Le elezioni politiche del 2001 videro la vittoria dopo sette anni della coalizione di centrodestra, ivi inclusi gli eredi del fascismo. (Il MSI aveva cambiato nome in Alleanza Nazionale al congresso di Fiuggi del 1995, distanziandosi ufficialmente dal Ventennio.) Il periodo 2001-2006 è stato, ad oggi, il più lungo periodo continuativo nell’Italia del dopoguerra in cui fascisti o post-fascisti abbiano condiviso responsabilità di governo; un periodo che, saltando la parentesi del biennio di centrosinistra 2006-08, si estende fino al 2011.
I colpi di spugna sulla memoria
Per descrivere i fronti di conflitto sulla memoria della Resistenza in quel decennio è utile forse partire dal primo 25 aprile celebrato sotto il nuovo governo della Casa delle Libertà, ossia quello del 2002.
La ricorrenza cadeva appena quattro giorni dopo il primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che aveva visto l’estrema destra accedere per la prima volta al ballottaggio, con Jean-Marie Le Pen che, scavalcati i candidati di sinistra, avrebbe sfidato il Presidente gaullista Chirac. In Italia due partiti di governo condividevano o avevano condiviso le posizioni lepeniste, soprattutto in materia di nazionalismo e xenofobia: AN, dalla cui fiamma missina Le Pen aveva anche mutuato il simbolo del Front National, e la Lega Nord.
Fra queste preoccupazioni, il presidente della Repubblica Ciampi commemorando la Liberazione ad Ascoli Piceno ammonì contro i rischi del revisionismo storico, provocando l’insoddisfazione del deputato locale di AN Giulio Conti.
Il contrasto istituzionale al ricordo di Ciampi fu dato dal presidente del Consiglio Berlusconi e dal presidente del Senato Pera (FI), che inviarono messaggi alla commemorazione di Edgardo Sogno, l’ex partigiano monarchico che nel 1974 aveva guidato un tentativo di colpo di Stato anticomunista. Berlusconi, che come Sogno aveva fatto parte della P2, lo definì «un combattente della libertà che si è opposto in egual misura al fascismo, al nazismo e al comunismo»[1], muovendosi sulla falsariga delle considerazioni espresse, ancora come leader di opposizione, il 25 aprile 2001: la Liberazione «è patrimonio non di una parte soltanto, ma di tutti. Fu un giorno di contrasto di tutti i totalitarismi, del nazismo, del fascismo e del comunismo». L’inserimento del comunismo tra i nemici sconfitti il 25 aprile aveva sfidato il ridicolo poiché nella stessa occasione Berlusconi aveva ringraziato «la Grande Russia, che prima di scegliere una strada diversa seppe sconfiggere il comune nemico nazista, e contribuì alla nostra liberazione».[2]
Ma, contraddizioni interne a parte, l’equiparazione della sinistra comunista al nazifascismo avrebbe costituito uno dei leitmotiv dell’offensiva culturale della destra in quel decennio e in particolare nella XIV legislatura repubblicana.
Lo stesso 25 aprile 2002 alcuni incidenti si ebbero a Trieste. Il sindaco Roberto Dipiazza (FI) e l’assessore alla cultura Roberto Menia (AN), che in quanto tale presiedeva la Commissione della Risiera di San Sabba, organizzarono una commemorazione triplice: dapprima alla foiba di Basovizza, poi al lager della Risiera, infine al monumento a San Giusto dedicato ai caduti della Prima Guerra Mondiale (che il monumento, costruito sotto il regime fascista, definisce nell’iscrizione «guerra di liberazione»). Uscite le autorità politiche, alla foiba subentrarono militanti neonazisti con tanto di camicie nere e saluti romani, mentre Menia fu duramente contestato a San Sabba da antifascisti e familiari delle vittime.
Il capogruppo DS a Montecitorio Luciano Violante, che come magistrato aveva istruito le accuse di golpe a Sogno, interrogato sull’aumento delle violenze fasciste e sul proprio riferimento ai “giovani di Salò” quando si era insediato Presidente della Camera disse: «La situazione è cambiata rispetto al 1996 quando dissi che bisognava riflettere sui vinti di ieri. Allora non c’erano i fatti inquietanti di oggi, che le forze di governo coprono con il silenzio e la banalizzazione».[3]
L’idea che le provocazioni neofasciste, o se non altro l’inquinamento vergognoso della memoria storica, potessero trovare complicità nel governo proprio perché negli anni addietro il revisionismo strisciante aveva ricevuto aperture anche a sinistra parve sul momento non farsi strada.
