Il MSI al potere e la rivalutazione del fascismo
Il vento che aveva soffiato per processare la Resistenza trovò le proprie conseguenze politiche nelle elezioni del 27 e 28 marzo 1994, che videro il prevalere di uno schieramento di destra composto da fenomeni apparentemente contraddittori – il MSI, la Lega, una Forza Italia antipolitica ma che raccoglieva il grosso del vecchio consenso a DC e PSI – uniti in realtà da una potente volontà reazionaria.
La preoccupazione per l’ingresso dei neofascisti nel governo per la prima volta dopo il 1943, e in generale per l’esito di destra a cui era approdata la crisi istituzionale, non poté che aumentare quando su La Stampa del 1° aprile Gianfranco Fini, rispondendo a una domanda specifica, confermò il giudizio su Mussolini come «il più grande statista del secolo», e fu acuita da una trasmissione di Rai Uno, Combat Film, andata in onda il 6 aprile. Il programma si connotava per la riproduzione di filmati originali che documentavano scene particolarmente cruente, giustapponendo però eventi diversi e di diversa responsabilità: i corpi delle Fosse Ardeatine accanto alla fucilazione di spie fasciste o ai cadaveri di Mussolini e della Petacci. Il tentativo di equiparazione tra Resistenza e fascismo era reso ancor più evidente dalla contemporanea presenza in studio dell’ex partigiana Tina Anselmi e dell’ex repubblichino Giano Accame, direttore del giornale del MSI Il Secolo d’Italia. La trasmissione sarebbe poi stata replicata, ufficialmente per via dell’imprevisto prolungamento del programma che l’aveva preceduta nel palinsesto.
Nel pubblico erano presenti anche alcuni studenti universitari che, nelle parole di Piero Fassino – egli pure in studio, figlio di un partigiano e occupatosi fin dal 1989 per il PCI/PDS delle questioni relative a memoria storica e antifascismo –, mostrarono «una conoscenza del tutto approssimativa della nostra storia ed un’incredibile assenza di informazioni», ignorando ad esempio l’identità di Badoglio. Un’ignoranza di cui Fassino accusava i responsabili dell’istruzione scolastica che per decenni, in nome della neutralità politica, avevano evitato di trasmettere la memoria del periodo resistenziale.
Pavone, invece, usò termini più sprezzanti nei confronti della trasmissione, definendo «codino, falso e maleducato» il commento del conduttore Vittorio Zucconi, ma anche più sfumati nei riguardi dei giovani, ritenendo che il qualunquismo ignorante espresso dagli studenti fosse stato selezionato e imbeccato e non rappresentasse la realtà più articolata ed estrema che egli incontrava nelle scuole, in cui la presenza di antifascisti e fascisti permaneva.[1]
Le reazioni della comunità politica furono, com’è facile intuire, contrastanti. Se Alessandra Mussolini, deputata per il MSI, chiese un 25 aprile che onorasse sia i partigiani sia i repubblichini, l’11 aprile il Presidente della Repubblica Scalfaro svolse un intervento fuori programma nella celebrazione del sacrificio di don Morosini, fucilato dai nazisti, osservando che la concordia e il rispetto per i morti di ogni parte non potevano nascere se non dal riconoscimento della verità storica e del discrimine tra dittatura e libertà.[2]
Il 21 aprile la neo-presidente della Camera Irene Pivetti (Lega Nord) nella sua prima intervista dopo l’elezione disse che, pur avendo «molte riserve sul regime fascista», non poteva non riconoscere «le cose molto positive che il Fascismo ha fatto prima dello sciaguratissimo patto con Hitler […] una legislazione sociale all’avanguardia nel mondo, le cose migliori per le donne e la famiglia le ha fatte Mussolini e dopo non è stato fatto più nulla» – una tesi paradossalmente sottoscrivibile, se si tiene a mente che la qualifica di “migliori” proveniva da una ultracattolica integralista. Lo stesso giorno sul Corriere della Sera era il deputato missino ed ex repubblichino Mirko Tremaglia a chiedere la denuncia del Trattato di Osimo e la revisione dei confini orientali dell’Italia.[3]
Un iniziale argine a questa deriva fu posto dall’imponente manifestazione popolare di Milano del 25 aprile, che vide la partecipazione stimata di trecentomila persone nella volontà di respingere tentativi di restaurazione fascista o di erosione della Carta costituzionale e dei suoi principii.
