di Chiara Del Corona e Paolo Melegari
Nell’ambito della Festa di Rifondazione Comunista, tenutasi a Empoli dal 9 al 12 settembre a Empoli, abbiamo avuto modo di approfondire una questione che, nonostante sia costantemente al centro delle cronache mondiali, risulta passare spesso inosservata e sotto traccia soprattutto a sinistra, ovvero la questione cinese. La questione, cioè, di quale sia il ruolo che questa potenza, ormai non più considerabile come emergente, ricopre nel panorama mondiale e di come le forze che si dicono comuniste ed eredi del movimento operaio, debbano dialetticamente interfacciarsi rispetto a essa.
L’ospite scelto al riguardo è stato Gabriele Battaglia, in virtù sia della sua più che decennale esperienza in terra d’Oriente e delle sue conoscenze maturate in anni di reportage sulla società cinese e in generale sul sud est asiatico, sia per il suo essere, nel termine più agnostico possibile, un compagno. Infatti Gabriele Battaglia ha iniziato come giornalista web scrivendo di conflitti di lavoro nella “new economy”, ha continuato come blogger cercando di raccontare la Cina contemporanea e lavora attualmente a PeaceReporter, dove si occupa soprattutto del Dragone e degli altri paesi d’Oriente. Ha all’attivo diversi reportage (scrittura, video, foto, audio) sulla Cina metropolitana e di confine (Pechino, Shanghai, Xinjiang, Dongbei) e sulla difficile modernità mongola (i nomadi della Taiga, i cercatori d’oro “Ninja”). Il suo blog è Cina Mondo. È corrispondente di Radio Popolare, collabora con Il Fatto Quotidiano, Internazionale, ed è direttore di China Files; inoltre è autore dell’e-book Fucili contro Burma (2014) e del documentario Inside Beijing (2012).
Moderato e cadenzato dalle argute domande di Paolo Melegari che con la sua preparazione sull’argomento ha coordinato la discussione in maniera impeccabile, oltre a contribuire gentilmente alla stesura di questo articolo, Gabriele Battaglia ci ha fatto entrare almeno in una parte della grande e complessa realtà cinese.
Il percorso di Battaglia è stato molto influenzato dall’esperienza del G8 di Genova all’interno del movimento passato alla storia come No Global: la furia repressiva di quei giorni, contro le istanze di chi allora (e per certi versi ancora più convintamente oggi) si batteva contro i processi di globalizzazione a trazione capitalista e neoliberista, ha fatto sorgere in lui il desiderio di conoscere come essere umano e giornalista altre prospettive e altri contesti politici, geografici, economici e socio-culturali all’interno dei quali quello stesso processo di globalizzazione si sarebbe declinato. Nel suo caso il mondo dell’Indocina, del sud est asiatico e in particolare della Cina.
Questo perché il fenomeno di globalizzazione all’interno del contesto cinese ha assunto caratteristiche tali da rendere controversa – soprattutto a sinistra e nella galassia comunista – la definizione della stessa natura politico-economica della Cina: il quesito che banalmente riecheggia ormai stantio, è se ci si trovi di fronte a un paese comunista, capitalista, o un ibrido di entrambi.
Quanto è reale la contraddizione del più grande Partito Comunista del mondo che applica politiche di accumulazione capitalista e di libero mercato spesso anche selvaggio e decisamente poco sensibile alle condizioni dei lavoratori e dell’impatto ambientale e climatico?
Quanto la creazione di un immenso ceto medio pasciuto e pacificato (i famosi ottocento, se non più, milioni di persone tirate fuori dalla soglia di povertà dal Partito Comunista) è ascrivibile a una visione socialista che pone come interesse primario le condizioni materiali del popolo e quanto invece è semplicemente frutto della sovraeccitata accumulazione capitalistica che ha sì arricchito molti, ma anche inasprito le diseguaglianze all’interno della società cinese (secondo lo stesso Battaglia l’indice Gini, che stima le diseguaglianze economiche e reddituali, indica l’attuale Cina come un paese più diseguale degli Stati Uniti)?
Quanto (l’apparente) contraddizione è sciolta dalla definizione che la Cina dà di se stessa attraverso la locuzione di “paese socialista con caratteristiche cinesi”?
