Democrazia senza verità? è il titolo di una due giorni organizzata dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui una parte è fruibile in video sul canale YouTube dell’istituto. Il senso dell’evento è evidenziato da Carlo Bartoli, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti Regione Toscana, e risiede nella necessità di un aggiornamento continuo della sua categoria, rispetto al contesto sociale in cui opera. Il problema dell’informazione non nasce con il web, però non si può negare come “con la modificazione della fisionomia dell’ecosistema” cambino “le modalità con cui si sperimenta la ricerca di verità”, da intendere come verità possibile, “diversa da quella dello storico”, perché legata ai contesti e alla funzione a cui sono chiamati i giornalisti. Prima di qualsiasi azione ormai chiunque si pone il problema di come comunicarla. Il racconto anticipa la realtà, in qualche modo. Internet aggiunge particolari ed insidie, ma anche nuove possibilità di verifica.
Adriano Fabris, Professore di Etica della Comunicazione, all’Università di Pisa, ricorda come “il rapporto tra democrazia e verità” non sia “mai stato stretto”. Ad Atene si è subito visto, nella Grecia antica, che dire la verità può essere controproducente, come dimostra la fine di Socrate rispetto a Anito e Meleto, impegnati ad andare incontro ai “desideri del popolo” nella loro narrazione, accusatrice nei confronti del filosofo condannato a morte. Un esempio più noto è quello di Gesù di fronte a Pilato, dove la decisione prescinde dalla verifica dei fatti e si rimette alla volontà del consenso. “Ci piace di più un racconto ben costruito piuttosto che la dura verità”, dice Fabris: il primo risulta più persuasivo (e in qualche modo persino “più vero”). Spesso ci mancano le competenze per selezionare le informazioni, laddove si riesca a trovare il tempo necessario per fare fronte a quantità impressionanti di dati e notizie.
Il diritto ad esprimere un’opinione offusca la complessità del reale. “Dobbiamo rinunciare alla verità in nome della possibilità di governare?”, è la domanda con cui si chiude questo intervento.
Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, insiste sull’importanza di internet rispetto ai mutamenti nel modo di comunicare. “Per più di 150 anni le moderne democrazie sono state dipendenti dall’industria dell’informazione per costruire la sfera pubblica”. I mezzi sulla base dei quali si formavano le opinioni, alla base delle scelte elettorali, richiedevano ingenti investimenti. La produzione di cultura richiedeva molti capitali fisici. Le barriere di ingresso del mercato erano significative e spesso non dipendevano solo da fattori economici, come nel caso del limitato spettro di frequenze disponibili prima del passaggio al digitale del sistema televisivo. La libertà di manifestare il proprio pensiero (articolo 21 della Costituzione italiana) era riconosciuta ma pochi avevano accesso alla possibilità di rivolgersi ad ampi settori.
Per garantire il pluralismo, il problema fondamentale era il carattere aperto dei mercati, impedendo posizioni di monopolio. La legislazione fino ad un certo punto è stata “limitativa”, anche rispetto ai limiti di pubblicità cumulabile da un determinato editore. Erano relativamente pochi anche i professionisti, chiamati a ricoprire una responsabilità rilevante sul ruolo dell’informazione, controllata dal corpo specifico e dalla deontologia della categoria.
La quarta rivoluzione industriale mette radicalmente tutto in discussione, con una forza distruttiva in grado di mutare modi di produzione e distribuzione delle notizie, trasformando la sfera politica. “C’è un nesso tra il tipo di tecnologia che si utilizza” e “il modo concreto con cui si atteggia la libertà di informazione”. Non è una variazione sul tema, ma un cambiamento strutturale. L’innovazione digitale ha portato al decentramento: ognuno di noi può produrre informazioni o reagire alla diffusione di notizie. La ricchezza della rete si accompagna a dei soggetti capaci di ordinare i dati (motori di ricerca, social network, et cetera). Le piattaforme diventano “i portieri”, detentori delle “chiavi dei cancelli”.
La nuova era della “personalizzazione del web” (ad esempio con Google che dal 2009 personalizza i risultati delle ricerche sulla base di algoritmi) plasma ciò che vediamo sulla base dei nostri interessi. L’esperienza comune ci dice che non arriviamo quasi mai “alla decima pagina” in una ricerca su internet: il 94% si ferma alla prima, solo il 4% arriva alla seconda, secondo una ricerca tedesca. “Ognuno di noi è chiuso all’interno delle informazioni coerenti con i propri gusti, i propri pregiudizi, le proprie aspettative”. L’utente è inconsapevole, si rivolge allo schermo aspettandosi attendibilità e correttezza. L’algoritmo in realtà è sconosciuto, protetto dalla normativa sui segreti industriali.
