Di voucher e mercato del lavoro (a dieci mani)
I dati dell’INPS relativi ai primi dieci mesi del 2016 evidenziano delle tendenze del mercato del lavoro tutt’altro che rassicuranti. Se da una parte si assiste a una diminuzione dei contratti a tempo indeterminato (-32,0% rispetto al periodo gennaio – ottobre del 2015) e a un incremento dei licenziamenti, sopratutto per motivi disciplinari (+27,4%), dall’altra si registra il consolidarsi di un trend di crescita dell’utilizzo dei voucher piuttosto sostanzioso (+32,3%). I buoni del lavoro accessorio, dal valore nominale di 10 euro, sono al centro di numerose polemiche dato che vengono utilizzati sistematicamente anche al di fuori del contesto della prestazione occasionale, aggravando così il fenomeno del precariato e dando una spallata micidiale ai diritti dei lavoratori, tanto che in molti parlano di un processo di “voucherizzazione del lavoro”. Questa situazione ha anche delle ricadute politiche immediate che si traducono in un braccio di ferro fra la CGIL, che ha proposto un referendum sul lavoro in cui uno dei quesiti riguarda proprio la loro abolizione, e il Ministro Poletti che vorrebbe mantenerli riducendone però la portata e limitandone l’utilizzo.
“Paura fa novanta”: potremmo riassumere così la discussione postreferendaria all’interno della maggioranza di governo sul tema dei voucher.
Il tentativo, perfino dichiarato da un improvvido ministro Poletti, di evitare i referendum promossi dalla CGIL (uno dei tre quesiti riguarda proprio i buoni lavoro), ha spinto ad un, quantomai tardivo, dibattito.
Lo strumento dei voucher, introdotto dal governo Monti, non è di per sé disprezzabile se fosse rimasto nell’ambito per il quale era nato: l’occasionalità.
In questi anni si è invece assistito ad una crescita esponenziale dello strumento senza alcuna limitazione legata al numero di dipendenti dell’azienda utilizzatrice, ad un aumento del tetto di voucher pagabili da un singolo committente ed infine ad una estensione delle possibili attività remunerabili con i buoni.
Se il voucher può avere un senso nel far emergere una parte del lavoro nero presente in settori quali le ripetizioni private o piccole attività d pulizia domestica (realmente occasionali) nell’ambito della ristorazione o dell’edilizia (per altro senza alcuna distinzione tra il cuore del cantiere e le attività collaterali) ha finito, anche in assenza di martellanti controlli degli ispettori del lavoro, per sostituire contratti come il part-time verticale o quelli legati alla stagionalità producendo una eterogenesi dei fini che finirà per creare un nuovo buco nei conti dell’INPS.
La speranza è che adesso la Corte Costituzionale approvi il quesito proposto dalla maggiore confederazione sindacale del Paese (premesso che difficilmente un governo “a tempo” avrà, per l’appunto, tempo per intervenire sulla materia) e che da quella campagna referendaria nasca una coalizione sociale informale ma ugualmente efficace per il prossimo grande obiettivo volto ad invertire la tendenza nel mondo del lavoro: le pensioni, a partire dall’abolizione del sistema contributivo (Consulta permettendo).
Soprassediamo sulla fine dell’indennità di mobilità e della cassa integrazione in deroga che rappresentavano pur sempre degli strumenti fondamentali del welfare state ai quali non bisognava rinunciare così facilmente e concentriamoci sull’estrema liberalizzazione normativa dei contratti di lavoro. Il governo Renzi con il Jobs Act si è posto in continuità con una ormai lunga serie di riforme del lavoro che risultano fallimentari nei fatti, nonostante i proclami del servo Gentiloni. L’iniziativa referendaria sindacale rivolta a scardinare il Jobs Act partendo dallo strumento più infimo, ossia quello dei voucher, è senza dubbio positiva, soprattutto se si riuscisse realmente a evitare le manipolazioni governative e a portare al voto il popolo coagulando il malcontento manifestatosi già durante l’ultimo referendum. Purtroppo per quanto riguarda quest’ultimo referendum il percorso è irto di ostacoli e al contrario del referendum costituzionale dove le istituzioni democratiche hanno adottato come unica alternativa la semplice negazione del volere del popolo, potrebbe manifestarsi concretamente l’eterogenesi dei fini. Infatti, l’abolizione del Jobs Act potrebbe divenire una semplice modifica e aiutare il governo Gentiloni a traghettare il PD a fine legislatura. Le incognite sono ancora molte, la stessa Corte Costituzionale non si pronuncerà sull’ammissibilità dei quesiti fino all’11 gennaio e sembra già fin da ora orientata a bocciare il ripristino dell’art. 18.