Secondo Battaglia quest’ultima formula non ci risolve di per sé molto, dato l’approccio quasi sperimentale dei processi economici e politici attuati dal Partito Comunista che paiono ricalcare a volte quelli dell’ingegneria sociale. A tal proposito è notizia recente che il concetto di ricchezza o prosperità condivisa sia diventato lo slogan preponderante, ufficialmente dall’annuncio del segretario Xi Jinping del 17 agosto di quest’anno che ha dichiarato esattamente questo: in Cina la diseguaglianza è cresciuta troppo, dopo quaranta anni di accumulazione, ed è arrivato il momento della redistribuzione. Non si tratterà però di una politica alla Robin Hood, ma assisteremo alla distinzione di tre livelli di redistribuzione che dovranno coesistere, nell’ottica di un arricchimento di tutt*.
Una redistribuzione primaria che riguarda i profitti delle aziende ma che sostanzialmente andrà ad arricchire ancora di più chi già lo è;
una redistribuzione secondaria che prevede l’intervento dello stato sotto forma di politiche fiscali e redistributive e che restituisce alla popolazione presa nel suo insieme
una redistribuzione terziaria che fondamentalmente è una filantropia “caldamente consigliata” a tutti i grandi capitali d’impresa e ai nuovi ricchi della cosiddetta “new economy” (il cosiddetto “privato-sociale” insomma).
Quanto detto sopra in realtà non pare sembrarci un modus operandi tanto diverso da quello di una tiepida politica economica redistributiva di un qualsiasi paese occidentale. Ciò che fa la differenza da sempre in Cina, ci dice Battaglia, è il fattore “P”, ovvero il fattore politica. Vale a dire che il processo di accumulazione capitalistica, indipendentemente da quel che se ne pensi, rimane sempre e comunque sotto il controllo del Partito Comunista e delle sue strategie di sviluppo. È qui la differenza più significativa rispetto a quanto accade nel mondo occidentale, dove ormai pare essere la politica limitata da quelli che sono i meccanismi e i vincoli di mercato e non il contrario.
Nel concreto questa formula della ricchezza condivisa, o di fatto questa politica della “filantropia caldamente consigliata” ha comportato la creazione di svariati fondi da parte di alcuni dei colossi della comunicazione digitale e dell’e-commerce (Tencent e Ali baba, giusto per citarne un paio) a favore di investimenti nelle campagne e in generale per il welfare.
Invece un elemento tipicamente socialista è l’idea che il benessere materiale condiviso servirà a risolvere i conflitti sociali e di classe quasi sedandoli sul nascere.
L’altra grande contraddizione all’interno del dibattito intorno alla Cina riguarda la sua politica estera. Così come nella politica economica assistiamo al paradosso di una Cina definita, a seconda dei casi, paese comunista o paese capitalista, anche la sua politica estera vive la contraddizione di essere tanto colonialista quanto cooperativista, a seconda dei punti di vista. Quello che è importante sottolineare è che il principio che guida la Cina nella propria diplomazia estera è quello della non intromissione negli affari interni degli altri paesi, a differenza delle politiche estere del blocco atlantico.
Un esempio che Battaglia tiene a ricordare è quello della Birmania. Fino al 1988 la Cina foraggiava la guerriglia comunista birmana contro la giunta militare, ma a un certo punto, detto in soldoni, tutto cambia dall’oggi al domani: i cinesi smettono di foraggiare i comunisti birmani, scoppia una sorta di golpe all’interno del partito comunista birmano, il ceto dirigente urbano scappa in Cina, mentre l’esercito sul campo, che era composto soprattutto dall’etnia Va (o Wa) dello stato Shan, si trasforma letteralmente nell’esercito di narcotrafficanti più grande del mondo, con le armi fornite dal Partito Comunista cinese, tanto che ancora oggi è una sorta di stato nello stato, con 30.000 donne e uomini in arme al confine tra Cina e Birmania. Questo per dire che, dall’oggi al domani, la Cina riconosce la giunta militare come governo legittimo.
Un altro esempio recente lo abbiamo visto con l’Afghanistan e i talebani: non c’è stato ancora un riconoscimento formale del nuovo governo afghano perché non ne sono ancora chiarissimi i contorni e soprattutto perché la Cina aspetta di avere garanzie certe sul fatto l’Afghanistan non costituirà un problema per la Cina stessa, però con i talebani i cinesi avevano rapporti fino ai tempi del Mullah Omar nei primi anni 2000, nonostante abbiano poi beneficiato dalla Global War on Terror scatenata da Bush Jr.
