Pubblicato per la prima volta il 10 settembre 2015
In questi giorni stanno girando immagini sempre più dolorosamente lancinanti, agghiaccianti e persino disturbanti, della tragedia dell’immigrazione. Una delle più strazianti, che Il Manifesto ha anche scelto come foto sulla prima pagina, è quella di un bambino arenato sulla spiaggia, come un pesciolino sputato fuori dall’acqua. È a faccia in giù, il piccolo corpicino adagiato sulla sabbia, in una posizione così abbandonata e morbida che pare stia dormendo. E davanti il mare. Con le sue onde incessanti come gli cantasse una ninna nanna liquida. Ma quel bambino non si sveglierà mai più, le stesse onde che ora arrivano ad accarezzargli e lambirgli alcune estremità del corpo sono le stesse che ne hanno interrotto la vita. Tutte queste morti, tutte le morti in mare o per soffocamento in spazi microscopici in cui queste persone vengono stipate come topi perché non hanno abbastanza soldi per comprarsi il posto “in prima classe” nella parte superiore dell’imbarcazione sono di una drammaticità allucinante. Se esiste una forma adatta ad esprimere il dolore di queste traversate, di questo viaggio costantemente in troppo precario e vertiginoso equilibrio tra la vita e la morte, di un’esistenza ferita dalle bombe, dalle persecuzioni, dalla miseria, forse questa forma è quell’urlo disperato di una donna siriana che aveva appena appreso della morte del figlio. Un urlo che ci ha fatto venire i brividi, forse, mi auguro, anche al leghista più radicale.
Può darsi che dietro queste immagini ci sia, almeno da parte dei media, un fine strumentale, può sembrare che si giochi e si marci su un dolore che non possiamo del tutto comprendere perché noi, più fortunati di loro (relativamente parlando) probabilmente non lo conosceremo mai o comunque non in tempi prossimi. Ma non penso che in questo caso si tratti di voyeurismo dell’orrore, come ad esempio, nel caso delle efferate crudeltà perpetrate dall’ISIS, che involontariamente vanno persino a fargli propaganda. Mostrare l’immagine di quel bambino, o far vedere una donna spezzata dalla sofferenza, credo sia forse un mezzo necessario per andare a scuotere il silenzio delle nostre coscienze, a rompere, almeno per un fugace attimo l’indifferenza e l’apatia in cui versiamo.
L’immagine oggi è diventata lo strumento che più di tutti detiene potere e certo, la si può usare e manipolare come si vuole, a seconda dei propri interessi e in base al messaggio che si desidera lanciare. Per questo chi detiene il potere delle immagini ha una responsabilità enorme e appunto, anche un potere enorme. Potere che può diventare pericoloso o necessario. Se non è bastato sentirsi toccati dalla vista di barconi affollati, dalla vista di una fila interminabile sotto il sole per l’identificazione/segnalazione, se non è bastato il numero di morti in mare o per soffocamento, allora occorre, secondo me, cercare di violentare in maniera ancora più dura le nostre coscienze e quindi anche mostrare ciò a cui spero nessuno possa restare davvero impassibile o indifferente.
È vero, si potrebbe obiettare che a lungo andare persino le immagini più dure ci rendano assuefatti, ci rendano così abituati a vederle che finiscono per non destabilizzarci più. Abituarsi alla tragedia di altri esseri umani, uomini, donne, bambini, vecchi. Che cosa spaventosa. Non ho una risposta in merito, riconosco che il rischio è alto, soprattutto in un momento in cui l’orrore, come dicevamo prima sembra diventare qualcosa di ordinario e sembra innescare persino un gioco perverso di insano voyeurismo. Però allo stesso tempo penso che sia necessario mostrare le persone, i singoli protagonisti (loro malgrado) di questa tragedia senza fine. Credo si debba provare a spezzare questa abitudine all’orrore, mostrando non orrori gratuiti che hanno solo lo scopo appunto di inorridire ma senza innescare un moto di partecipazione e di ribellione, o insistere su quei casi di cronaca nera mostrando i corpi delle vittime o i pianti dei familiari, in questo caso non c’è un un fine politico nel mostrare tali immagini, ma un desiderio malato di mediatizzazione fine a se stessa del dolore privato e personale.
In altri casi invece, mostrare questo dolore nella sua faccia più nuda e cruda, più spaventosa può essere efficace. Può far scattare la percezione anche solo visiva che non si tratta di numeri, di moltitudini, di una folla resa anonima e omogenea chiusa dentro alcune immagini o servizi di telegiornale che forse hanno (almeno alcune) il fine di spaventare colui che le guarda, di lanciargli indirettamente un messaggio di minaccia e invasione, di pericolo per la sua agiata e più o meno comoda esistenza: una massa di gente, un numero enorme di stranieri che non sappiamo dove mettere, che viene a rubarci il lavoro e la casa, che ci mangia i soldi dello stato. In questo senso parlo di pericolo del potere dell’immagine, che è un potere inevitabilmente politico, nella maggior parte dei casi. L’immagine lancia messaggi più eloquenti di mille parole, soprattutto perché molti non si informano adeguatamente sui fenomeni e sulle dinamiche sotterranee, più complesse degli eventi e di conseguenza si limitano a guardare senza vedere realmente ciò che può esserci dietro quelle immagini, quella folla numerica anonima. Dietro ci sono le persone. Le storie. Le vite, e le sa forse “narrare” meglio l’immagine di quel bambino o il racconto diretto di un superstite che non una sfilza di numeri (per quanto poi ciascuno di noi dovrebbe indagare gli effettivi e reali numeri e dati e non basarsi solo sui discorsi propagandistici di alcune forze politiche o su delle informazioni parziali e strumentali fornite da alcuni mass media).