Quello che mi interessa è porre in risalto che anche se si realizzasse l’obiettivo massimo, e cioè si riuscisse finalmente ad abolire il Jobs Act, resterebbero comunque i contratti di somministrazione, di collaborazione e le tante altre forme di lavoro parasubordinato in cui è stato sbriciolato il rapporto di lavoro tra datore di lavoro e lavoratore dipendente. Se il mercato del lavoro è in condizioni catastrofiche, in cui si ripresentano le forme di lavoro a cottimo in condizioni salariali da fame (ultimo esempio eclatante è Foodora che utilizza i contratti di collaborazione), è perché ha trionfato anche a sinistra l’ideologia liberista dei “lavoretti” che in realtà sono lavoracci che servono a mascherare l’assenza cronica di lavoro.
L’ideologia si è imposta in Italia ai tempi della legge Treu, passando come un toccasana per il lavoro. Se oggi siamo nelle condizioni pessime in cui siamo è perché quelle premesse, basate sull’autonomizzazione e la responsabilizzazione del lavoratore non più formalmente dipendente e in grado di imporsi e non di porsi semplicemente sul mercato, erano totalmente errate. È evidente a chi non abbia la mente totalmente annebbiata dai fumi dell’ideologia liberoscambista. In definitiva, oggi promuovere dei referendum, per quanto auspicabili, senza modificare quell’impianto ideologico, equivale a non intervenire alla radice del problema per concentrarsi solamente sulle sue forme e manifestazioni. Infatti, se può servire combattere le manifestazioni concrete del precariato, difficilmente si può ritenere una strategia vincente affrontarle una alla volta e ancor più difficilmente si può pensare di invertire le politiche che promuovono la precarizzazione senza strategie di ampio respiro che coinvolgano realmente le masse lavoratrici del paese. Per intenderci: i lavoratori sguazzano nella precarietà e vivono come working poor non da oggi, ma ormai da circa un ventennio e cioè da quando nel 1997 la legge summenzionata introdusse le forme di “lavoro interinale”.
A breve dimostrazione di quanto siano spaventati dal referendum i legislatori riporto solo un paio di dichiarazioni.
La prima è del solito Pietro Ichino che ricorda alla Cgil come “in 3 casi su 4 si tratta di un secondo lavoro o di un lavoretto svolto da un pensionato o da uno studente” (vedi qui), dunque non c’è motivo di prendere sul serio i voucher, infondo per Ichino il lavoro retribuito è un gradevole passatempo come un altro!
La seconda è di Cesare Damiano, da troppi considerato il difensor fidei della ragione comunista nel PD, che ha commentato così la necessità di riformare i voucher: “basta recuperare la legge Biagi e farli tornare veramente strumenti per pagare collaborazioni occasionali”. Compagni, bastava recuperare la legge Biagi!
Insomma, servirebbero interventi in grado di creare stabilità nel rapporto di lavoro al fine di ridurre il tasso di sfruttamento della forza-lavoro che resta il principale fattore di destabilizzazione del mercato del lavoro italiano. Non ci si può in alcun modo affidare a chi ha incrementato le condizioni di anarchia del mercato del lavoro al fine di aumentare lo sfruttamento della parte più debole nel rapporto di lavoro. Solo la totale abolizione di un tale strumento è da salutare con gioia e iniziare a cincischiare persino sui voucher rappresenterebbe solo l’ennesimo fallimento di un sindacato che già non se la passa troppo bene. Parallelamente non si deve assolutamente concedere alle forze padronali di aggirare l’ostacolo e purtroppo una strategia rivolta a lasciare comunque ampi margini di manovra alla controparte di classe risulta perdente già in partenza.
