Democrazia o mercato: dilemma europeo (a dieci mani)
Non è un periodo fortunato per i trattati transnazionali del commercio. Il TTIP (tra Unione Europea e Stati Uniti d’America) ha visto naufragare il confronto tra le parti per l’opposizione di molti governi nazionali, probabilmente in seguito alle pressioni delle opinioni pubbliche di molti paesi (tra cui quelle di Francia e Germania). Le trattative per il CETA (tra UE e Canada) parevano essere ormai concluse, ma l’opposizione della Vallonia ostacola la firma del Belgio (tutti e 28 gli stati membri dell’UE devono ratificare gli accordi). Sul Sole 24 Ore sono usciti articoli (qui e qui) che esplicitamente affrontano il tema della democrazia come ostacolo al progresso economico (la Brexit è il richiamo più immediato, ma anche i referendum della Grecia non sono così distanti nel tempo).
Ci voleva la Vallonia, la piccola e sconosciutissima Vallonia (nel sistema, buffo e per certi aspetti pre-moderno, assetto costituzionale del Belgio), per bloccare l’iter vi avanzamento del CETA.
Se ciò costituisce, indiscutibilmente, una buona notizia, meno buone sono le motivazioni che spingono spesso Stati nazionali o esponenti politici in campo per le elezioni (vedasi la discussione sul TPP in corso negli Stati Uniti) a stoppare questi trattati di commercio.
Sono infatti le ripercussioni su specifici settori (quasi sempre i coltivatori diretti) a spaventare la politica (e spesse volte, quasi sempre, i conservatori) spingendoli a mettere il freno su accordi che lascerebbero i suddetti settori in balia del commercio internazionale ed inevitabilmente schiacciati da operatori più grandi e più efficienti (ed i cui prodotti sono anche più sicuri per il consumatore, checchè ne dica certa propaganda di sapore vandeano).
Tale “selezione naturale” (che naturale non è, come naturali non sono le leggi economiche) è del tutto negativa? Se analizziamo un qualsiasi testo (consiglierei L’ABC del comunismo di Bucharin) di provenienza autenticamente marxista la risposta non può che essere no.
La concentrazione di capitali e capacità produttive nella mani di chi è più efficiente provoca, in generale, benessere ed è alla base di tutti i processi di miglioramento della nostra vita che sono iniziati negli opifici inglesi alla metà del ‘700 e che prendono il nome di Rivoluzione industriale.
Ciò che da marxisti dobbiamo contrastare sono gli aspetti meno evidenti ma più insidiosi di questi trattati: in primo luogo il tentativo di parificazione giuridica (ontologica!) di soggetti privati con gli Stati nazionali. L’assunzione di pari dignità da parte di questi operatori (che sono poi l’espressione massima della classe dominante) nei confronti dello Stato. Il che, lungi dal costituire un’espressione piena dello Stato di diritto pone invece i soggetti più deboli, che sotto l’ombrello protettivo dello Stato operano, in balia del potere assoluto di chi ha in mano la catena dei rapporti di produzione.
È questo un balzo indietro rispetto a quel grandioso processo di costruzione dello Stato moderno che cominciò sul finire del XV° secolo. Dunque ad essere rigettata non deve essere l’apertura dei mercati (che può portate anche a positive concentrazioni anche qui da noi e ad un abbassamento dei prezzi conseguente all’efficientamento dei processi produttivi) ma la filosofia che sta dietro queste operazioni di politica estera delle classi dominanti.
Concentrazioni, concentrazioni pubbliche (in mano al pubblico) in grado di agire su vasta scala, abbassamento delle sperequazioni tra i salari sono, dovrebbero essere, per noi, la risposta ad un neocolbertismo e ad una retorica dei bei costumi oramai passati che ha fatto il suo tempo e che appare ridicola in tutta la sua – ora ostentata, ora mascherata – reazionarità.
La crisi economica globale ha dato una notevole sferzata al centro dell’impero, stordendolo con un impoverimento delle masse un tempo inimmaginabile. Come risulta evidente dai dati economici, in molti Paesi occidentali non si è ancora arrivati ai livelli pre-crisi e gli stessi livelli di disoccupazione e indebitamento pubblico restano insolitamente elevati. Nel modo di produzione capitalistico, il mezzo più semplice per rilanciare la crescita nella speranza che questa, basata unicamente sui profitti, possa rivitalizzare gli indicatori sociali, consiste nell’aprire nuovi mercati in modo più o meno forzoso.