Permaneva ancora, infatti, l’illusione di una memoria che potesse essere realmente condivisa: a marzo 2000 la Camera aveva approvato all’unanimità l’istituzione del Giorno della Memoria per commemorare, nel giorno della liberazione di Auschwitz il 27 gennaio, il genocidio degli ebrei e la deportazione di militari e politici italiani.[4]
Un fronte non unanime, ma comunque largo, si ebbe anche per il rientro dei Savoia che, fallito nella legislatura precedente, fu invece realizzato nel 2002. Due partiti (la Lega Nord e il PRI) che nel 1997 avevano votato contro si spostarono sull’astensione per ragioni fondamentalmente politiche, essendosi nel frattempo accasati nella coalizione di centrodestra. In prima lettura mantennero la loro opposizione le forze più a sinistra del Parlamento (PRC, PdCI, settori di sinistra dei Verdi e dei DS), ma anche alcuni moderati (ad esempio Fioroni e Mantini, che chiesero di subordinare il rientro al pagamento di un risarcimento per i danni di guerra e per le conseguenze delle leggi razziali).[5]
Il fatto che la seconda lettura del Senato avesse mancato la maggioranza dei due terzi dell’Aula, rendendo quindi possibile il ricorso al referendum, non fu di grande ostacolo, forse anche perché il rientro degli ex reali avveniva con due condizioni tranquillizzanti per la sinistra e che erano mancate al tentativo del 1997: un’esplicita dichiarazione di fedeltà alla Costituzione repubblicana[6], che scongelò il sì di DS e SDI, e il fatto che la legge costituzionale non avrebbe cancellato dalla Carta la XIII disposizione, limitandosi invece meramente a dichiararne cessati gli effetti.[7]
La campagna nazionalista sul confine orientale
Il più ampio tentativo di riscrittura della memoria storica in quegli anni, e forse quello di maggiore successo, riguardò però le vicende del confine orientale, particolarmente in relazione al periodo 1943-1947. L’alfiere di questa offensiva fu ancora una volta Menia, attorno al quale si svilupparono tre cerchi concentrici di sostegno politico: AN, il resto della CdL, la maggioranza del centrosinistra.
Già nelle passate legislature Menia aveva tentato, senza successo, di istituire per legge forme di compensazione, monetarie o simboliche, per le comunità italiane che avevano lasciato Istria, Fiume e Dalmazia dopo la Seconda guerra mondiale. Stavolta la proposta legislativa si concentrò su un piano che interessava più la memoria che l’aspetto della compensazione materiale. Il 6 febbraio 2003 Menia depositò alla Camera la pdl 3661, dal titolo «Istituzione del “Giorno della memoria e della testimonianza” in ricordo delle terre d’Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché degli esuli giuliano-dalmati». In calce le firme di 101 deputati: 86 di AN, 13 di FI, 1 dell’UDC e 1 della Margherita. La data individuata per la ricorrenza sarebbe stata il 10 febbraio, giorno in cui nel 1947 fu firmato il Trattato di Parigi che modificava i confini italiani.
