«Ma perché non si potrebbe conseguire quest’obiettivo [l’estinzione dello Stato in generale] senza la dittatura di una classe? Perché non si potrebbe passare direttamente alla democrazia “pura”? – domandano gli ipocriti amici della borghesia o gli ingenui piccoli borghesi filistei ingannati da essa. Perché in ogni società capitalistica, rispondiamo noi, […] i piccoli proprietari restano inevitabilmente dei sognatori esitanti, impotenti e sciocchi, che fantasticano di una democrazia “pura”, cioè di una democrazia che sta al di fuori o al di sopra delle classi. Perché soltanto la dittatura della classe oppressa permette di uscire da una società nella quale una classe ne opprime un’altra.»
Lenin, “Democrazia” e dittatura, Pravda, 3 gennaio 1919
«Numero candidature ufficiali a tredici giorni dalla scelta del candidato premier del mov. 5 stelle: zero. È la democrazia diretta, bellezza.»
Claudio Cerasa, Facebook, 11 settembre 2017
La prima citazione costituì il brevissimo intervento con il quale commentai la querelle che durante la campagna referendaria di un anno fa oppose Zagrebelsky e Scalfari. Al primo, che aveva difeso il conflitto democratico contro il rischio oligarchico che la riforma Renzi-Boschi avrebbe apportato, il secondo rispose che la democrazia rappresentativa è di fatto un’oligarchia democratica e che le sole alternative sono la dittatura oppure la democrazia diretta.
Quest’ultima, tuttavia, sarebbe applicabile solo in contesti ristretti quantitativamente (piccole comunità) o qualitativamente (referendum su temi specifici e con alternativa binaria secca). Di fatto, rispolverando la teoria di Mosca sulla “classe politica” e quella di Platone sul governo illuminato, il fondatore di Repubblica rimproverò al professor Zagrebelsky di non essere abbastanza conservatore. La disputa mi pareva stantia, oziosa, deteriormente professorale. Da parte di Scalfari perché non contemplava alcuna possibilità di dialettica nei sistemi politici; da parte di Zagrebelsky perché le accuse di oligarchia suonavano ridicole contro una riforma che facilitava il referendum abrogativo, introduceva quello propositivo, obbligava il Parlamento a discutere le leggi di iniziativa popolare. Per tali ragioni mi permisi di provare a rompere l’incantesimo.
La seconda citazione, invece, proviene dal direttore del Foglio, commenta un fatto di cronaca politica e risulta a mio avviso molto utile per separare il grano dal loglio e mettere ordine nel giuoco di specchi che Movimento 5 Stelle e forze liberali mettono in atto sul tema della democrazia.
La democrazia diretta nell’azione del M5S
Già il 20 maggio era apparso sul Foglio un articolo dal titolo “La democrazia diretta di Rousseau cara al M5s è tutto meno che democratica”; in esso si attingeva dal vecchio filone postbellico che, individuando nell’Illuminismo democratico le radici del totalitarismo etico, accomunava di fatto nazifascismo e socialismo sovietico. Denunciando il rovesciamento della volontà generale in decisionismo dall’alto, l’articolo evitava di esaminare le differenze politiche (per non dire di classe) tra, ad esempio, il giacobinismo del 1793 e il fascismo italiano.
Quanto dobbiamo prendere sul serio i riferimenti di Giuseppe Grillo e del M5S al pensiero di Rousseau? Cosa essi ci dicono circa l’evolvere dei nostri sistemi democratici? Forse il primo riferimento a Rousseau negli anni recenti risale al febbraio 2011, quando Giuliano Ferrara al Tg1 si espose in una sperticata difesa di Berlusconi, capo del Governo coinvolto nel caso Ruby. Ferrara sostenne (correttamente) che la repubblica della virtù è il contrario della repubblica liberale, in quanto la prima si fonda sull’imposizione di una scelta etica e la seconda sulla tolleranza; accusò quindi gli antiberlusconiani di voler imporre una dittatura di stampo puritano o giacobino.