Di base si percepisce una certa arte di giocare con diversi interlocutori senza privilegiare questioni di ideologia o di vicinanza politica, ma semplicemente perseguendo la prospettiva del “win-win”, del “vincono tutti”, nel tentativo di trovare con tutti pragmaticamente una strada da cui tutti traggano un beneficio. Differenza fondamentale dal blocco occidentale che, possiamo dire, ha sempre l’idea di esportare il proprio modello politico-economico in tutto il mondo.
Questo approccio cinese della non intromissione chiaramente ha pro e contro, perché si apre a cambiamenti repentini nel momento in cui cambia il regime politico con cui si rapporta la Cina, come è successo anche in Sri Lanka[1].
In generale possiamo dire che la Cina, da Deng Xiaoping a oggi, comunque non punta né a esportare la propria rivoluzione come la Cina maoista o il proprio modello politico ed economico sulla falsariga degli Stati Uniti in virtù del loro eccezionalismo, né fino a ora si è mai espressa con mezzi squisitamente militari all’interno dei paesi con i quali intrattiene rapporti politici, economici e di investimento. Questo di fatto implica che la Cina è disposta a trattare con tutti: dalle democrazie, alle dittature, alle teocrazie.
Aspetti peculiari sono due: il primo è l’attenzione soprattutto verso paesi in via di sviluppo (Africa, Asia centrale ed ex URSS) o anche paesi come abbandonati dal blocco atlantico (come l’area balcanica e la Grecia). Soprattutto, per quanto riguarda l’Africa e l’Asia centrale l’attenzione è rivolta alla costruzione di infrastrutture viste come vettori di uno sviluppo duraturo.
Il secondo aspetto è il presentarsi in maniera diversa a seconda del paese con cui interloquisce: con i paesi del primo mondo occidentale la Cina vuole mostrarsi nel suo ruolo di grande potenza che deve sedersi alla pari al tavolo degli Stati Uniti, mentre con i paesi in via di sviluppo vuole mostrarsi come la prima e la più avanzata tra i paesi in via di sviluppo, ovvero come una sorta di guida ma all’interno della loro stessa categoria.
Se vogliamo rispondere alla domanda se la politica della Cina sia comunque una politica colonialista possiamo dire che sì, ha sicuramente delle caratteristiche in comune con il colonialismo storico delle potenze occidentali, che sostanzialmente occupava militarmente, ad esempio, un qualsiasi paese dell’Africa, ne sfruttava le risorse, sia quelle provenienti dalle materie prime che quelle provenienti dal lavoro locale sotto forme di schiavismo o semi-schiavismo, per pompare la propria economia e al tempo stesso inondava il mercato con manufatti prodotti in madre patria. La Cina fa alcune di queste cose ma con differenze sostanziali: proprio per il principio di non intromissione negli affari esteri non interviene militarmente, non organizza, incoraggia o appoggia golpe (come invece hanno fatto gli Stati Uniti in tutto il Sud America ad esempio), non fa occupazioni militari; l’altra differenza che la allontana dal colonialismo classico è il fatto che, come detto poche righe sopra, la Cina, più di ogni altra potenza mondiale, costruisce infrastrutture a “pacchetto completo” (detto banalmente, se bisogna costruire una ferrovia in un paese in Africa, la Cina fa tutto, dai bulloni al treno veloce).
In definitiva potremmo dire che saranno poi le politiche future a seguito di eventuali contrasti e tensioni all’interno dei paesi con cui la Cina intrattiene rapporti (da una posizione di maggiore forza) a stabilire quanto la politica estera cinese abbia caratteristiche di cooperazione o di colonialismo.
Un altro elemento che, considerando il percorso di sviluppo economico della Cina, tale da esser spesso definita una sorta di “fabbrica del mondo”, e che spesso viene tirato in ballo anche e soprattutto a livello mediatico in occidente, è quello dell’impatto ambientale che questo suo stesso sviluppo economico e queste politiche economiche hanno avuto, non tanto in Cina, quanto a livello globale. Risuona invadente la domanda retorica: “Se un miliardo e mezzo di cinesi avesse lo stile di vita di un americano, quanto sarebbe sostenibile a livello mondiale dal punto di vista ambientale, di inquinamento?”
