Secondo il prof. De Luna, la memoria della Resistenza negli anni Settanta è stata «una memoria militante».
Per comprendere le ragioni di questo aggettivo è utile risalire al momento di cerniera tra quel decennio e quello precedente.
Dal centro-sinistra all’autunno caldo
Come lo snodo tra gli anni ’50 e i ’60 era stato costituito dalla turbolenta vicenda del Governo Tambroni, così anche il passaggio tra i ’60 e i ’70 ruota attorno a un evento fondamentale e anch’esso tragico, ossia la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Al tempo stesso, come la dimensione progettuale degli anni Sessanta derivava dalla lotta per l’attuazione costituzionale già iniziata nel decennio addietro, così sono gli scontri di quegli anni a detonare poi nel decennio successivo.
Da un lato, la messa fuori gioco del MSI come possibile attore di governo nel luglio 1960 non aveva certo significato la sua esclusione dalla vita politica. Non solo le richieste di scioglimento del partito, avanzate in quel periodo soprattutto da Ferruccio Parri, caddero nel vuoto, ma esso continuò anzi a rappresentare un appiglio per la DC, o meglio per i suoi settori più conservatori. Nel maggio 1962 Segni fu eletto al Quirinale con i voti determinanti di monarchici e fascisti, nel chiaro intento di una garanzia contro il centro-sinistra, in contrapposizione a Saragat che rappresentava all’epoca invece l’apertura alla nuova formula governativa; a ottobre 1963 il MSI conservò il proprio seggio di elezione parlamentare nel Consiglio superiore della magistratura. Né si deve pensare che la resa del PSI nella drammatica crisi di governo dell’estate 1964 avesse soddisfatto i desiderata degli ambienti fascisti e filo-fascisti.
Già per il ventennale della Resistenza si era segnalata anzi un’atmosfera di scontro: picchiatori fascisti avevano impedito con la violenza un seminario di Parri sull’antifascismo organizzato dall’Istituto di storia moderna e le celebrazioni erano state vietate dal rettore dell’Università “La Sapienza”.[1] Nel frattempo il Corriere della Sera lanciava un preoccupato allarme: «Ancora oggi la libertà e la democrazia sono gravemente minacciate dal comunismo […] Assistiamo, e questa è l’attualità più scottante, a un nuovo e più violento attacco del Pci allo Stato e alla società […] L’attacco si manifesta anche mediante l’insidia del “dialogo”, allo scopo di irretire certi cattolici ingenui o in malafede […] Il governo si rende conto della gravità e della pericolosità dell’attacco comunista?»[2].
Dall’altro lato, l’aumento della tensione politica derivava da una radicalizzazione anche di frange della sinistra. La stessa fondazione del PSIUP aveva prodotto uno spazio per lo sviluppo di idee operaiste ed eterodosse che non sarebbe stato consentito dal centralismo democratico del PCI (proprio nel 1969 vi fu la radiazione per frazionismo del gruppo del “manifesto”) né avrebbe avuto sbocchi nel PSI socialdemocratizzato. Ma vi erano fenomeni anche più profondi.
Se la caduta di Tambroni era stata un’innegabile sconfitta per il blocco di destra, essa aveva però lasciato una delusione profonda anche a sinistra. Per alcuni ex partigiani, specialmente nelle zone in cui si era avuto un dopoguerra particolarmente strascicato e sanguinoso (Milano e alcune zone dell’Emilia), i fatti di luglio 1960 avevano dimostrato una volta per sempre che il PCI aveva tradito la causa rivoluzionaria. Esso, infatti, invece di usare la mobilitazione popolare per creare una situazione di carattere rivoluzionario aveva operato affinché la crisi della maggioranza DC-MSI si consumasse in Parlamento e nel Parlamento si costituisse una nuova maggioranza sempre imperniata sul predominio della DC – e, come sarebbe emerso successivamente, sul potere di veto affidato alla sua parte conservatrice in collegamento con gli ambienti meno repubblicani delle Forze armate. Proprio nel 1960 del resto il PCI aveva reso chiaro, a giudizio di questi settori, il proprio voltafaccia: al IX Congresso del partito Togliatti aveva dichiarato: «Noi siamo rivoluzionari, e la piattaforma che noi presentiamo di attuazione delle riforme è prevista dalla nostra Costituzione e necessaria per risolvere i mali della società italiana. È questo il modo concreto con cui noi oggi siamo rivoluzionari»[3], proprio mentre dal nuovo Comitato centrale restava escluso il deputato Giuseppe Alberganti, per molti anni a capo del movimento operaio milanese sulle posizioni filo-staliniane di Pietro Secchia.