Negli anni a seguire il Movimento 5 Stelle, aiutato dalla crisi economica, dal discredito delle istituzioni, dal terrore dei partiti di doversi assumere la responsabilità delle riforme Monti, dalla presenza di un Governo intieramente tecnico, dalle inchieste che coinvolsero le forze di opposizione parlamentare (Lega e Italia dei Valori) riuscì a far prevalere la propria versione berlusconiana di antiberlusconismo e quindi ad appropriarsi semanticamente del campo della “virtù”, snaturandolo completamente.
In verità l’operazione effettuata da Giuseppe Grillo circa il pensiero di Rousseau non deve apparire nuova agli italiani, i quali hanno già assistito a un’operazione analoga, effettuata da Mussolini sul pensiero di Giuseppe Mazzini. Nel caso di Grillo-Rousseau la maggior distanza temporale rende ancora più facile ingannare le masse, spogliare le parole del loro colore politico e spacciarle come neutre o indistinte – in realtà, per ciò stesso, reazionarie.
La critica di Rousseau alla democrazia rappresentativa era la critica alla condizione di ingannevole libertà di un popolo che può esprimersi elettoralmente tramite la volontà di tutti, somma di particolarismi, ma non può dirigere effettivamente il corso dell’azione politica tramite la volontà generale, portatrice di un’istanza universale. Pure senza addentrarci nel pensiero di Rousseau circa l’educazione del popolo e la correzione del portato corruttivo della società civile, pure fermandoci solo alla pratica di Grillo, risulta evidente come la sua carica eversiva si basi proprio sull’affermazione violenta di particolarismi gretti ed egoisti, insofferenti alla legalità e decisi per questo ad impadronirsi dello Stato.
Le zone di maggior consenso al M5S sono quelle in cui più sono forti strutture di clientela locale decise a occupare lo Stato, se non ad esso contrapposte (Sicilia), oppure in cui è diffusa una piccola imprenditoria percorsa da idiosincrasia verso il fisco (Nord-Est e centro-nord adriatico). È evidente che la richiesta di Grillo di sciogliere i sindacati e transitare a un sistema dittatoriale a partito unico non prevede tali strumenti come veicolo di una maturazione del Paese a una società più altamente democratica (quale era invece il caso dei giacobini francesi). Si tratta, al contrario, di un proposito reazionario, che come nel periodo fascista intende usare tali strumenti per affermare il predominio dei poteri economici.
Qualcuno, determinato a pattugliare la via dell’Inferno alla ricerca di buone intenzioni, potrebbe osservare: d’accordo, ma perlomeno, costruendo una comunità totalitaria, il M5S potrebbe fondere i particolarismi della società civile nel crogiuolo di una nuova identità nazionale. Anche in questo caso la storia mostra che non è così: furono sufficienti tre anni di rovesci bellici per sciogliere nell’arco di una mattinata (26 luglio 1943) tutta l’impalcatura di vent’anni di regime fascista. Ciò che rimase nella coscienza degli italiani e continuò a guidarne il comportamento politico fu invece il riferimento a un partito-Stato ramificato nella pubblica amministrazione e che si incaricava di distribuire, tutt’altro che oculatamente, le risorse pubbliche. Sotto la cappa di ferro, i particolarismi avevano continuato a persistere.
Populismo e fascismo
Ma è davvero corretto confrontare M5S e fascismo? Secondo uno dei maggiori studiosi del fenomeno “populista”, «l’estrema destra ha ben poco da spartire con il populismo […] i due soggetti sono strutturalmente ben distinti: non interpretano nello stesso modo i concetti-base a cui si richiamano, non hanno la stessa visione del mondo e della società, non hanno la stessa considerazione degli strumenti che impiegano in politica. Tanto per dirne una: se per i populisti la democrazia è il regime ideale, che andrebbe realizzato integralmente tramite il ricorso a canali di espressione diretta, senza mediazioni istituzionali, per gli estremisti di destra, invece, è un regime criticabile, perché rovescia il principio di autorità ed è soggetto alla volubilità delle masse» (Marco Tarchi, intervista a L’Espresso, 27 luglio 2017).
