avete un lavoro, non avete una moglie, non contribuite in alcun modo alla crescita dell’Italia fascista
Immagine da www.espresso.repubblica.it
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.