Il mio può sembrare un discorso retorico e banale e probabilmente lo è, ma finché non si riconoscono l’umanità di queste persone e la loro individualità, la loro “tridimensionalità” umana, non si potrà provare né compassione né empatia, né potrà innescarsi dentro di noi un moto di reazione, per lo meno emotiva, se non diventa (come sarebbe ben auspicabile, in primis da parte delle istituzioni internazionali e dalle forze politiche) anche pratica. In tal senso secondo me quel bambino, quella madre, quei tatuaggi identificativi che ricordano gli orrori del secolo scorso, hanno forse l’obiettivo di scioccare, di sconvolgere, di turbare, di spiazzare. Quelle immagini servono, in maniera anche molto disturbante ma forse necessaria, a “riumanizzare” tutto il discorso, reso fin troppo burocratizzato, troppo “numerizzato”, tecnicizzato, “proceduralizzato”.
Si parla di numeri, statistiche, dati, trattati ecc… ed è giusto farlo, ma senza dimenticare chi sono i soggetti di cui si parla. Chi sono queste persone. Anzi, prima di tutto senza dimenticare che sono persone, esseri umani come noi. Inizialmente è solo ridando piena dignità alla persona, solo prendendo atto di appartenere tutti a una comune umanità – che tutti dovrebbe unire e legare – che ci si sente direttamente chiamati in causa, coinvolti. È solo quando questa umanità che ci comprende indistintamente la sentiamo ferita, umiliata, offesa e devastata come se quelle ferite fossero dentro il nostro corpo, forse si potrà prendere atto della barbarie, dell’ingiustizia che stanno subendo degli esseri umani e ci si renderà un po’ conto della tacita colpa che abbiamo tutti noi ogni volta che rimaniamo indifferenti o che siamo pronti a rimandarli indietro in balia dei loro destini.
Quelle immagini dunque, per quanto preferiremmo non doverle vedere, ci obbligano a voltarci a guardarle, a tenere lo sguardo insistentemente su di esse, ci spingono a sentire, a pensare, a riflettere, a mettere in discussione, a chiedersi se quello che sta succedendo sia degno di un’umanità che vuole chiamarsi tale e di cui anche noi seduti su comode poltrone facciamo inevitabilmente parte. Tenere lo sguardo fisso su ciò che può distruggerci, sconvolgerci, ma con cui bisogna fare i conti.
Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, diceva che la vita di quest’ultimo non è quella che teme il confronto con la morte, con il negativo, ma è quella che la sopporta fino a inglobarla entro se stessa: “non è quella vita che scansa (si adombra dinnanzi a) la morte, che si tiene al riparto dalla devastazione, ma anzi è quella che sopporta (tiene in sé) la morte e si mantiene in essa. […] Questa potenza dello spirito non è come quella del positivo, che prescinde (lett: torce lo sguardo) dal negativo […], la potenza dello spirito è tale perché guarda in faccia il negativo e si sofferma/permane presso di esso. Questo permanere è la forza magica che trasforma il negativo in essere”.
Sebbene il nostro sia un ambito totalmente diverso da quello che prendeva in considerazione il filosofo tedesco, credo che quelle sue parole possano comunque applicarsi e rendere l’idea. Certe immagini che vediamo ci obbligano o ci chiedono a mantenervi lo sguardo fisso, insistente su di esse, senza scansarle ed è solo questa insistenza, questo coraggio ad affrontare il male, il negativo, a prendere la morte su di sé perché è anche la nostra morte, la morte dell’umanità che ci accomuna che possiamo provare a volgere il negativo in essere. A dare un nome a ciò che troppo spesso rimane muto. A dare voce a un silenzio assordante. A far esistere, per noi, ciò che è diventato cifra, simbolo, paradigma emblematico di qualcosa di astratto (la guerra, la persecuzione, la sofferenza… Tutte cose vere, ma al grado di astrazione e quindi meno toccanti), o mero dato numerico. A farlo essere. In sé e per sé, direbbe ancora Hegel!