Se la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi rispondeva alla crisi della “qualità” della rappresentanza abbassando la “quantità” dell’offerta politica (meno spese, meno politici, meno istituzioni, più potere all’esecutivo), i voucher vanno in una direzione analoga: si fa emergere il lavoro nero concedendo una frazione di diritti che spetterebbero al lavoratore, cercando di permettere ai sostituti di imposta di trovare conveniente un obbligo.
Il lavoro nero è una piaga da risolvere lavorando su più fronti, senza concedere nulla all’idea che un diritto su cui si fonda la Costituzione possa essere considerato un privilegio, una “fortuna”. Purtroppo oggi gli stessi imprenditori appaiono come coraggiosi cavalieri che tra tasse e concorrenza difendono la vita di migliaia di cittadini.
Il sistema produttivo è distorto e piegato da un capitalismo interessato al massimo profitto e non più spaventato da ciò che sorge su un altro lato del muro. Gioca su un distorto senso comune, per cui è accettabile lavorare in nero per arrotondare (nel caso dei lavoratori privilegiati) o lavorare in nero piuttosto che non lavorare.
Aboliti i voucher si ripristinerà la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori? No, ma si sarà dato un colpo alla narrazione per cui tutto è cedibile per poter galleggiare nel nuovo mercato globale.
La crescita dell’impiego dei buoni lavoro negli ultimi due anni appare dovuta non tanto ad una deregolamentazione del mercato del lavoro, come vorrebbe un certo racconto, ma piuttosto al suo esatto contrario, ovvero l’eliminazione di una delle forme contrattuali che avevano consentito di mascherare un effettivo lavoro subordinato: il contratto di collaborazione a progetto (co.co.pro.), abrogato dal decreto legislativo 81/2015 (attuativo del Jobs Act).
Se è vero che il Jobs Act ha elevato da 5000 a 7000 euro il compenso annuale percepibile tramite voucher, mantenendo ferma a 2000 euro la quota per singolo committente, esso ne ha disposto anche il divieto d’impiego negli appalti e imposto la tracciabilità tramite registrazione INPS preventiva all’avvio reale del rapporto di lavoro. (In precedenza era possibile dichiarare a un eventuale ispettore che il lavoratore aveva preso servizio il giorno stesso.)
Queste misure sono state una prima inversione di tendenza rispetto alle liberalizzazioni dei precedenti governi Monti, che estese a tutti i settori l’applicabilità del voucher, e Letta, che abolì il vero requisito qualificante del buono lavoro, ovvero l’occasionalità della prestazione.
Il riversarsi sui voucher delle prestazioni lasciate “scoperte” dall’abrogazione del co.co.pro. evidenzia tuttavia tre problemi di fondo:
- 1) nel sistema produttivo italiano è presente una domanda strutturale di flessibilità e di competitività, che pone come questioni fondamentali:
- 2) la creazione di una competitività “buona” e di una produttività “buona”, fondate cioè su reali qualità del processo e del prodotto e non sulla compressione di diritti e salari;
- 3) la creazione di una tutela sociale universale per i lavoratori.
Ora, Landini ci informa che i voucher conculcano i diritti dei lavoratori, mercificano il lavoro (come se la forza-lavoro non fosse una merce), devono essere aboliti e sostituiti da altre forme già esistenti tra le quali la somministrazione (evidentemente non mercificante). Sui voucher, di cui la Cgil chiede l’abrogazione con referendum, l’unica mediazione, ci informa, è la Carta dei diritti, legge d’iniziativa popolare che ovviamente, vista la bocciatura della riforma costituzionale, il Parlamento non è tenuto a discutere.
