In Italia l’accesso a internet di massa è arrivato quasi di
colpo negli ultimi anni, soprattutto con l’avvento degli smartphone. Prima era
infatti limitato a poche aree geografiche raggiunte da una connessione stabile
e ulteriormente ristretto per classe a chi aveva un computer a casa. Una
minoranza privilegiata ha frequentato i forum con la loro rigorosa etichetta,
ha magari sostituito o modificato parti del suo computer, ha assistito a due
decenni di evoluzione del reticolato dei siti e dei motori di ricerca; ma la
maggior parte della popolazione italiana non sembra saper usare internet: non
comprende il funzionamento del dispositivo che ha in mano e si districa con
difficoltà al di fuori di pochi siti familiari (generalmente social network),
oltre a non avere coscienza di quali suoi dati siano rilevati e non conoscere,
sostanzialmente, regole di comportamento.
Se a questo si somma l’età media della classe dirigente che dovrebbe normare lo
spazio virtuale e i suoi rapporti con quello non virtuale, si intuiscono forse
i motivi della confusione che caratterizza il dibattito su se e come combattere
i cosiddetti fenomeni d’odio in rete.
Il perimetro della discussione è recintato da proposte di
controllo o limitazione dell’accesso ai social network – anche perché apparentemente
gli attori sono tanto più entusiasti nell’invocare genericamente misure
draconiane quanto meno sanno da dove cominciare. Per citare gli esempi più
noti: il senatore Luigi
Marattin (Italia Viva) lo scorso ottobre ha promesso una proposta di legge
per l’obbligo di registrarsi sui social network con i dati della carta
d’identità; mentre è di questi giorni l’idea di Mattia Santori, noto come portavoce
di 6000sardine, di un «DASPO
social» integrato nel Decreto Sicurezza per escludere dai social network
chi «non è in grado di comportarsi nell’arena pubblica», anche in questo caso
attraverso un sistema di certificazione dell’identità.
Le due proposte sono essenzialmente simili, sia in quanto fondate sul controllo
dell’identità degli utenti, sia per l’approccio espressamente securitario, sia
per il sostanziale malinteso del ruolo dell’identità (anagrafica e non) su
internet.
L’aspetto tecnico è il più immediato da rifiutare, basta quasi parafrasare la proposta: si affiderebbero i dati dei documenti d’identità dei cittadini, dati delicatissimi per i quali l’aggettivo sensibili non è forse sufficiente (si pensi solo al fatto che con essi è possibile clonare e contraffare documenti), ad un privato magari con sede legale all’estero – Marattin auspica un generico ente certificatore terzo da preferire a Facebook, ma nelle sue stesse parole questo aspetto è secondario rispetto alla messa in atto del sistema di certificazione.
Del resto, gli haters
su internet hanno tipicamente le identità in chiaro – un po’ per scarsa dimestichezza
di privacy, un po’ per un generalizzato senso di impunità su internet, un
po’perché si sentono forti, parte di una maggioranza. L’attività della campagna
#OdiareTiCosta, che si basa sul
querelare chi commette reati di discriminazione sui social network, lo dimostra
plasticamente. Il mito del “profilo falso” che rimbalza di bocca in bocca nel
dibattito pubblico è sostanzialmente infondato – nasce forse da una certa
confusione con i bot automatici, che però non hanno a che fare con la
questione. Tranne pochissimi utenti in grado di anonimizzarsi effettivamente
grazie a competenze ben al di fuori della portata della maggioranza, in caso di
necessità giudiziaria è possibile risalire all’identità dell’autore di un atto
online attraverso il suo indirizzo Ip.
A ricorrere più spesso a pseudonimi o identità diverse da quella anagrafica, su
internet, sono invece persone appartenenti a minoranze, persone vittime di
bullismo o di mobbing, persone in transizione i cui dati anagrafici non sono
ancora stati rettificati, persone discriminate per elementi della loro identità
che grazie ad uno pseudonimo possono avere almeno su internet una vita
relativamente più serena.
Le vittime, e non i carnefici, sarebbero le persone certamente colpite
dall’obbligo di certificare la propria identità sui social network.
L’esclusione dai social network di non ben specificati trasgressori sarebbe un passo ulteriore di securitarismo, del resto non dissimulato – oltre all’immaginario di arbitraria limitazione della libertà personale (indipendentemente dal configurarsi di un reato o un illecito) evocato dalla scelta della parola DASPO, basti pensare alla leggerezza dell’associazione con i Decreti Sicurezza. L’indirizzo è sproporzionatamente contro persone e apparentemente solo vagamente contro i contenuti – il riferimento più circoscritto è al registro usato, non al messaggio; proprio la genericità degli obiettivi da colpire con la sproporzionata misura di una radicale limitazione della libertà di espressione dovrebbe allarmare.
