Le attività di istruzione ed educazione hanno subito per prime lo stop dovuto all’emergenza sanitaria in corso. Un po’ per obbligo un po’ per necessità tutti gli attori di questo settore – pubblici e privati – si sono riorganizzati per proseguire la didattica utilizzando collegamenti in remoto, grazie alla molteplicità di tecnologie disponibili e a una infrastruttura che consente il passaggio di dati in quantità sufficiente a sostenere una massiccia smaterializzazione di attività normalmente svolte in presenza.
Se è oggi possibile il trasferimento di dati in dimensioni impensabili alcuni anni fa, l’Italia si caratterizza ancora per la bassa qualità dell’infrastruttura digitale e la scarsa penetrazione delle tecnologie tra la popolazione, con grandi disparità tra territori e contesti sociali. L’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società con cui la Commissione Europea monitora la competitività digitale degli Stati membri dal 2015 ci vede 24esimi su 28 stati.
Se la pandemia in corso vincola l’accesso all’istruzione alla disponibilità domestica di strumenti idonei alla DAD, possiamo immaginare come – al di la di qualsiasi valutazione pedagogica sullo strumento – il digital divide condizionerà l’accesso all’istruzione a favore dei più ricchi e a danno delle situazioni socialmente già complesse.
Leonardo Croatto
Come è facile attendersi, esistono numerosissime valutazioni sull’avanzamento della digitalizzazione nei diversi paesi, realizzate da soggetti differenti e misuranti parametri differenti. Una rapida analisi mostra come, da qualsiasi direzione uno li guardi, i dati relativia al nostro paese risultano sempre disastrosi.
La cronaca accompagna queste pessime valutazioni con lanci giornalistici di mirabolanti iniziative di origine governativa per l’informatizzazione e la digitalizzazione del nostro paese, non di rado rappresentate mediaticamente con grande sprezzo del ridicolo (chi si ricorda i Digital Champions?).
Anche questo governo ha ritenuto necessario mettere in campo a fine 2016 un Team per la Trasformazione Digitale. Nel Team si sono avvicendate, a vario titolo, una buona sessantina di persone: su base annua ognuno di questi collaboratori ha percepito compensi che vanno da un minimo di 60.000 euro a un massimo di 150.000 euro.
Mentre questo numeroso e costoso parterre di professionisti è impegnato a informatizzare i servizi pubblici (di cui anche la scuola dovrebbe far parte), i dati dell’indice DESI pubblicati dalla Commissione Europea nel 2019 impietosamente condannano l’italia nelle ultime posizioni in quanto a servizi pubblici digitali.
La Commissione pubblica anche un rapporto specifico sull’ICT nelle scuole: secondo questo rapporto solo il 50% delle scuole italiane è sufficientemente attrezzato dal punto di vista digitale e la percentuale delle scuole Italiane con connessioni con velocità di trasferimento sopra i 100 mbps è la più bassa in Europa.
Questi dati già dovrebbero invitare i numerosi entusiasti della didattica a distanza a molta maggior cautela nel promuoverla come possibile strumento ordinario di lavoro (in un futuro senza Coronavirus), non solo per i molti motivi con cui i professionisti del settore (a cominciare dagli insegnanti) la criticano pesantemente dal punto di vista della pedagogia, ma ancor più banalmente per la mancanza di strumentazione adeguata nelle scuole – specialmente quelle delle aree più economicamente fragili o geograficamente svantaggiate del paese – e nelle case.
Il secondo termine di valutazione sulla preparazione del paese per la sperimentazione (forzata) della didattica a distanza riguarda proprio le connessioni domestiche. Un po’ di aneddotica d’origine sindacale mi consegna situazioni complicatissime anche in Toscana e in Lombardia vicino a grossi centri abitati, ma una mappa di copertura delle diverse infrastrutture per il trasporto dei dati (ad esempio questa) può dare un’immagine ancor più efficace della distribuzione di servizi di qualità adeguata: una buona parte d’Italia risulta sprovvista anche della copertura di tecnologie più lente, mentre la fibra fino a casa è un lusso per pochi, tutti residenti intorno alle città.
Se al discrimine generato della condizione infrastrutturale si aggiungono i costi di accesso a strumentazioni hardware adeguate per lo svolgimento delle lezioni da casa (no, un telefono cellulare non basta affatto!), magari per più di un figlio, è abbastanza facile immaginare i membri di quale classe sociale in questo momento possono beneficiare a pieno degli sforzi dei docenti per far proseguire la didattica in remoto: mentre i figli dei più ricchi e degli abitanti delle aree urbane hanno fatto fronte alla chiusura delle scuole con minor disagio, i figli delle famiglie più povere e i residenti nelle aree interne sono invece rimasti tagliati fuori.
Piergiorgio Desantis
Lo scoppio della pandemia ha portato alla luce tutte le debolezze, i ritardi e la costante distruzione del sistema pubblico italiano. L’istruzione pubblica è stato un comparto dove i tagli strutturali si sono fatti sentire e dove si notano, tanto più oggi, le difficoltà. Queste non riguardano solo le infrastrutture reali dove si svolge la didattica (classi, scuole, mense) ma anche le infrastrutture digitali. Anche qui, come in altri comparti, si è lasciato al libero mercato tariffe e diffusione senza contare che alcune zone d’Italia non sono neanche raggiunte dalla possibile di un accesso a internet con una velocità che supporti la possibilità della didattica a distanza. Anche su questo si misura lo sguardo assai corto della politica italiana degli ultimi trent’anni dalla quale si augura e si chiede un veloce e rapido ripensamento.
Dmitrij Palagi
Di cosa abbiamo bisogno?