Il Presidente del Consiglio ancora in carica, Carlo Azeglio Ciampi, ufficiale durante la guerra di Liberazione, in un messaggio alle associazioni partigiane osservò: «Il 25 Aprile non è una giornata d’odio anacronistico. È la giornata della Costituzione che ha in sé, incorporativi, i principi che resero possibile la ricostruzione nazionale, dopo una sventura che fu di tutti e non di una parte sola».[4]
Infine il 10 maggio Scalfaro inviò al Presidente del Consiglio incaricato, Berlusconi, una lettera in cui richiamava il nascituro governo al rispetto dell’unità europea e della pace, della libertà e dell’unità italiane, della solidarietà sociale.[5]
L’Ulivo, Salò e i Savoia
La celebrazione del 50° della Liberazione fu incomparabilmente più ecumenica di quella del ’94, in cui a dominare era stato il timore per l’arrivo al potere del MSI.
Nei dodici mesi trascorsi, infatti, la coalizione di Berlusconi si era rotta e il suo governo era caduto. I partiti di sinistra avevano stipulato con il Partito Popolare Italiano l’alleanza dell’Ulivo e costituivano in Parlamento la maggioranza che sosteneva il Governo Dini assieme alla Lega Nord, con cui vi era un’intesa anche alle elezioni amministrative tenutesi proprio in quei giorni (23 aprile).
Il 25 aprile alla manifestazione di Milano non solo Bossi ricevette una calorosa accoglienza dai militanti di sinistra, ma parteciparono anche alti dirigenti di Forza Italia (ma non Berlusconi).
La radicalizzazione secessionista della Lega impedì l’accordo con l’Ulivo, ma questo uscì ugualmente vincitore dalle elezioni politiche del 21 aprile 1996, tanto che nell’anniversario della Liberazione Asor Rosa poté scrivere che non soltanto il verdetto elettorale aveva «completamente rovesciato quello del marzo 1994», ma che «è cominciata la fase finale del passaggio alla seconda Repubblica, quella della ricostruzione. Per questo penso che sia lecito e corretto dedicare questo 21 aprile 1996 a un ricordo non puramente nostalgico e celebrativo del 25 aprile 1945 come facemmo due anni fa a Milano. La storia ricomincia un’altra volta in questo paese».[6]
La possibilità di ricostituire, dopo gli acuti scontri degli anni precedenti, una memoria storica che recuperasse l’antifascismo quale base fondamentale di un accordo costituzionale tra sinistra e moderati, possibilità che fu tra le righe auspicata dallo stesso Scalfaro in quei giorni, fu inizialmente azzoppata dalle spaccature a destra sul tema del fascismo. Se da un lato Berlusconi criticava Fini da destra, contestandogli il mancato accordo elettorale con i neofascisti di Rauti che non avevano accettato la trasformazione del MSI in Alleanza Nazionale, dall’altro lato l’ala centrista del Polo criticava duramente il permanere nella stessa AN di un orientamento fascista: «Alleanza nazionale è la destra, non è l’area moderata. Dico di più: in periferia alcuni degli uomini di An hanno ancora un po’ di nostalgie» (Mastella). L’affermarsi nel Polo di una linea di opposizione dura guidata da Berlusconi e Fini impedì però l’accordo tra i poli sulla Presidenza del Senato che avrebbe dovuto essere il primo banco di prova della nuova unità costituzionale.
Alla Presidenza della Camera fu invece eletto Luciano Violante del PDS, che nel discorso di insediamento fece un discusso riferimento alla Repubblica di Salò: «A differenza di altri importanti paesi europei, non abbiamo ancora valori nazionali comunemente condivisi. Le due grandi vicende della storia nazionale, il Risorgimento e la Resistenza, hanno coinvolto solo una parte del paese e solo una parte delle forze politiche. […] La Resistenza e la lotta di liberazione […] non appartengono ancora alla memoria collettiva dell’Italia repubblicana. Mi chiedo […] cosa debba fare quest’Italia [antifascista] perché la lotta di liberazione dal nazifascismo diventi davvero un valore nazionale e generale, e perché si possa quindi uscire positivamente dalle lacerazioni di ieri. Mi chiedo se l’Italia di oggi […] non debba cominciare a riflettere sui vinti di ieri; non perché avessero ragione o perché bisogna sposare, per convenienze non ben decifrabili, una sorta di inaccettabile parificazione tra le parti, bensì perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà».[7]
Questo passaggio raccolse il sorpreso plauso degli ex missini e fu definito «molto bello e molto giusto» da D’Alema, ma «superficiale, senza alcun valore storico» dal presidente del PRC Cossutta, ex partigiano. Anche il senatore a vita Leo Valiani, che aveva scontato dieci anni tra confino e carcere per antifascismo in Italia e in Francia, pur condividendo lo sforzo di giudizi non faziosi parlò di «occasione sbagliata».[8]
L’anno seguente il 25 aprile giunse non sorprendentemente sfregiato da nuovi gravi attacchi.