Anche a livello meramente mediatico, ma ovviamente non solo, sappiamo bene che una delle grandi sfide del futuro è quella del cambiamento climatico e la Cina, che spesso è finita nell’“occhio del ciclone” in quanto accusata di essere fonte di inquinamento globale (anche un po’ ipocritamente dal punto di vista occidentale), non può non fare i conti con il tema del cambiamento climatico, tanto che si è sentita in dovere di cambiare il proprio modello di sviluppo in un’ottica di minor impatto ambientale. Detto banalmente, quali sono i rapporti tra Xi Jinping e Greta Thunberg?
Secondo Battaglia la Cina è una specie di Titanic, è come un transatlantico di grande potenza lanciato nel mare a cui a un certo punto si para davanti un enorme iceberg; e ci mette un po’ a deviare per evitare l’impatto. La differenza è che il Titanic è andato addosso all’iceberg, mentre la Cina invece riesce, magari anche all’ultimo minuto, a evitare questo iceberg (giusto per rimanere all’interno la metafora) proprio perché ha un paio di dispositivi adatti alle sue dimensioni.
Il primo è un partito all’avanguardia che, nonostante le incredibili contraddizioni e disfunzioni all’interno, si dimostra abbastanza efficiente quando si tratta di dover cambiare la rotta (e un esempio che dà ragione di questo lo abbiamo visto nel periodo di Covid-19, quando, dopo i problemi e i caos iniziali, la Cina, ha “ripreso in mano il timone” ed è riuscita ad applicare politiche e strategie di contenimento dei contagi e quasi ad azzerarli), quindi è un conduttore molto adattativo nel risolvere le problematiche.
Il secondo dispositivo è quello della mobilitazione di massa (che l’occidente non ha): quando il messaggio arriva dall’alto accadono al contempo alcuni processi, si accorciano la burocrazia o la catena di comando e questa stratificazione verticale si riversa, o comunque produce, una stratificazione anche orizzontale. A Wuhan ad esempio è successo che la gente ha cominciato a sentirsi più tranquilla quando ha visto che tutti i livelli intermedi dell’apparato verticistico-governativo-burocratico erano stati messi in campo ed erano giunti addirittura da Pechino, dando in tal modo il segnale che la leadership avrebbe fatto di tutto per risolvere il problema locale, senza percepire questo intervento come autoritario e verticistico.
È proprio in questo modo che il consenso popolare cresce, perché non c’è percezione di lesione del processo democratico, bensì il contrario: è il governo che accorcia, o “taglia” i suoi livelli verticistici e burocratici per poter venire incontro agli interessi del popolo, a risolvere il problema, come appunto nel caso di Wuhan. Tanto che appunto il Partito Comunista cinese è ossessionato dal consenso del popolo, e questo è un dato di fatto storico che percorre tutta la storia della Cina.
E anche per quanto riguarda il problema climatico accade qualcosa di simile: dopo esser diventata “fabbrica del mondo” e dopo modelli di sviluppo che hanno trasformato alcuni villaggi in una sorta di discariche a cielo aperto, la Cina ha cercato di risolvere sistematicamente queste problematiche. Segnale netto è giunto da quando, più o meno nel 2012/2013, il governo cinese di Xi Jinping ha deciso di concentrarsi non più sulla quantità ma sulla qualità (quindi qualità della vita, produzioni non inquinanti o a impatto ambientale minore ecc…), anche attraverso forme ispettive, di controllo e anche punitive laddove non si rispettano criteri di minor inquinamento e in generale di minor impatto ambientale (ci sono ad esempio grandi imprese che hanno continuato una produzione inquinante che adesso si ritrovano abbastanza in crisi, proprio per non aver rispettato criteri ambientali).
Pur non potendo esaurire tutta la complessità della realtà cinese, Battaglia ci ha permesso di approfondire una tematica del genere al di fuori della propaganda atlantica che giocoforza coinvolge ogni notizia che ci giunge dalla Cina; ma questo anche oltre la retorica e la propaganda attraverso cui la nomenclatura cinese promuove se stessa al proprio popolo e al mondo.
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In Sri Lanka la Cina aveva preso accordi con la leadership del momento per la costruzione di un porto, ma quando è cambiato il regime, il nuovo governo non voleva fare più il porto. Questo per dire, senza entrare nei dettagli, che eventuali cambiamenti di regime, costringono la stessa politica estera cinese a dover fare i conti con questi stessi cambiamenti. ↑
Immagine The Climate Group (dettaglio) da flickr.com
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