A dire il vero
sembra che un’analisi simile si concentri molto sul detto, sulle
opinioni ufficiali, sulla propaganda e poco invece sui fatti reali.
In essa il motto “uno vale uno” viene preso in esame ben più
dell’autoritarismo spietato vigente all’interno del M5S,
che usa addirittura contratti coercitivi verso il proprio personale
politico.
Non è difficile scorgere nella “democrazia”
evocata da Grillo – quella del partito totalitario che fa
bombardare il Parlamento dai terroristi e lo apre come una scatola di
tonno – una versione della “democrazia organica” teorizzata da
Mussolini o della «forma la più vera di democrazia»
salutata da Hitler nel regime nazista, democrazia «organizzata sì
che per mezzo di essa ciascuno fra i milioni di uomini tedeschi ha la
possibilità di aprirsi la strada fino al più alto ufficio della
nazione» (discorso per il quarto anniversario della presa del
potere, 30 gennaio 1937). Sia Mussolini sia Hitler soppressero la
mediazione dei partiti e sostituirono le elezioni con plebisciti,
forme tecnicamente di democrazia diretta. Come si vede, tanto i
“populisti” adottano condotte fasciste quanto i fascisti adottano
discorsi “populisti”.
Quando anche considerato come entità autonoma, del resto, il populismo sarebbe spiccatamente di destra in quanto intende dissolvere i contrasti reali non tramite un’azione reale bensì tramite una forzatura di carattere magico, basata sul potere taumaturgico di un individuo o sul potere mantrico di un rito. Non vengono corretti né i difetti di costume né tantomeno la base sociale che li origina. La democrazia diretta nel programma del M5S non ha che la funzione di eccitare la rivolta violenta contro i partiti e le istituzioni democratico-rappresentative, per transitare, una volta inceneriti questi, a una forma politica né democratica né rappresentativa. Il regime fascista fornisce, ancora una volta, un esempio eloquente di antipartito che si trasforma in partito ipertrofico. Tale è in realtà l’obiettivo, tutt’altro che incoerente anche se dissimulato, della base elettorale del M5S, la quale chiede il ritorno a uno Stato che macelli le proprie vacche grasse per gli egoismi privati della società civile.
I limiti della democrazia liberale
Fin qui il M5S. Quale, invece, la posizione dei suoi genuini oppositori liberali? Già il patriarca del liberalismo continentale, il barone di Montesquieu, aveva identificato ne Lo Spirito delle leggi (1748) tre diversi tipi di governo, ognuno legittimato da un principio di base: la paura per il dispotismo, l’onore per la monarchia, la virtù per la repubblica. Questa virtù, definita come amore delle leggi e del bene pubblico, fu giudicata da Montesquieu innaturale in quanto contraria all’interesse privato e fondata sull’auto-rinuncia da parte del corpo sovrano (i cittadini). Per questa ragione le repubbliche avrebbero bisogno di un sistema economico poco sviluppato e di un territorio piccolo, tali cioè da non far emergere né soverchie diseguaglianze economiche né soverchi interessi privati. Perciò, pur riconoscendola in teoria come miglior forma di governo, nella pratica Montesquieu le preferì la monarchia temperata dalla separazione dei poteri.