Il clima era già molto teso per via delle vicende del processo a Erich Priebke, il capitano delle SS estradato dall’Argentina per la responsabilità nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Scarcerato per prescrizione del reato il 1° agosto 1996, era stato immediatamente riarrestato, ufficialmente per consentire l’esame di una richiesta di estradizione da parte della Germania. Un nuovo processo si era dunque aperto il 14 aprile ’97. Il 24 aprile le due targhe commemorative delle Ardeatine furono imbrattate con della vernice, mentre a destra si chiedeva di non usare la ricorrenza del 25 aprile per dividere il Paese (Gasparri di AN) o addirittura di abolirla (Baget Bozzo di FI).[9]
L’ultimo capitolo della tormentata riflessione sulla memoria negli anni Novanta sarebbe venuto pochi giorni dopo. Il 30 aprile il Presidente del Consiglio Prodi annunciò l’imminente presentazione di un ddl costituzionale governativo per consentire il rientro in Italia dei Savoia, vietato dalla XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione. La proposta giunse a sorpresa e fu accolta, nell’immediato, dall’opposizione determinata di due soli partiti, entrambi di maggioranza, ossia il PRI e il PRC. Il segretario repubblicano La Malfa fu particolarmente duro: «fa parte di quella confusa chiacchiera per la quale bisogna capire tutti: Salò, i Savoia, e altro […] i Savoia mica sono ridotti a fare la fame per strada».[10] Diversi storici progressisti (come Villari o Mack Smith) si pronunciarono favorevolmente, ritenendo un segnale di debolezza della Repubblica la continuazione dell’esilio in assenza di un reale movimento monarchico in Italia, ma che la mossa favorisse il revisionismo storico fu evidente dalle richieste contemporanee di Fini e Alessandra Mussolini per abrogare anche la XII disposizione, quella vietante la ricostituzione del partito fascista.
Nei giorni seguenti, tuttavia, si comprese che l’opposizione sarebbe stata più dura del previsto. Contribuì il tenace rifiuto di Vittorio Emanuele di scusarsi per le leggi razziali: «No! No. […] Non vedo perché dovrei fare un atto di scusa […] Io non ero neanche nato [a rigore, aveva un anno di vita] […] No… […] quelle leggi… no, non sono così terribili».[11]
Ma già durante la discussione nel Consiglio dei Ministri vi era stato, oltre a una grave freddezza di Napolitano, il parere contrario di quattro esponenti: Anna Finocchiaro e Vincenzo Visco del PDS, più Antonio Maccanico dell’Unione Democratica e Carlo Azeglio Ciampi, entrambi ex militanti del Partito d’Azione. L’opposizione, fu detto, non era di merito ma di metodo: una decisione costituzionale e per giunta di ampia portata simbolica poteva venire solo dall’elaborazione del Parlamento, tanto più che il Governo si era proclamato neutrale in materia di riforme della Carta su cui in quel periodo si stava formando la Commissione bicamerale.
Il ministro del Tesoro Ciampi, in particolare, fece valere la propria esperienza personale nel rivendicare il no al rientro dei Savoia: «il mio no risale alla mia dolorosa e drammatica vicenda di vita», ossia lo sbandamento delle Forze armate l’8 settembre 1943. «Ci fu una situazione in cui chi aveva il massimo della responsabilità come capo delle forze armate, cioè il re, non diede indicazioni precise al proprio esercito […] In quella sala [il CdM] l’altro giorno la mia età mi portava ad essere il solo ad avere nella propria carne l’esperienza di cinquantatré anni fa. Sono esperienze che non possono essere dimenticate».[12]
Il testo varato dal Consiglio dei Ministri il 9 maggio prevedeva l’abrogazione soltanto del secondo comma della XIII disposizione, mantenendo cioè per gli ex reali il divieto di elettorato attivo e passivo.[13] Il compromesso trovato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera cambiò ancora la riforma: i Savoia sarebbero tornati con pieni diritti politici, ma invece di abrogare il testo del 1948 se ne sarebbe neutralizzata l’efficacia tramite l’aggiunta di un ulteriore comma: «I primi due commi della presente disposizione esauriscono i loro effetti a decorrere dal 1° gennaio 1998». In questo modo la Costituzione avrebbe mantenuto indelebile il dato storico della condanna della monarchia pur facendone cessare gli effetti pratici sulle persone.