La “sovranità del consumatore” si esprime sul mercato, ma è distinta dalla “sovranità di un cittadino” in una nazione libera, in cui si tratta di formare le idee e le opinioni con cui si arriva al rapporto con i propri rappresentanti.
“Un sito di un giornale deve entrare su Facebook per agganciare nuovi lettori”. Esistono siti che utilizzano l’ecosistema di Facebook per diffondere notizie calibrate su determinati tipi di utenti e ritorni economici: la tendenza alle fake news nel mondo digitale ci colpisce all’interno di una bolla e non sono sottoposte al confronto. C’è chi difende l’attuale sistema parlando di “mercato delle idee”, di “libero commercio delle opinioni”, ignorando però il rafforzamento di identità e pregiudizi nei contesti chiusi.
Sul futuro della nostra democrazia si apre una riflessione sulla fine dell’era dei partiti di massa, basati su solidi apparati culturali. La comunicazione era già cambiata con l’avvento della televisione e dei media generalisti attraverso cui ci si esprime. Siamo passati dall’appartenenza al partito politico al pubblico indistinto nei propri soggiorni a cui ci si rivolge per avere consenso. Il pubblico reagisce al politico che propone delle identità. La competizione avveniva “al centro”, per contendersi le posizioni mediane ed escludere le “ali estreme”.
Oggi invece ci sono le bolle, con una frammentazione e segmentazione senza dialoghi tra posizioni diverse. Siamo in una “democrazia della bolla”? Chi denuncia i problemi della contemporaneità e chiede a Google o Facebook di applicare dei filtri si sta affidando a dei privati, ai loro ricavi. Chi deve controllare la nostra informazione? Professionisti a contratto con le piattaforme teoricamente in regime di auto-controllo? Quando parliamo di controllo pubblico si tende ad inorridire, ma forse la risposta sta invece in questa dimensione.
Nicolò Zanon, Giudice costituzionale, comprende le preoccupazioni espresse nell’intervento precedente ma vuole comprendere se le modifiche strutturali esplicitate mettano in crisi le categorie con le quali il diritto ha pensato la libertà di informazione. La parabola di Pitruzzella “parte con la necessità di tutelarci dalle fake news e finisce con l’invocare il potere pubblico”. Siamo protetti dalle pubblicità ingannevoli sui prodotti, mentre nel “mercato delle idee” il cittadino è lasciato del tutto solo rispetto alla selezione di informazioni. La legge può punire il subiettivamente falso, ma l’obiettivamente erroneo confligge con la tutela di tutte le manifestazioni del pensiero: non si può prescindere dalla buona fede di chi afferma qualcosa di sbagliato oggettivamente. Da una giusta preoccupazione si può facilmente passare ad un esito antiliberale, in termini di norme. La Corte Costituzionale si è espressa in passato sull’importanza del “pluralismo delle fonti”, recuperando in pieno una tradizione liberale, che diffida dall’autorità pubblica nel definire ciò che è vero da ciò che non lo è. “Non metto in dubbio i passaggi di Pitruzzella, ma siamo sicuri che l’esito debba condurci ad un decisore pubblico?”. Categorialmente i diritti del diritto costituzionale, secondo Zanon, devono rimanere gli stessi, anche se ci sono state modifiche strutturali sulla produzione delle informazioni.
Il problema filosofico di fondo ha una storia di tremila anni e ormai, nel sistema del pensiero occidentale, la Verità non esiste più. “Certo un conto è smentire un evento che non si è mai verificato ma si presenta come verificato, ma nel campo delle tesi e delle valutazioni non c’è che il pluralismo“. L’antidoto allo “hate speech” potrebbe essere “more speech“. Si potrebbero distinguere i settori, con strumenti di tutela: “se io dico che i vaccini fanno male, siamo nel campo medico-scientifico, in cui non so se si possa parlare di verità, ma esistono sperimentazioni e statistiche in grado di smentire che i vaccini facciano male”. Anche a metà degli anni ’90 si discuteva in termini simili della propaganda politica sui mezzi televisivi. L’idea costante è quella paternalistica che considera l’elettore “un beota” da proteggere.
Il dibattito prosegue attorno alla categoria di verità. Come spesso accade, forse, anche in questo caso sarebbe rilevante provare ad avvicinare il piano della teoria su quello della prassi e legare le categorie dell’informazione a quelle del tipo di società che si vuole costruire. Su questo ogni spazio di discussione e confronto diventa ambito di sfida.
Pubblicato per la prima volta il 6 maggio 2017
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.