La tecnologia non può sostituire l’agire umano, può modificarlo. Immaginarsi di poter spostare le scuole dentro le abitazioni è una follia. A prescindere dai limiti tecnici.
Certo, è diventato evidente quanto servirebbe un investimento pubblico sulla rete e le infrastrutture, anche per quanto riguarda i servizi e la digitalizzazione della società. Denunciare una presunta particolare arretratezza del Paese è però retorica errata, convinta di poter aumentare all’infinito lo sfruttamento, proseguendo a sovrapporre il tempo di vita con quello di lavoro (anticipandolo come tempo di studio).
La formazione continua, l’investire su se stessi, sempre in collegamento con il mercato, sempre in grado di fornire dati, sempre più veloce.Nel frattempo le iniquità sociali aumentano e le stesse dimensioni delle abitazioni tornare a rappresentare una discriminante di classe palese.
Non è questione di essere favorevoli o contrari allo sviluppo, ma saper immaginare il modello di sviluppo alternativo a quello insostenibile che sta devastando l’ambiente e l’umanità stessa.
Jacopo Vannucchi
La sospensione di alcune attività economiche e la riorganizzazione di altre – ad esempio con la didattica a distanza – hanno prodotto due effetti solo apparentemente contraddittori. Da un lato hanno mostrato in tutta evidenza come la ricchezza sia prodotta da chi lavora. Dall’altro lato, hanno approfondito e stanno approfondendo le diseguaglianze: il distanziamento è tanto più facile quanto più si vive in zone non affollate e quanto più si ha la possibilità di non lavorare o, in seconda battuta, di telelavorare.
Questi effetti sono contraddittori solo in apparenza poiché coerenti con la vera contraddizione, ovvero il sistema economico da cui discendono: la piramide rovesciata che porta le privazioni di larghe masse umane a sostenere gli enormi profitti di pochi.
Una replica di questi fenomeni la osserviamo anche nella didattica a distanza, in cui ad essere esclusi dalle attività scolastiche sono proprio i soggetti che più ne hanno bisogno: la settimana scorsa un giornale nazionale ha pubblicato il desolantemente ovvio, ossia due bambini rom che fanno i compiti per conto proprio, senza connessione web (leggi qui).
Osservando l’indice europeo di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) possiamo notare alcuni raggruppamenti ben definiti. In primis il gruppo di testa (Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Danimarca), seguito da altri paesi contigui (Lussemburgo, Irlanda, Estonia, Belgio) più Malta e Spagna. Poi il blocco franco-tedesco cui si accodano i piccoli paesi più o meno integrati con esso (Lituania, Slovenia, Lettonia, Cechia, Portogallo, Croazia, Slovacchia, Cipro, Ungheria). Poi l’Italia, in una strana posizione, seguita in ultimo dai paesi più orientali e/o in cui larga parte della popolazione vive ancora in campagna (Polonia, Grecia, Romania, Bulgaria). Il posizionamento dell’Italia appare squilibrato poiché è, probabilmente, la risultante di tre o quattro Italie: quella più integrata nel circuito commerciale tedesco, quella comunque socio-economicamente avanzata e ricca di capitale umano, la “terza Italia” delle piccole regioni tra il Po e il Volturno, infine quella piagata da abbandono scolastico, disoccupazione e criminalità organizzata.
Né l’Italia è un caso isolato: è lecito sospettare simili divisioni interne anche in altri grandi Paesi, ad esempio fra la Spagna orientale e quella occidentale, fra l’ovest e l’est in Germania, fra la Polonia urbanizzata e quella rurale. Vediamo ripetersi su scala internazionale proprio quei fenomeni di diseguaglianza richiamati in apertura.
Se il Covid-19 deve essere veramente quell’insperata occasione per il riequilibrio del modello di sviluppo, allora bisognerà coglierla anche per tentare la mobilitazione di quei poderosi investimenti di capitale che soli possono rendere l’Unione Europea una potenza di fatto, realmente integrata e armonizzata, capace di riassumere il potere industriale e geopolitico che le compete per storia e per capacità produttiva.
Alessandro Zabban
Fra le tante contraddizioni sistemiche del neoliberismo, c’è anche quella che concerne l’innovazione nel campo delle nuove tecnologie informatiche. Da una parte si assiste a una narrazione salvifica sulla digitalizzazione e le reti, sponsorizzate come in grado di renderci la vita migliore e “smart” ogni cosa che ci circonda; dall’altra si porta avanti la denigrazione e lo smantellamento dell’unico attore politico ed economico in grado di rispondere alla sfida di diffondere le infrastrutture tecnologiche necessarie su tutto il territorio, rendendo la rete accessibile a tutti e la digitalizzazione un fenomeno di massa, ovvero lo Stato. Lasciato al mercato e alle multinazionali, internet e tutto ciò che ruota attorno a questa epocale innovazione tecnologica, non finisce solo per creare disuguaglianze sociali nell’accesso e nelle possibilità di utilizzo, cosa che ai capitalisti interessa il giusto, ma rende un sistema economico meno competitivo complessivamente sull’arena globale, cosa che invece dovrebbe preoccupare i capitalisti. Rimettere al centro un ruolo attivo dello Stato nella gestione delle infrastrutture e dei settori economici strategici dovrebbe essere una strategia condivisa da tutti, anche dalle élite che hanno a cuore il loro futuro nel lungo termine, a maggior ragione alla vigilia di una crisi economica epocale che rischia di portare a una definitiva sudamericanizzazione di diversi Paesi a trazione neoliberale fra i quali l’Italia che dopo quaranta anni di politiche economiche disastrose, si ritrova in netto svantaggio competitivo e male equipaggiata al livello tecnologico ed infrastrutturale.
Immagine da www.pexels.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.