Il testo fu approvato dalla Camera l’11 dicembre, ma la sua storia si fermò lì. Un emendamento, firmato da 95 deputati di centrosinistra, che avrebbe condizionato il rientro dei Savoia a un giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla Costituzione fu bocciato ma raccolse comunque 137 sì. Il voto finale contò 276 sì al rientro, su 485 presenti.[14] Tra i contrari non solo PRI e PRC, ma anche la Lega Nord, i Socialisti Italiani, la Federazione Laburista, il Movimento dei Comunisti Unitari, larga parte del PDS (non soltanto la sinistra interna) e verosimilmente anche alcuni deputati del PPI. Nilde Iotti, l’unica veterana della Costituente rimasta a Montecitorio, non dichiarò il proprio voto ma fece intendere che era stato un no.[15]
Non ripreso in esame dal Senato, il ddl presentato da Prodi con tanta enfasi si arenò. Non così l’intenzione del centrosinistra. Dopo la morte di Maria José il 27 gennaio 2001 la questione tornò di attualità. Ciampi, eletto nel ’99 Presidente della Repubblica, inviò una lettera di cordoglio a Vittorio Emanuele il quale rispose definendolo «il mio Presidente» e dicendosi disponibile non ad un giuramento formale ma al riconoscimento della Costituzione. Pochi giorni dopo, a legislatura ormai in scadenza e con la campagna elettorale in avvio, il capo del governo Giuliano Amato chiese al Consiglio di Stato di esprimersi sulla possibilità che, con la morte dell’ultimo re nel 1983, la formula «Casa Savoia» contenuta nella Costituzione avesse automaticamente perso di efficacia. Il parere fu negativo e la questione fu rimandata al Parlamento venturo.[16]
Quale tipo di memoria è, dunque, quella degli anni Novanta? L’aggettivo più appropriato è forse «minacciata».
Quel decennio visse in pochi anni il crollo di due sistemi che erano emersi dalla vittoria sul fascismo e che nella vittoria sul fascismo avevano trovato la propria legittimazione: il sistema partitico italiano e il sistema bipolare nato a Jalta. L’una e l’altra rovina avevano condotto al tentativo di processare non solo il comunismo sovietico ma anche quello italiano e con esso la Resistenza. Si visse quindi il più forte attacco del dopoguerra apportato non a un determinato partito o a un’ideologia politica, ma alla Resistenza in quanto tale. La novità, però, fu la disponibilità di settori della sinistra a farsi coinvolgere – spesso per ingenuità, talvolta per una sottovalutazione dei rischi – in un tentativo di costruzione di una memoria che, dietro l’aggettivo pubblicitario “condivisa”, si voleva in realtà banalmente equiparata.
La memoria degli anni Novanta è quindi una memoria sotto attacco, talvolta indebolita dal proprio interno e quasi, come nel caso di Montanari, auto-accusatoria.
[Continua nei prossimi giorni]
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http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed001/sintero.pdf ↑
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L. Valiani, L’occasione sbagliata, Corriere della Sera, 12 maggio 1996. ↑
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G. La Malfa, in Corriere della Sera, 1° maggio 1997. ↑
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/05/04/il-re-ci-lascio-soli-non-lo.html ↑
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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1997/05/10/savoia-si-ma-senza-diritti-politici.html ↑
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http://leg13.camera.it/_dati/leg13/lavori/stenografici/sed284/sintero.pdf ↑
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Il «sì» ai Savoia ha spaccato la maggioranza, Corriere della Sera, 12 dicembre 1997 ↑
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Savoia, fallisce la scorciatoia per il rientro, Corriere della Sera, 26 febbraio 2001 ↑
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.