L’onda del movimento operaio sembrò tornare a sollevarsi nel 1969: le ore di sciopero segnarono un totale che superò di gran lunga quelle, già record, del 1962 mentre al tempo stesso si ricostituiva dopo oltre vent’anni l’unità sindacale tra CGIL, CISL e UIL. Il movimento dal basso si saldava cioè con quello istituzionale, e i fermenti di contestazione trovavano un canale istituzionale nell’azione di tutti i sindacati di massa.
La presenza all’epoca di un governo di centro-sinistra organico (Rumor I) forniva al tempo stesso un’occasione alla sinistra del PSI per riprendere quella capacità di azione perduta cinque anni prima e un motivo di allarme per i settori reazionari che guardavano con terrore ai movimenti in atto nel Paese. A luglio l’estremo tentativo di Nenni di mantenere l’unità con i socialdemocratici fu sconfitto dal voto contrario, al Comitato centrale del Partito socialista unificato, del gruppo De Martino-Mancini-Giolitti-Viglianesi. Ne conseguì la nuova scissione socialdemocratica (col nome di Partito Socialista Unitario) e l’immediata caduta del ministero Rumor. L’obiettivo, chiarissimo, era la volontà tenace di stroncare la spinta operaia per le riforme: il discorso di Berlinguer a Milano in quei giorni fu significativamente pubblicato col titolo «Unità vigilanza lotta» e definiva chiaramente i socialdemocratici «una forza estranea alla causa del socialismo e della democrazia», alle cui spalle stavano «non solo parti importanti della borghesia italiana, ma forze imperialistiche straniere».[4]
Il peso dei militari tornò a farsi sentire nel corso della crisi, nella quale il PSU premette per un monocolore DC così da riaffermare uno schema di blocco a destra del tipo Tambroni o, più verosimilmente, da provocare lo scioglimento delle Camere per favorire l’instabilità e quindi soluzioni autoritarie. Il pericolo fu tale che il PCI si spinse a promettere «una valutazione critica obiettiva»[5] ad un nuovo governo di centro-sinistra, mentre dall’altro lato, ammoniva di «non imboccare la strada del luglio ’60».[6]
Il secondo governo Rumor si costituì come un monocolore con l’appoggio esterno del PSU ma anche del PSI, che in questa fase riuscì a resistere grazie, soprattutto, a una situazione sociale incomparabilmente più avanzata di quella del 1964 o del 1960. Fu su questa situazione che si abbatté, a dicembre, la strage di piazza Fontana che segnò l’inizio degli anni di piombo.
Piazza Fontana
Piazza Fontana giunse al culmine di una stagione di forte conflittualità operaia e già connotata da scontri di piazza e cariche poliziesche, tra cui, il 19 novembre, quella di Milano che costò la vita al poliziotto Annarumma, a causa di un’apparentemente deliberata scelta delle strutture di P.S. di provocare alcuni cortei per generarne una guerriglia urbana. Già la sera gli ufficiali superiori segnalarono una situazione difficile in alcune caserme, con molti poliziotti che chiedevano rappresaglie punitive contro i movimenti; al funerale di Annarumma il leader studentesco Mario Capanna fu a stento salvato dal linciaggio per mano di poliziotti e neofascisti.
Ma la bomba della Banca dell’Agricoltura segnò, nelle parole di Adriano Sofri, «la perdita dell’innocenza»: si capì cioè che il piano dello scontro era stato gravemente inclinato e che il futuro sarebbe stato, appunto, di piombo.
La natura fascista della strage fu immediatamente compresa dalle sinistre. Il comunicato emesso in serata dalla Direzione nazionale del PCI ravvisava chiaramente l’intento di «provocare nel paese un clima politico di allarme, di confusione e di esasperazione per favorire propositi ed iniziative reazionarie e avventuristiche, per colpire le conquiste che i lavoratori stanno realizzando», una lettura condivisa anche dalle confederazioni sindacali e dalla sinistra DC.[7] Mentre da destra e dai socialdemocratici si invocavano variamente lo scioglimento delle Camere, l’esclusione del PSI dalla maggioranza, l’intervento dei militari o la repubblica presidenziale, già il 14 dicembre l’Unità titolò «L’Italia della Resistenza andrà avanti».