Ma nella Carta dei diritti si propone la «Disciplina del lavoro subordinato occasionale», retribuito con “schede” (leggi: buoni lavoro, voucher). Quali sarebbero le differenze con il sistema attualmente vigente?
- 1) Si ripristinerebbe il requisito di occasionalità, abolito dal Governo Letta;
- 2) Si restringerebbe la platea dei possibili beneficiari a studenti, inoccupati, disoccupati e pensionati;
- 3) Si fisserebbero tetti massimi temporali (40 giorni) e reddituali (2500 euro) presso uno stesso datore di lavoro, senza però limiti cumulativi per più datori.
Queste proposte sono di fatto in linea con quanto argomentato (e già applicato nel settore agricolo) dal ministro Martina, a capo di Sinistra è Cambiamento (la sinistra della maggioranza pro-Renzi dentro il Pd).
Per queste ragioni è da ritenere che un accordo per la modifica della disciplina buoni-lavoro, che ne salvi il ruolo di emersione del nero e ne sfrondi gli abusi, sia assolutamente raggiungibile, a meno che le forze sindacali siano interessate molto a cercare dividendi politici e poco a tutelare, tramite una buona applicazione dei voucher, i soggetti più deboli del mercato del lavoro.
P.S.
Alcuni argomentano che è umiliante che il buono lavoro sia vendibile in tabaccheria. In realtà questa possibilità rende più facile per il datore acquistare il buono e quindi aumenta il potere contrattuale con cui il lavoratore occasionale chiede il voucher invece della retribuzione in nero – fermo restando, inoltre, che la tabaccheria è una rivendita autorizzata di valori bollati di Stato.
Lo scorso 22 Dicembre le lavoratrici di un ristorante di Modena appartenente alla catena di ristorazione francese Flunch hanno scioperato a seguito della decisione dell’impresa di chiudere il punto ristoro, con il conseguente licenziamento, entro gennaio 2017, di tutti i 34 dipendenti. Mentre scioperavano però, il ristorante è rimasto aperto grazie a del personale retribuito a voucher. Il giorno dopo, al loro rientro, le lavoratrici hanno trovato cartelli con minacce e offese attaccate ai marcatempo, mentre alcune di loro sono state adibite a mansioni inferiori.
Vicende di questo tipo, che per ora sembrano ancora numericamente limitate, sono destinate a moltiplicarsi in un breve lasso di tempo se si continuerà a permettere di utilizzare un strumento retributivo che dà al datore di lavoro un potere di ricatto enorme e che si traduce in un ritorno a condizioni di sfruttamento paragonabili a quelle dell’accumulazione originaria tipiche della preistoria del capitalismo. I dati ISTAT confermano che siamo in presenza della più grave distorsione del mercato del lavoro italiano (ma per alcuni non è affatto una distorsione, quanto il modello auspicato del lavoro “smart” del XXI secolo), uno strumento che reintroduce una forma di pagamento a cottimo e che fa ben poco per far emergere il lavoro sommerso, dato che a un controllo basta esibire un voucher e l’ispettore non potrà mai sapere se dietro quell’ora di lavoro retribuita non se ne nascondano altre sette o otto in nero.
Poletti promette circa ogni sei mesi la revisione del sistema dei voucher, senza aver mai realmente modificato in maniera significativa questo strumento che può avere un senso se è usato per retribuire unicamente prestazioni da lavoro accessorio e saltuario come il babysitteraggio o le ripetizioni. La tracciabilità è un piccolo passo in avanti ma è un cambiamento che non va a modificare minimante quello che è il cardine del problema che rimane la necessità di circoscrivere lo strumento a un numero molto esiguo di rapporti di lavoro. Poletti per cercare di evitare il referendum della CGIL è ritornato a ribadire la sua intenzione di rivedere i voucher. Chissà se questa motivazione estrinseca lo porterà finalmente ad attuare una riforma radicale dello strumento. Una buona dose di scetticismo è d’obbligo anche perché se ci fosse stata la volontà politica, sarebbe già stato fatto.
Immagine liberamente ripresa da www.cgilpisa.it
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