È evidente quindi, tanto dal titolo quanto dalla data prescelta, che l’obiettivo dichiarato della pdl riguardava non solo alcuni specifici fatti di sangue ma un più generale revanscismo, coerente con la richiesta missina di rivedere il confine orientale avanzata ancora da Tremaglia dopo la vittoria elettorale del marzo 1994. Il fine esplicitato nel corpo della proposta era: «ricordare, fare conoscere e perpetuare la millenaria storia e presenza italica nelle stesse terre, nonché la tragedia delle migliaia di italiani nelle foibe istriane e dell’esodo di 350 mila istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra».[8]
Ma, oltre che a fomentare nuove fiammate nazionaliste, la proposta di legge mirava, da parte della destra, a stabilire un’equiparazione tra crimini nazifascisti e crimini della Resistenza, identificata con il comunismo e visto questo, a sua volta, come un’entità criminale transnazionale indifferenziata. Questa intenzione, del resto, era già stata annunciata da AN, nella persona del deputato Gustavo Selva, nel momento in cui il partito si era dichiarato favorevole all’istituzione del 27 gennaio quale Giorno della Memoria: bisognava infatti illustrare nelle scuole, aveva detto Selva alla Camera, «la storia degli orrori e dei delitti che furono perpetrati, anche nei confronti di ebrei, in nome dell’ideologia comunista. Il patto Ribbentrop-Molotov del 1939 fu un’intesa tra le due più devastanti ideologie del ventesimo secolo per opprimere quanti si opponevano all’una e all’altra delle due dittature del secolo scorso. È per questo che il Polo proporrà di ricordare le vittime del comunismo […] Vittime di una pulizia etnica, signor Presidente, onorevoli colleghi, fatta nel nome dell’ideologia comunista, furono in Italia anche le centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini che finirono massacrati nelle foibe carsiche».[9]
La strategia era abbastanza chiara: non potendo difendere apertamente il genocidio di ebrei, rom e slavi, l’area post-fascista sceglieva di condannarlo, unendovi però un altro condannato costruito ad arte, ossia il comunismo che sarebbe stato responsabile di analoghi genocidi. Il tutto in una evidente deformazione storica, che intendeva bilanciare il sistematico sterminio costruito in tutta Europa dal Reich tedesco con fatti di sangue avvenuti in un’area limitata, e che mentre si scagliava contro il patto Germania-URSS taceva di quello Londra-Berlino siglato di fatto alla conferenza di Monaco.
Trieste, inoltre, si trovò in quel periodo continuamente al centro di questa lotta, condotta soprattutto dallo stesso Menia. Il 27 gennaio 2003 il sindaco Dipiazza parlò anche in sloveno alla Risiera di San Sabba e non fece menzione delle foibe: due gravissime mancanze secondo Menia, che lo definì «vile, pavido, inadeguato».[10] Pare che Dipiazza avesse capito la lezione, perché il 25 aprile, parlando nuovamente alla Risiera, gridò «Onore ai martiri della foiba!».[11]
Il testo della pdl Menia fu discusso e approvato dalla Camera a febbraio 2004. Il passaggio nelle commissioni aveva limato le note nazionaliste del testo iniziale, ora mutato in un più sfumato «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale», ma aveva anche reintrodotto un riconoscimento onorifico ai parenti delle vittime.
La discussione coincise con il giorno proposto (10 febbraio), esasperando il carattere revanscista della proposta. Alla Camera si registrò però un’ampia convergenza. Parlando a nome dello SDI, il deputato Intini rivendicò: «Come direttore dell’Avanti! ricordo che aprii le porte alla collaborazione di un fascista, intellettuale e repubblichino come Giano Accame. Non abbiamo aspettato il libro di Pansa per denunciare i crimini commessi in nome della Resistenza», salvo poi attirarsi gli strali di AN osservando «i fascisti hanno oppresso l’Italia, i comunisti no, i fascisti hanno perseguitato gli ebrei italiani e tanti cittadini italiani, i comunisti no».
Il segretario dei DS Fassino, annunciando il sì del suo partito, dopo aver condannato il revisionismo storico si produsse in un amaro mea culpa: «Se c’è una riflessione critica che la sinistra e l’antifascismo italiano devono fare rispetto a quel dramma è quella di avere a lungo accettato, in nome di una giustificazione storico-politica che non poteva essere accettata, un dramma che invece avrebbe dovuto essere contrastato e combattuto».
Nella destra, invece, particolarmente eloquente fu la dichiarazione del relatore, Benito Paolone di AN. Ricordando la vicenda di suo padre Francesco, fucilato dai partigiani jugoslavi (ma omettendo che lo stesso apparteneva alla Milizia di Difesa Territoriale, cioè la polizia militare fascista), egli affermò «una testimonianza di vita, di fede e di militanza, affinché non debbano mai più ripetersi esecrabili vicende, come quelle di Hiroshima e Nagasaki, come quella di Dresda e come tanti altri fatti ignobili, che sono stati perpetrati per dimostrare che qualcuno aveva vinto e qualcun altro aveva perso», in un evidente rimpianto per la sconfitta dell’Asse.
Il voto finale, l’11 febbraio, fu quasi unanime: 502 favorevoli, 15 contrari (PRC e PdCI) e 4 astenuti (due deputati della sinistra dei Verdi e due della sinistra DS).[12]
Il ruolo politico di riscrittura della memoria fu esplicitato anche dal Presidente della Regione Lazio, Francesco Storace (AN), che definì in quei giorni le foibe «l’Olocausto degli italiani», sgravando con ciò gli italiani (fascisti compresi) dalle responsabilità nella Shoah e parificando ancora il nazismo e la Resistenza.