Poi certo, si può tornare subito dopo agli affari del nostro vivere quotidiano come se nulla stesse accadendo fuori dalla nostra bolla di vetro, ma anche inconsciamente, forse, spero, qualcosa dentro si deve essere necessariamente scardinato se si sono viste certe immagini. Dentro le nostre ovattate sicurezze, magari, una catastrofe piccola o grande che sia, deve essere avvenuta. Poi le macerie le si possono riseppellire o confinare in un angolo buio della nostra mente, ma quella donna continua a gridare nella nostra testa, quel bambino è ancora disteso sulla sabbia dietro ai nostri occhi. Anche se ci tappiamo le orecchie, anche se ci voltiamo altrove, una traccia di quelle immagini, forse, rimane. Un solco nelle nostre coscienze forse si è scavato. Un moto di indignazione, di rifiuto, di ribellione, per quanto poi possa rimanere solo in potenza, magari lo si è avvertito. Se vediamo una persona che piange disperata per le disgrazie subite la si con-patisce, soffriamo con lei (e non solo per lui) dello stesso suo dramma, “patiamo” insieme, sentiamo forse di essere, almeno per un momento, insieme sulla stessa barca – anzi, sullo stesso barcone.
A differenza, ad esempio di Hannah Arendt, per la quale la compassione è momento pre-politico dell’esistenza e deve quindi restare fuori dallo spazio pubblico, Martha Nussbaum sosteneva che la compassione è un’emozione politica e socialmente determinante. Cum-patheo, sentire insieme.
Già Aristotele aveva parlato molto di compassione, che per altro rappresenta, insieme a Marx (soprattutto quando questi parla di funzioni umane, alcune particolarmente essenziali nel senso che “la loro presenza o assenza è contrassegno caratteristico della presenza o assenza della vita umana stessa”) uno dei nuclei impiantistici del pensiero di Nussbaum – per quanto forse entrambi poi rimangano solo un’eco. “Primo requisito della compassione”, scriveva lo stagirita, “è la credenza, o valutazione, che la sofferenza sia seria e non banale. Il secondo è la credenza che la persona non meriti la sofferenza stessa, il terzo è la credenza che le possibilità della persona che prova l’emozione siano analoghe a quelle di chi soffre“.
Per la filosofa statunitense essa è una “emozione dolorosa provocata dalla coscienza della sventura immeritata toccata ad un’altra persona” capace di far emergere un giudizio oggettivo collegato all’idea di realizzazione del soggetto, di sviluppo pieno della sua persona, e soprattutto è ciò che permette “la considerazione dell’altra persona in quanto parte del proprio circolo di interesse”, e quindi un ampliamento del sé da monade a io relazionale, la fuoriuscita dal mio nucleo egoico per farmi incontro all’altro, per sentire e riconoscere l’altro come fine e non come mezzo, come ciò che mi riguarda direttamente, in quanto parte di una stessa umanità che è anche nel mio interesse favorire, contribuendo a far sbocciare, in qualsiasi individuo, le “capabilities” necessarie per la sua piena realizzazione come persona. È persino più importante dell’empatia perché non richiede una totale immersione nell’altro, una piena immedesimazione nella vita e nel dolore altrui e perché mentre l’empatia è esente da un qualsivoglia giudizio di valore mantenendo un carattere fortemente neutrale ed egualitario, la compassione implica una valutazione e un giudizio morale.
A mio parere invece è solo quando si prova questa empatia in maniera piena e totale che si sente davvero che è il momento di agire. Secondo lei però essa è più “esclusiva”: solo con certe persone si può entrare in contatto empatico, mentre la compassione può essere universale, la si può provare anche per coloro (animali compresi quindi) che ci sembrano mille miglia lontani dal nostro essere. La compassione forse garantisce quel po’ di distacco che permette di rimanere lucidi di fronte al fatto, e quindi dar vita a un processo attivo e razionale che sarebbe più difficile quando ci si sente troppo coinvolti. Io non so se sono molto d’accordo, perché penso che sia proprio il sentirci coinvolti che ci chiama all’impegno, che ci obbliga a reagire. L’empatia a me sembra più potente della compassione, per quanto se non la si fa “scadere” in un sentimento di sola pietà o commiserazione può favorire anch’essa l’azione e un giudizio etico profondo su noi stessi, sugli altri, e sull’esistente.
Ad ogni modo, occorre sentirsi coinvolti perché questo significa non poter più far finta di niente. Significa che ciò che vedo, ciò a cui assisto, ciò che accade fuori di me, anche se non tocca direttamente la mia vita o la mia incolumità mi riguarda da vicino, mi chiama, mi fa percepire l’altro dentro di me, mi fa accogliere l’altro in me. Lo fa incorporare dentro il mio stesso corpo, solo così posso sentirne la ferita e sentirla anche dentro di me. Paul Ricoeur – altro filosofo molto sensibile al tema dell’amore, della compassione e delle emozioni in generale – ha scritto: “L’incorporazione tenace, via via di un grado supplementare di compassione e di generosità in tutti i nostri codici – dal codice penale alle norme di giustizia sociale – costituisce un compito perfettamente ragionevole, benché difficile e interminabile”. Ma imprescindibile, se vogliamo, tutti, restare umani.
Immagine di Mstyslav Chernov (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.