Il dilemma repubblicano fu risolto in modo originale dai federalisti americani quarant’anni dopo: essi fecero del proliferare degli interessi privati non il limite, bensì il fondamento e la garanzia stessa di una repubblica estesa su un grande territorio. È proprio organizzando la rappresentanza degli interessi privati, secondo i federalisti, che essi vengono mantenuti in costante conflitto tra di sé impedendo il prevalere dittatoriale di uno sull’altro. In realtà con questa operazione si è tornati al punto di partenza, o per meglio dire si è sostituito come principio della repubblica l’egoismo alla virtù. Né Montesquieu né i federalisti risolsero il dubbio di come far prevalere efficacemente la virtù sull’egoismo o, in termini istituzionali, come garantire un’efficace integrazione tra cittadini e repubblica, tra corpo sociale e corpo politico.
Vediamo quindi che il cerchio si chiude: molti che sinceramente si propongono di difendere la democrazia liberale dalle mire totalitarie del M5S ne replicano in realtà una caratteristica basilare, ossia il riferimento ultimo al particolarismo e alla spaccatura tra società civile e Stato, vista in un caso come prova stessa di uno stato di libertà e nell’altro come punto di leva per ottenere consenso di massa a un progetto integralmente reazionario.
Scala economica e scala politica
Del resto, chi e cosa ha fortificato detto punto di leva? L’odio della società civile contro lo Stato è risultato ingigantito dall’incapacità di quest’ultimo di mantenere le proprie promesse. Causa prossima, sicuramente, il mancato rispetto di promesse cattive, rese inattuabili dalla crisi dei debiti sovrani (si ricordi il crollo di venti punti, al 47%, dell’affluenza alle regionali siciliane del 2012, sintomo di gruppi politici non più in grado di finanziare il consenso). Causa remota, però, è il mancato rispetto delle promesse buone: il sostegno all’occupazione e alla produttività. Tale compito è oggi reso insolvibile dallo iato tra forze economiche di scala multinazionale e forze politiche di scala ancora nazionale, i cui confini sono facilmente divelti o scavalcati dalla controparte capitalista.
I processi di delocalizzazione ed esternalizzazione hanno e ristretto la base produttiva nazionale e prodotto un lavoro sempre più precario: per i Paesi che “esportano” siti produttivi ciò si traduce in una stagnazione di fatto, per gli “importatori” invece si assiste a una crescita del Pil la cui redistribuzione, però, è polarizzata verso l’alto. Ne consegue che in entrambi i gruppi nazionali si sviluppa un odio feroce verso il sistema politico democratico. E la risposta dei ceti popolari alle sirene della demagogia sociale fascista è il risultato proprio della formazione incompleta di una coscienza sociale.
Il problema stesso della democrazia diretta, come ammoniva Lenin, si riconduce a quello della base economica che dovrebbe sostenerne la fattibilità. Come e in che modo può essere risolto, oggi? Soltanto adeguando la dimensione dell’istituzione politica a quella del movimento economico, rendendo dunque la prima in grado di effettivamente regolare il secondo e introdurvi il vincolo dell’utilità sociale. Nel concreto, oggi, soltanto procedendo verso una sempre maggiore integrazione comunitaria europea. Le battaglie politiche in sede nazionale sono poco più che batracomiomachie di principio, rapportate all’entità delle forze capitalistiche in azione. Il loro luogo deve essere invece elevato a scala continentale, ove veramente può darsi la possibilità di una direzione politica dell’accumulazione e redistribuzione delle ricchezze.
Questo luogo deve essere ancora, in larga parte, creato: tale creazione dovrebbe quindi figurare in cima al programma di una forza progressista. Anche la questione nazionale, recentemente tornata alla ribalta in Catalogna, è oggi costretta a venire agitata da un pugno di affaristi a vantaggio di una ulteriore frammentazione politica. Anche le rivendicazioni nazionali potranno trovare adeguata risoluzione solo una volta costruite le basi socio-economiche in grado di sostenerle; basi che possono essere costruite solo tramite un procedimento inverso a quello della frammentazione, ovvero l’unificazione nello Stato-continente europeo.
Pubblicato per la prima volta il 5 ottobre 2017
Immagine da commons.wikimedia.org
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.