Il capogruppo dei senatori della Margherita, Willer Bordon, presentò un’analoga pdl al Senato, con toni ancora più distesi («conservare e tramandare la memoria delle sofferenze degli esuli istriano-dalmati») ma confermando il 10 febbraio quale giorno deputato al ricordo di quelle vicende. La sua proposta fu assorbita da quella Menia, che fu promulgata come legge il 30 marzo 2004.[13]
Il sangue dei vinti: la popolarizzazione del revisionismo
Negli interventi di alcuni esponenti del centrosinistra in merito all’istituzione del “Giorno del ricordo” si poté cogliere l’apparente incapacità di comprendere che il respingimento del revisionismo storico mal si conciliava con il sostegno alle sue incarnazioni politiche, quale appunto massimamente la vulgata di destra riguardo il confine orientale.
Intini, in particolare, aveva rivendicato con orgoglio di non aver «aspettato il libro di Pansa» per aver denunciato i crimini compiuti da esponenti della Resistenza. Il “libro di Pansa” fu in effetti un’altra importante peculiarità del decennio: la diffusione del revisionismo storico al grande pubblico, per mezzo di libri di facile consumo, i più noti dei quali a firma appunto del giornalista Giampaolo Pansa.
Prima di trattarne è bene ricordare ancora una volta il contesto politico italiano dell’epoca. Non vi erano solo i filoni fascisti di AN e della Lega Nord, ma anche la complicità del Presidente del Consiglio che sistematicamente disertava le celebrazioni del 25 aprile. Ma nessun’altra vicenda è emblematica dell’impegno di Berlusconi nella falsificazione della memoria come le parole rilasciate a settembre 2003 allo Spectator. Rispondendo a un paragone tra il regime di Saddam Hussein e il regime fascista italiano il capo del governo commentò: «Mussolini non ha mai ammazzato nessuno, Mussolini mandava la gente a fare vacanza al confino».[14]
L’affermazione fu sentita come particolarmente insultante e provocatoria perché resa negli stessi giorni in cui si commemorava il 60° dell’inizio della Resistenza. E proprio parlando per tale occasione alla Festa nazionale dell’Unità a Bologna l’ex capo dello Stato Scalfaro aveva proposto un parallelismo tra i primi anni del governo Mussolini e quei primi anni del secondo governo Berlusconi.
Fu dunque in questo contesto che, in ottobre, uscì il libro di Pansa Il sangue dei vinti, dedicato alle uccisioni di fascisti avvenute dopo la guerra. Tema non originale, essendo già stato sollevato dal PSI nel 1990. Stavolta, però, popolarizzato. Affrontando la questione dell’opportunità di un libro che avrebbe contribuito alla ricostruzione falsificata della storia, Pansa dichiarò senza problemi: «Non posso dire me ne frego, dirò me ne impipo […] Sembri un inquisitore staliniano […] Il clima e le ricadute politiche non mi interessano», per poi passare a delineare una vera e propria controstoria, in parte apologetica del fascismo e in parte votata a una volgare equiparazione: «Dopo il 1945 i morti sono solo fascisti o presunti tali […] Prima c’erano degli spettatori allo stadio davanti a due squadre, con il pubblico che oscillava di qui e di là».[15]
Il più duro nella contestazione fu Giorgio Bocca, che, facendo riferimento anche al precedente I figli dell’aquila, pubblicato nel 2002 sui volontari della X Mas, collegò direttamente l’orientamento revisionista del collega con la sua ambizione di giungere alla direzione del Corriere della Sera (a maggio il direttore di via Solferino, De Bortoli, si era dimesso due mesi dopo che Berlusconi lo aveva definito, incontrandone l’editore Romiti, «il direttore del manifesto»). Bocca ricordò anche che Pansa non sembrava nuovo a un uso interessato della memoria, poiché grazie a una tesi di laurea sulla Resistenza era stato assunto nel 1964 al Giorno, diretto dall’ex partigiano Italo Pietra.[16] Mentre, per quanto riguardava i fatti di sangue, il suo giudizio era netto: i 19.801 morti stimati da Pansa (o, meglio, dall’Istituto milanese per la storia della RSI, a cui Pansa si rifaceva) sembravano «pochi, se si considera il contesto da cui uscivamo».[17]
Se vi fossero interessi personali di Pansa non è dato sapere; certo è che politicamente il libro servì come ulteriore trampolino alla ristrutturazione della memoria.