Il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), come gli altri trattati promossi dal nordamerica con i propri vassalli, risultano parte di una strategia volta a imporre i propri mercati come dominanti su quelli delle potenze subimperiali. Queste potenze che gestiscono gli interessi del nucleo centrale dell’imperialismo cercano a loro volta di strutturarsi nel modo più funzionale, compiendo per l’appunto il compito del vassallo. Il processo di strutturazione di un’Unione monetaria e commerciale in Europa è esattamente la conseguenza di un tale processo in cui il capitale più forte per sopravvivere deve inglobare quello più debole.
La postdemocrazia si inserisce appieno in questa fase in cui l’imperialismo viene eroso da una crisi interna di sovraccumulazione e necessita di ulteriori margini di profitto. Questi vengono strappati al suo interno con le miopi politiche neoliberiste, all’esterno invece la soluzione viene rintracciata nell’imposizione di trattati capestro che mirano a ingannare la parte che si trova chiaramente in posizione subordinata.
Se questa si rifiuta di firmare tali trattati inevitabilmente passa dalla parte del torto, essendo per l’appunto subordinata e quindi in una posizione non autonoma e di sottomissione. Ecco che allora si dirà che la Vallonia non ha diritto di bloccare l’attuazione del trattato in 27 Stati dell’Unione perché infima minoranza. Le cosiddette multinazionali, che come sappiamo hanno però un radicamento ben preciso e non casuale al centro dell’impero, con l’estensione delle aree di libero scambio puntano a monopolizzare nuovi settori di mercato appoggiandosi al diritto che però in tale assetto viene sempre più plasmato da interessi privati.
I popoli vengono totalmente delegittimati e l’agorà diventa arena per tecnocrati e lobbisti che operano in istituzioni plasmate appositamente. In buona sostanza è quindi la concezione stessa di democrazia che tende a venir definitivamente meno sotto la pressione del capitale in crisi.
Come si permettono gli elettori di non rispettare il giudizio degli esperti? “Il popolo” è un indistinto agglomerato di paure ed ignoranza. I referendum in Grecia, la Brexit, l’opinione pubblica rispetto al TTIP: tutto concorre a descrivere un continente tradito dai suoi abitanti. L’Europa perde di affidabilità rispetto al mercato, ci dicono su molti quotidiani. Cos’è quindi l’Europa? Cos’è il mercato? Sicuramente è vero che la società nel suo insieme è più importante della sommatoria delle sue parti, ma l’interesse da tutelare con gli accordi transnazionali non è altro che quello del Capitale, non è certo per il “bene comune” che si deve archiviare la “sovranità politica”.
Certo, queste sono le parole di chi si ostina a leggere il mondo attraverso le classi sociali ed una lotta più o meno cosciente, ma davvero non è chiaro cosa sia questa Europa per i quali tutti dovrebbero rimanere in silenzio ed annuire, rispetto a qualsiasi decisione in ambito economico e produttivo. La paura è un sentimento reale, anziché condannare o criminalizzare ne andrebbero indagate le cause.
È certamente vero che il recente blocco del Ceta da parte della Vallonia mostra in evidenza il conflitto tra ristrutturazione capitalistica e processo democratico – ma in rapporti esattamente inversi a quelli cui normalmente si pensa. In altri termini, lungi dall’essere una manifestazione di procedure democratiche che il grande capitale vorrebbe sottomettere, il no vallone è un sabotaggio delle prime e un aiuto al secondo, o perlomeno al disegno che esso nutre per l’Europa: spezzare il più grande produttore di Pil mondiale per digerirlo in bocconi più piccoli.
Il blocco vallone si aggiunge al referendum contro le quote voluto da Orbán in Ungheria, a quello sull’appartenenza Ue voluto da Cameron nel Regno Unito e a quello sul piano della “trojka” voluto da Tsipras in Grecia: in tutti i casi capi di governo per interessi di consenso interno hanno deciso di mobilitare i loro elettorati contro l’Unione di cui fanno parte e vogliono continuare a far parte, a causa dei bonus di tale partecipazione e dei malus che l’uscita comporterebbe. Dato che «la realtà ha una sua capacità di vendicarsi», come osservò Mario Monti il giorno dopo la Brexit, nessuno di questi assalti ha dato i suoi frutti: Orbán ha mancato il quorum, Cameron ha schiantato la propria esperienza politica, mentre quella di Tsipras fu una vittoria di Pirro visti i successivi sviluppi.
