Attenzione: contiene spoilers fino al numero 400.
Si chiude una
storia, rinasce un mondo nuovo. Questa, in sostanza, la promessa
contenuta in Dylan Dog 400, numero tondo che chiude non
solo il “ciclo della meteora” ma anche con il
passato dell’Old Boy, che si trova a vagare smemoratamente in un
paesaggio tra l’onirico e l’horror. Dylan Dog, per ritrovare se
stesso e andare avanti, dovrà perdere tutto il resto e soprattutto
compiere il freudianissimo omicidio del padre, sacrificio primigenio
e fondante (un nuovo ancestrale senso di colpa per l’indagatore
dell’incubo?), qui travestito da citazione di Apocalypse Now.
Si ha la sensazione di leggere una storia che è un duro
bilancio, una narrazione che si scaglia contro tutto e tutti –
ma soprattutto contro se stessa e contro la storia di Dylan Dog.
La scarsa coerenza narrativa che accompagna come un’ombra un fumetto
che si basa (basava?) su volumetti autoconclusivi viene diagnosticata
come uno dei mali del mondo dylaniato,
Sclavi-Kurtz abbandona simbolicamente la sua creatura, Groucho
esce di scena (momentaneamente o definitivamente, certo seguito dalle
note
diatribe sui diritti d’immagine con gli eredi dei Marx) e tutto
ricomincia da una vecchia conoscenza, Gnaghi, l’assistente di
Dellamorte, il becchino protagonista del film cult Dellamorte
Dellamore del 1994. In
questo fatale “400” il
citazionismo è spinto con
evidente significato all’estremo, con qualche imbarazzo e
appannamento transitorio che non rovina però
il piacere della lettura.
Che fare del
metafumetto in occasione di un anniversario di testata sia una
banalità lo afferma per primo il malridotto fumettista che vediamo
“creare” in tempo reale l’avventura del Nostro. Questa era anche
la paura di chi scrive, alimentata da quel tot che il marketing
social lasciava filtrare. Un
errore: il numero 400,
nonostante qualche momento poco brillante, è di
gran lunga il numero migliore degli ultimi mesi,
e quindi – categorizzazioni cronologiche permettendo – il
migliore del “ciclo della meteora”.
Quest’ultimo
si è mosso tra albi decisamente ben fatti e albi discutibili,
mantenendo sì una media discreta ma – se si pensa che il futuro
sia la serialità – mostrando che c’è ancora parecchio da fare.
Numero 400 a parte l’ottimo lavoro fatto con le Madri
recchioniane non viene nel ciclo
valorizzato granché, Ghost come personaggio conferma purtroppo il
suo scarso spessore, che lo fa sembrare più l’assassino di una
puntata di CSI: Miami che
un villain degno
dell’Old Boy (anche nell’abbigliamento), troppe idee si contendono
uno spazio tutto sommato limitato e rimane – anche nei migliori
numeri del ciclo – come una sensazione di compressione e
inconcludenza.
Il
modello seguito dal team autoriale di casa Bonelli
è evidentemente quello dei
retcon (da
retroactive continuity)del fumetto statunitense, in cui
l’evento narrativo-editoriale precede una
modifica o un colpo di spugna
alla vecchia continuità narrativa.
Un “trucco” che serve a lasciare a nuovi sceneggiatori e nuovi
artisti lo spazio necessario a sviluppare la propria particolare
visione di un personaggio o di un gruppo di personaggi senza il peso
di continuities
pluridecennali, oltre che ovviamente per attirare nuovi lettori; chi,
infatti, inizierebbe mai ad acquistare fumetti supereroistici dovendo
recuperare la lettura di albi degli anni ’40 per capirci qualcosa?
Con Dylan Dog La
questione non era tanto un
retroterra di necessaria conoscenza e lettura troppo vasto, quanto,
oltre alla già citata scarsa coerenza interna di
un fumetto che si è quasi sempre mosso su numeri autoconclusivi o
semi-autoconclusivi, il
senso di “eterno
ritorno” che coglie il
lettore leggendo un fumetto sempre simile a se stesso,
la mole di personaggi e linee
narrative aperte in una storia fatta di 400 volumi, e forse
addirittura l’eredità del
grandissimo Tiziano
Sclavi, vera ricchezza
della testata forse diventata però
un peso eccessivo per le
spalle di una nuova generazione di autori. Impegnarsi a trovare un
nuovo modo per valorizzare quell’eredità al di là del “canone”
consolidato – magari continuando a coinvolgere grandi fumettisti
fuori dai confini bonelliani e spingendo l’Old Boy verso territori
inesplorati – è un’operazione certamente lodevole, si vedrà
quanto fattibile.
Il retconning
in salsa bonelliana non ha coinvolto più testate in un unico evento,
come invece tipicamente accade al di là dell’Atlantico, e d’altronde
una “apocalisse” del genere sembra
assai poco fattibile anche
solo guardando ai titoli più “vicini” a DD (Martin
Mystère, Dampyr),
e complessivamente la
“meteora” segna il cielo di un ciclo
a mio parere poco memorabile. Ma certo ha anche finalmente aperto una
fase realmente “nuova”.
Onore quindi al coraggio di Bonelli, che ha voluto scommettere sul rinnovamento di uno dei suoi personaggi più popolari e letti. Il coraggio che forse servirebbe a sfoltire un catalogo che tra etichette, uscite esclusive per le fumetterie, collane di miniserie e speciali accumula vertiginosamente titoli non sempre eccezionali, e per investire invece su un core storico che mostra di avere ancora notevoli potenzialità.
In conclusione.
Dylan Dog per tanti è più che un personaggio dei fumetti: è un
simbolo intriso di memorie e significati personali, tanto che
viene naturale l’impulso di incorniciarlo, immortalato e immobile, e
di conservarlo nel cassetto dei ricordi. È comprensibile che
qualunque modifica, per quanto piccola, trovi scarsa accoglienza tra
i fan “storici”, come è d’altronde chiaro a tutti tranne che ai
più ostinati che proprio imbalsamare
un personaggio nell’eterna riproposizione di se stesso ne
significherebbe la morte narrativa.
Non resta che
attendere le nuove avventure di Dylan, a partire dal 401 uscito in
questi giorni. Ma forse non è sperare troppo aspettarsi da Bonelli
una mossa che possa addolcire la pillola proprio ai fan più
scettici, magari tramite le novità annunciate nella testata Maxi
Dylan Dog/Old Boy, o magari sotto la forma di un nuovo speciale
(anche se l’attuale Dylan “speciale”, invecchiato e condannato a
vivere nel mondo dei morti viventi, ha una sua solidità che sarebbe
un peccato turbare). Nel segno dell’incubo, ovviamente.
Copertina Bonelli (dettaglio)
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.