Presentandolo a dicembre, il presidente del Senato Pera disse che era ora di sbarazzarsi del «mito dell’antifascismo» e che la Repubblica Italiana e la Costituzione dovevano essere definite non più antifasciste, ma semplicemente democratiche. Esse, in quanto antifasciste, sarebbero infatti risultate svuotate di contenuto se fossero scomparsi tutti i fascisti. Un’evenienza che comunque non sembrava probabile, visto che lo stesso Pera invitò a privilegiare «i valori positivi e non quelli che dividono la coscienza degli italiani», riconoscendo quindi una rilevante presenza di italiani fascisti.
Analogo infortunio logico lo ebbe nel rivendicare che «una parte della destra al governo definisce il fascismo “un male assoluto”», mentre nessun comunista o ex comunista aveva riservato un analogo giudizio al comunismo. Parole che, se prese sul serio, indicavano che la destra al governo era di marca fascista e che solo una parte di essa aveva ripudiato il Ventennio.[18]
Legittimare RSI ed eversori
L’ultimo e più tagliente assalto sarebbe stato scagliato in prossimità del 60° anniversario della Liberazione.
Già a ottobre 2001 il senatore di AN Luciano Magnalbò aveva presentato una proposta di legge per il «Riconoscimento giuridico del servizio militare prestato dai cittadini italiani nella Repubblica sociale italiana», con annessi benefici pensionistici.[19] A maggio 2003 il collega Giovanni Collino depositò un’analoga proposta, stavolta cofirmata da 25 esponenti di AN e dal cattolico autonomista trentino Renzo Gubert, che avrebbe istituito, senza specifiche disposizioni previdenziali, il «Riconoscimento della qualifica di militari belligeranti a quanti prestarono servizio militare dal 1943 al 1945 nell’esercito della Repubblica sociale italiana (RSI)».[20]
Oltre alla questione pensionistica – e ricordò giustamente lo storico Enzo Collotti: «come se la repubblica democratica non avesse dato mai prova di indulgenza nei confronti dei combattenti della Rsi», viste «le sanatorie e i benefici che non sono stati lesinati nei fatti ai militari della RSI negli scorsi decenni, al punto che molti di essi furono riassunti in servizio nelle forze armate della repubblica: di quanti partigiani si potrebbe dire altrettanto?»[21] –, oltre alla questione pensionistica, queste proposte costituivano il massimo passo nella direzione del livellamento completo tra chi si era opposto con le armi all’occupazione tedesca e chi invece vi aveva servilmente collaborato.
Approvata a maggio 2004 dalla Commissione Difesa del Senato, la pdl Collino (che aveva assorbito la Magnalbò) giunse a maggiore conoscenza dell’opinione pubblica a gennaio 2005, quando fu calendarizzata in Aula, anche perché la tempistica apparve tutt’altro che casuale: la proposta fu infatti abbinata alla discussione di un finanziamento speciale (3.100.000 euro) per le celebrazioni del 60° della Liberazione. Quest’ultima pdl aveva un carattere leggermente bipartisan: su 27 firmatari soltanto 5 provenivano dal centrodestra, ma, con questi 5, erano rappresentati tre dei maggiori partiti della coalizione (FI, Lega Nord, UDC). Spiccava però l’assenza di qualsiasi esponente di AN.
Già ad agosto 2004 il Presidente dell’ANPI Boldrini aveva denunciato il legame politico intrinseco tra i mancati finanziamenti per il 60°, e anzi la riduzione dei fondi per le associazioni partigiane, e l’intento di parificare ai militari legittimi quelli della RSI: «Sono due episodi, a torto considerati minori, che hanno un forte valore simbolico e pratico, avvenuti entrambi in Parlamento. Ecco perché appare difficile non ipotizzare che dietro questi fatti ci sia un preciso disegno politico per farla finita una volta per sempre con la Resistenza, la memoria storica, il ricordo di pagine che a taluno possono essere indigeste. E che quindi vorrebbe cancellare e riscrivere».[22]
La vicenda finì con una sorta di parificazione in tono minore: né la pdl Collino né il finanziamento speciale furono approvati, poiché la discussione parlamentare fu annunciata ma mai effettuata.