Nel complesso si tratterebbe quindi di un approccio inutile
nel combattere il problema e allo stesso tempo per molti versi problematico.
Ciò non significa che non si possano adottare strategie efficaci, anche se
magari meno spendibili in campagna elettorale.
Per prima cosa chiamare l’”odio” con il suo nome. Chiamarlo razzismo quando si
tratta di razzismo, sessismo quando si tratta di sessismo, omotransfobia quando
si tratta di omotransfobia e così via; invece di girare intorno al problema
parlando genericamente di “odio”, come se l’obiettivo fosse capirci tra pochi
virtuosi su un insieme di mali che è cattiva educazione nominare, denunciare
esplicitamente il problema con le parole che lo descrivono, poiché l’obiettivo
è risolverlo.
Si noterebbe così che l’”odio” corrisponde a fattispecie di reato già previste
e perseguite nel nostro ordinamento. La maggior parte degli utenti che
esprimono posizioni discriminatorie in modo violento sui social network non ha
maturato le proprie opinioni in quello spazio (al massimo le ha consolidate
grazie alla cassa
di risonanza dei suoi contatti e dei contenuti fruiti), bensì ha trovato
nei social network una piattaforma dove esprimerle in un contesto di virtuale
impunità. A dissuadere da molti comportamenti violenti sui social network
potrebbe bastare un richiamo alla realtà non virtuale, alla concretezza del
gesto che si sta compiendo.
La legge forse non raggiunge abbastanza la rete, ma ciò non significa che non
possa raggiungerla, senza che la rete sia vista come uno spazio d’eccezione da
governare con misure marziali, oltretutto disegnate da quegli stessi
legislatori la cui impreparazione di fronte al mondo di internet ha lasciato a
colossi come Google e Facebook campo libero nel costruire la nostra percezione
della rete a loro immagine e somiglianza.
Disarmare gli haters e il degenerare di una comunicazione sempre più violenta passa infatti anche per lo smettere di considerare i social network un servizio pubblico: sono piattaforme private le cui regole rispondono solo all’arbitrio dei proprietari e sono accettate dagli utenti prima di iscrivervisi; i colossi privati hanno tutto da guadagnare nel convincerci di fornirci un servizio di base per la nostra vita, e noi tutto da perdere nel crederci. Se un contenuto viene rimosso è fuorviante parlare di censura o sovrapporre la dinamica a quelle del dibattito pubblico, come avvenuto ad esempio nel caso di pagine neofasciste bloccate da Facebook, poiché si tratta dell’arbitrio di un privato secondo la propria convenienza.
Se molti utenti considerano i social network uno strumento di comunicazione essenziale, o anche solo la loro principale (se non unica) fonte di notizie e informazioni, il problema è nella cultura degli utenti, è antecedente alla veridicità o meno delle notizie o all’effetto “bolla” con della loro distribuzione, ma può e deve essere combattuto.
Smascherare i social network riconoscendoli come spazi privati suggerisce di per sé parziali strumenti di pressione nei loro confronti: essere uno spazio aggregativo di estrema destra dovrebbe causare un danno di immagine al quale forse un privato è interessato a reagire, se la pena è una massiccia perdita di utenti – mentre il beneficio materiale di sottrarre uno strumento aggregativo all’estrema destra prescinde dalle caratteristiche dello strumento.
Ma il vero, gigantesco elefante nella stanza di cui bisogna
assolutamente iniziare a parlare è la cultura cui certi messaggi e comportamenti
appartengono. Un messaggio razzista violento è solo parzialmente peggiore di un
messaggio razzista pacato; concentrarsi sulla forma può far perdere di vista la
pericolosità dei contenuti.
Le discriminazioni e le violenze ad esse collegate, anche se in alcune forme
facilitate dai social network, sono saldamente radicate in una realtà storica
della quale internet è solo una dimensione, avallate e nutrite da discorsi
forse non violenti nella forma, ma certo compiacenti nei contenuti; la
battaglia contro questa cultura è probabilmente la più difficile, ma non può
essere rimandata.
Immagine di Karen Allen (dettaglio) da needpix.com
Studia scienze naturali all’Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.