Il presidente del Consiglio Rumor comprese rapidamente il pericolo e in un’intervista apparsa su La Stampa il 27 dicembre dichiarò: «Bisogna fare il centro-sinistra al più presto. Non dico domani, ma nel giro di poche settimane», cercando quindi la sponda governativa del PSI per isolare le destre (dentro e fuori lo Scudo crociato) ed evitare le elezioni anticipate – obiettivo, quest’ultimo, condiviso anche da PSIUP e PCI. Il fronte anti-elezioni vinse quella battaglia nell’inverno ’69-’70, ma solo al termine di un durissimo braccio di ferro. Dopo il sì del PSI all’ingresso in un nuovo esecutivo, il governo si dimise il 7 febbraio. Il terzo governo Rumor giurò soltanto il 27 marzo, dopo quarantotto giorni di crisi (un record) e quattro diversi incarichi (Rumor, Moro, Fanfani, Rumor).
Come già nel ’64, si cercò di limitare il più possibile l’influenza socialista: in questo caso, per evitare le urne, Nenni e il PSI dovettero rinunciare al ministero degli Esteri per il magro compenso della nomina di un esponente della sinistra DC al ministero senza portafoglio per l’attuazione delle Regioni.
Per coincidenza, nel giorno della nascita del governo morì Alcide Cervi, il padre dei sette fratelli fucilati dai fascisti il 28 dicembre 1943. Il suo ricordo fu l’occasione per una riflessione sulla Resistenza che già stava vedendo l’emergere pubblicamente di una lettura preoccupante per la sinistra istituzionale.
L’Unità ospitò, oltre al telegramma di Longo, che condensava la lettura politica della memoria resistenziale («Come comunisti e come combattenti della Resistenza raccogliamo con orgoglio questa eredità luminosa impegnandoci a farla vivere giorno per giorno nella nostra lotta per andare avanti sulla via della democrazia»), un editoriale di Maurizio Ferrara – «La lezione dei Cervi» – che mirava a difendere il campo del partigianato dalle incursioni di una memoria di tipo diverso, sempre più alternativa a quella del PCI, ossia quella dell’estrema sinistra.
Ravvisando come il trascorrere del tempo di per sé avesse «talora offuscato tra i giovani, e non soltanto tra i giovani, il ricordo della Resistenza», Ferrara evidenziò due pericoli aggiuntivi: da un lato certamente l’offensiva denigratoria della destra; dall’altro, però, «con tutt’altre intenzioni, una recente pubblicistica tenta un altro processo alla Resistenza, come rivoluzione mancata o tradita», processo che Ferrara respinse appellandosi a considerazioni di Gramsci e di Lenin riguardo le trasformazioni democratiche non socialiste.
Il tema venne ripreso il 25 aprile 1970 da Amendola, che pur rifiutando nettamente la formula «Resistenza tradita» la riconobbe certamente come incompiuta, fatto che non poteva «essere motivo di contestazione e nemmeno di sorpresa per chi fin dall’inizio della lotta ne comprese il carattere di grande processo rinnovatore della società italiana, destinato a non esaurirsi nella cacciata degli invasori tedeschi o nella restaurazione dei vecchi istituti della democrazia prefascista». Rispetto al 1945, Amendola rivendicò i passi avanti fatti su quella strada, ma, al tempo stesso, ne mise implicitamente in luce la lentezza e la fatica quando osservò che l’incontro tra comunisti, socialisti e cattolici che si stava realizzando nelle lotte sociali era la continuazione del patto resistenziale e del crollo di «antichi e storici steccati che né le grossolane crociate anticomuniste degli anni ’50 né le più sottili discriminazioni degli anni ’60 hanno potuto rialzare».
Il 25° della Liberazione non fu infatti indolore per il PCI. A Milano, la capitale della Resistenza in Alta Italia, il partito diffidò espressamente i propri militanti dall’aderire al corteo del Movimento studentesco, tra i cui oratori di punta figurò, in una clamorosa rottura, proprio l’ex segretario Alberganti.