Il persistere in Alleanza Nazionale della causa fascista portò diversi commentatori a chiedere conto al leader del partito, Gianfranco Fini, della coerenza con la svolta di Fiuggi. In realtà Fini si era spinto anche oltre: in visita al Museo dell’Olocausto a Gerusalemme a novembre 2003 aveva condannato il fascismo come «male assoluto», solo due mesi dopo la riabilitazione berlusconiana di Mussolini. Le frasi di Fini avevano aperto in AN un fronte che aveva prodotto la mini-scissione a destra di Alessandra Mussolini (Libertà d’Azione, poi Azione Sociale) ma, in modo più rilevante, l’insoddisfazione dei cosiddetti “colonnelli” ostili al tentativo sia di rompere apertamente con il Ventennio e con la RSI sia di distaccarsi da Berlusconi. Fini del resto già ad ottobre 2003 aveva proposto l’estensione del diritto di voto agli immigrati regolari e a primavera 2005 avrebbe rotto anche con il clericalismo, assumendo nei referendum sulla fecondazione assistita la posizione – tre sì e un no – della sinistra cattolica.
In questo contesto Berlusconi scelse di fronteggiare la pretesa di autonomia di AN (o, meglio, di Fini) appoggiandosi proprio alle formazioni di estrema destra, apertamente neofasciste o, per dirla con Tilgher, «mai neofascista, perché i neo non mi piacciono». In vista delle elezioni politiche del 2006, in cui i poli cercarono coalizioni molto ampie per una battaglia all’ultimo voto, la Casa delle Libertà strinse un accordo con una serie di gruppi di estrema destra (Azione Sociale, Forza Nuova, Fiamma Tricolore, Movimento Idea Sociale, Fronte Sociale Nazionale, Nuovo MSI), guidati talvolta da personaggi condannati per eversione. Ne seguì una polemica sui candidati “impresentabili”, iniziata dall’UDC, che si concluse con l’alleanza ma depurata delle figure più compromesse.
Il risultato elettorale, però, non arrise: la lista Alternativa Sociale si fermò sotto lo 0,7% mentre la Fiamma Tricolore toccò lo 0,6%.
Crisi dell’antifascismo?
La crisi dell’antifascismo è il titolo di un libro del 2004 con cui Sergio Luzzatto analizzò il fenomeno. Negli atti compiuti a vario titolo dalla destra italiana – simbolici, verbali, legislativi… – egli ravvisava l’intenzione di costruire un consenso fondato su tre esclusioni: una Repubblica né fascista, né comunista, né antifascista. Per descrivere questo nuovo consenso Luzzatto usò l’aggettivo «post-antifascista».
Giovanni Orsina, qualche anno dopo, facendo riferimento all’umore dei conservatori italiani dopo il 1945 impiegò invece il termine «anti-antifascista» che è forse più azzeccato anche per la destra di sessant’anni dopo, nella quale si notava infatti una forte differenza tra nella trattazione dei tre fenomeni: il comunismo, condannato senza appello; l’antifascismo, respinto come divisivo; il fascismo, che semplicemente veniva in parte rimosso e in parte rimpianto dietro la maschera della riabilitazione pietistica.
Apparentemente gli anni 2000 consegnano un’Italia in cui la polemica antiresistenziale, seminata negli anni 1980 e fiorita negli anni 1990, è giunta al suo apice. Mai prima di allora l’anti-antifascismo era stato così apertamente propagandato, nelle sedi politiche e in quelle culturali, e quanto al pubblico di massa esso eguagliava, se non addirittura superava, quello della rete clericale nel dopoguerra.
Eppure in quegli anni si nota anche un contromovimento, ossia una ripresa della coscienza della memoria nel centrosinistra. Dopo tanti tentativi di tendere la mano all’avversario per una memoria comune – il processo postumo a Togliatti, il dibattito sul “triangolo della morte”, la comprensione per i militi della RSI, il rientro dei Savoia, infine il Giorno del ricordo – si fu posti di fronte al fatto che l’evoluzione era a senso unico: non era l’avversario che si avvicinava sempre di più, ma la memoria che indietreggiava. Donde le sfrontate frasi berlusconiane su Mussolini, la pubblicistica revisionistica, la petizione di un riconoscimento per i repubblichini.
Nel decennio 2000, quindi, contrariamente alla tendenza della decade precedente, la memoria fu più che mai divisiva, condita anche dalla contrapposizione, da parte della destra meno estrema, dell’esercito statunitense alle truppe partigiane quale vero liberatore dell’Italia.