Ma né questi insuccessi né il recente accordo tra Ue e Vallonia possono sanare i danni prodotti proprio al processo democratico. L’Unione Europea, che si ricordava avere il maggiore Pil mondiale, ha un peso politico mondiale ridicolmente inferiore in proporzione, e un peso militare addirittura inesistente. Per l’Urss dei primi anni Ottanta si è parlato di “superstato alla deriva”, una definizione che può essere specularmente adattabile alla Ue di oggi: un superstato non ancora costruito, ma che proprio per questo risulta – come l’Urss di un tempo – impedito a quella capacità di manovra che il mondo richiede. Solo gli stati di scala continentale possono infatti realisticamente pensare di controllare gli enormi flussi di capitale, invece di esserne controllati; e se tali flussi sono stati per niente scalfiti dalla crisi economica, questa ha invece molto aumentato la fiamma degli umori popolari.
In un perverso circolo vizioso, la Ue non può procedere a un’iniezione di investimenti economici perché non ne ha la forza politica, e non ne ha la forza perché poggia su decine di piccoli pilastri traballanti (uno è la Vallonia), e i pilastri sono piccoli e traballanti perché la Ue non promuove una politica di intervento pubblico anticrisi. È evidente che a gioirne non possono essere altri che i grandi fondi speculativi che desiderano da un lato mangiarsi il lauto piatto dell’Europa mentre dall’altro i partiti di estrema destra fanno loro da guardia tenendo a bada la popolazione con la demagogia sociale.
Ma, dopotutto, l’esempio della Vallonia non è che la replica in piccolo della spada di Damocle che la Corte Costituzionale tedesca tenne sospesa sul fondo salva-Stati. Vi è una responsabilità molto forte da parte dei Paesi più grandi, i quali avrebbero la forza economica necessaria a dirigere la Ue verso maggiore unificazione; queste divisioni e inadeguatezze si rispecchiano anche nei gruppi politici. Il Partito socialista vallone che blocca il Ceta differisce in poco dalla Liga Veneta che chiede un referendum “autonomista”. E non è in gioco l’evidente diversità dei due temi: la funzione regressiva per cui la Vallonia può bloccare la Ue è di natura del tutto identica a quella di un piccolo comune che blocchi un processo decisionale di scala regionale.
Nel 1921 Lenin, difendendo la Nep, diceva al congresso del Comintern: «noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia». Con queste frasi egli rilevava come la variabile determinante della politica economica statale fosse la direzione politica dello Stato e non già l’esistenza di questo, che era data per scontata. Se si sostituisce alla parola Stato la parola “superstato” come prima definita si ha un insegnamento ancora valido dopo novantacinque anni.
Non bisogna lasciarsi ingannare. Sebbene decisamente più “soft” del controverso TTIP, soprattutto in merito ai rischi ambientali e per la salute, anche il CETA è sintomatico di un tentativo, sempre più aggressivo, di realizzare pienamente il progetto neoliberista di un mercato autonomo e libero da qualsiasi limitazione politica, giuridica, territoriale.
Dietro il pretesto dell’efficienza e della convenienza (tutto è già quantificato: si parla di 500 milioni di euro di risparmio per chi esporta in Canada), non si cela solo l’obiettivo politico di creare un terreno che possa permettere alle multinazionali di superare o aggirare la legislazione statale, quanto soprattutto il fine ideologico di imporre una narrazione che fa coincidere l’interesse collettivo con quello del mercato.
Ma pensare allo Stato, così come concepito dagli anni ottanta a oggi, come possibile baluardo democratico di fronte al proliferare generalizzato della logica del profitto e dell’etica della competitività, può risultare fuorviante. Prima di tutto perché sono stati proprio i parlamenti e i governi di molti Stati, a guida neoliberista, ad aver contribuito a smantellare qualsiasi anticorpo possibile rispetto alla celere e incontrollata globalizzazione del Capitale, lasciando inermi i propri cittadini. Secondo perché abbiamo visto come ormai le forme della democrazia statale siano usate come mero strumento di consenso interno piuttosto che come mezzo per trasformare la realtà delle cose. Il caso della Vallonia, la Brexit, i Referendum in Grecia e Ungheria e quello che si celebrerà in Italia sulla riforma costituzionale sono emblematiche di un ordine post-democratico che fa della democrazia uno show sfarzoso, un talent per nuovi aspiranti arrivisti della politica, uno strumento per regolare i conti interni, più che per influire sulla società.
Appare ovvio che la contrapposizione della Vallonia al CETA non abbia niente di eroico, ma che rappresenti semmai l’ennesimo sintomo di una democrazia in stato comatoso, che sfrutta le vicende internazionali per risolvere le proprie beghe locali (se non personali).
Visto che il capitalismo di per sé non può essere democratico, o si riorganizza lo Stato (o più in generale il potere politico) su nuove basi oppure parlare di contrapposizione tra Democrazia e Mercato è pura finzione.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.