Del resto, proprio in quel decennio la contrapposizione fu più che mai attinente all’universo simbolico e ideologico e sempre meno immediatamente legata alla lotta politica quotidiana: questo per ragioni temporali di evoluzione del quadro politico e per ragioni anagrafiche di scomparsa dei protagonisti. Al congresso del 2006 il novantunenne Arrigo Boldrini lasciò dopo 59 anni la Presidenza dell’ANPI, che in quello stesso congresso aprì il tesseramento anche a chi non aveva combattuto la Guerra di liberazione. Nel 2007-08 il tentativo di Storace di costruire un partito di destra sociale che capitalizzasse sullo spostamento centrista di Fini e sull’assorbimento di AN nel Popolo della Libertà si fermò al 2,4% (in alleanza con la Fiamma Tricolore!). Nel 2008 terminò il mandato l’ultimo partigiano in Parlamento, Armando Cossutta (82 anni), mentre fu rieletto alla stessa età l’ultimo repubblichino, Mirko Tremaglia, che sarebbe deceduto in carica a distanza di tre anni.
Eppure l’11 febbraio 2008, aprendo la campagna del Partito Democratico per le elezioni politiche, Walter Veltroni usò termini durissimi per difendere la Resistenza. «Uniti nella Resistenza: quella attiva dei partigiani, quella silenziosa dei deportati, quella operosa dei tanti giusti che seppero aprire la porta a chi cercava aiuto». Citò una lettera giuntagli da un sostenitore che ricordava il nonno, che «aveva nascosto nella stalla un gruppo di partigiani che erano sfuggiti ad un rastrellamento fascista e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di tutta la sua famiglia. Però l’aveva fatto e ancora ricordo che me lo diceva come se fosse la cosa più ovvia. Di fronte alla difesa della libertà e della propria patria non c’è esitazione, si fa cosa si deve fare e basta». A queste considerazioni si ricollegò infine nella conclusione del discorso, in un elogio della politica «come lotta per grandi principi e grandi valori: la libertà, la giustizia, la pace. Ideali grandi, per i quali si può dare la propria vita, donandola ogni giorno nella fatica dell’impegno quotidiano, o addirittura accettando di perderla, pur di non tradire in nome della vita ciò che alla vita dà significato».[23]
Il decennio si chiuse quindi con il tramonto di un universo di testimonianze del periodo resistenziale, ma avendo avuto il tempo di riceverne in eredità una presenza sempre più viva di quel tema nel dibattito pubblico e specialmente nella parte del Paese che più partecipava alla vita politica.
[Continua nei prossimi giorni]
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https://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2002/04_Aprile/25/25aprile.shtml ↑
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«Liberazione, non più festa di una parte», Corriere della Sera, 26 aprile 2001. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2002/04/26/issue_full.pdf ↑
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http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed703/sintero.pdf ↑
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http://leg14.camera.it/_dati/leg14/lavori/stenografici/sed128/sintero.pdf ↑
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https://www.repubblica.it/online/politica/savoia/fedeli/fedeli.html ↑
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https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2002/10/26/002G0267/sg ↑
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http://leg14.camera.it/_dati/leg14/lavori/stampati/pdf/14PDL0043680.pdf ↑
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http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed703/sintero.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2003/02/02/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2003/04/26/issue_full.pdf ↑
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http://leg14.camera.it/_dati/leg14/lavori/stenografici/sed422/sintero.pdf ↑
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https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2004/04/13/004G0110/sg ↑
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https://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2003/09_Settembre/11/berlusconi.shtml ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2003/10/10/issue_full.pdf ↑
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http://web.archive.org/web/20200206161219/https://www.alganews.it/2020/02/05/intervista-a-giorgio-bocca-su-giampaolo-pansa-del-2003/ ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2003/12/16/issue_full.pdf ↑
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Riconoscimento giuridico del servizio militare prestato dai cittadini italiani nella Repubblica sociale italiana ↑
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http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00069400.pdf ↑
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Enzo Collotti, Le pensioni di Salò, in il manifesto, 4 gennaio 2006, cit. in http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/manifesto-le-pensioni-di-salo.flc ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/2004/08/27/issue_full.pdf ↑
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https://www.partitodemocratico.it/archivio/discorso-per-litalia/ ↑
Immagine di Giuseppe Nicoloro (dettaglio) da flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.