D’altro canto i toni di Amendola risultavano troppo simili a quelli di Saragat. Nel messaggio ufficiale il capo dello Stato ammise che il progresso sociale non aveva tenuto il passo di quello industriale, invece cospicuo, e riconobbe perfino le ragioni della contestazione giovanile, tanto studentesca quanto operaia. Egli insisté tuttavia che le lentezze nell’attuazione della Costituzione non potevano sminuire i passi avanti effettivamente compiuti, pur consapevole che «queste mie parole non saranno forse accolte facilmente dalla generazione che non è stata testimone della Resistenza». Ad essa, e non soltanto ad essa, si rivolse però in un monito conclusivo che includeva tra i taciti destinatari lo stesso PCI o perlomeno una sua parte: «sarebbero in errore coloro che, dimenticando quel che c’era nel fondo delle loro coscienze nel giorno del sacrificio, della lotta e della vittoria, ritenessero che gli ideali della Resistenza possono realizzarsi fuori o contro i principii di democrazia della Costituzione repubblicana».[8] Nello stesso giorno, del resto, alcuni militanti comunisti avevano disatteso le indicazioni ufficiali e preso parte al corteo milanese del Movimento studentesco.[9]
All’antica divisione del campo resistenziale data dalla sovrapposizione parziale tra antifascismo e anticomunismo veniva quindi ad aggiungersene un’altra, originata stavolta a sinistra dall’emersione di voci di insoddisfazione e scontento nei confronti del PCI, scontento covato per anni in alcuni ambienti della Resistenza stessa.
L’attacco fascista alle istituzioni
La lieve crescita del PCI alle prime elezioni regionali, l’8 e 9 giugno 1970, assieme alla mancata avanzata della destra e dell’asse DC-PSU, accentuò la tensione politica nel Paese. Il governo si dimise improvvisamente un mese dopo, il 7 luglio, proprio nel giorno di uno sciopero generale unitario.
Durante la crisi, per la quale vi erano state probabilmente pressioni di alto rango (oltre alle Regioni ormai istituite, a maggio era stato approvato lo Statuto dei Lavoratori, mentre era in discussione al Parlamento la legge sul divorzio), l’elezione di un comunista alla Presidenza del Consiglio regionale toscano preannunciò l’accordo tra PCI e PSI per giunte di sinistra nelle Regioni “rosse”. La richiesta dei socialdemocratici che il PSI rompesse gli accordi a sinistra nelle Regioni, pena lo scioglimento delle Camere, rientrò quando il nuovo governo guidato da Emilio Colombo nacque sulla base di un memorandum comune che ribadiva la pregiudiziale contro il PCI, col quale si rilevava una «inconciliabilità, per ragioni ideologiche e politiche» e perché le sue posizioni, «in particolare sui temi dell’autonomia e della democrazia, segnano una linea di demarcazione con i partiti della coalizione».[10]
Nel marzo 1971, allorché il ministro dell’Interno Restivo è costretto ad ammettere il tentato golpe Borghese nella notte dell’8 dicembre ’70 (il 1° dicembre la Camera aveva approvato in via definitiva l’introduzione del divorzio) fu sempre Amendola, a nome di tutta la Direzione del PCI, a chiarire il legame profondo che il partito manteneva con la resistenza, intesa non solo come movimento storico della guerra di liberazione, ma come mobilitazione antifascista di massa. Accanto a questo, come già in precedenza, veniva ribadito l’orientamento decisamente riformatore. Se infatti da un lato Amendola ammoniva che «L’Italia di oggi non è quella del 1922. Vi sono oggi in Italia le forze sufficienti e la capacità politica per assicurare al movimento democratico le condizioni di sicurezza democratica di un suo nuovo e più rapido sviluppo», dall’altro lato a non «registrare fatalisticamente» le ostilità dei ceti alti e ad usare l’azione politica per comporre larghe alleanze sociali a sostegno delle riforme.[11]
Il giorno seguente, aprendo il congresso nazionale dell’ANPI, il presidente Boldrini cercò invece di coinvolgere in quel percorso l’ala più disillusa, riconoscendo l’esistenza di «una profonda delusione della esperienza democratica, per i contenuti della società nazionale, per i ritardi nell’affrontare i problemi».[12] Questa ala disillusa veniva identificata sempre più non con gli ex partigiani, ma con i giovani nati nel dopoguerra, ai quali si rivolgeva anche il concomitante congresso nazionale della FGCI. Gli oratori del PCI – ad esempio l’ex segretario della CGIL Novella, ricordando gli scioperi del marzo 1943 – intensificarono i riferimenti al luglio 1960, che, per molti inizio della disillusione sulle potenzialità rivoluzionarie del partito, si cercò di usare proprio come dimostrazione della base militante del PCI.
Queste scelte derivavano dall’urgenza di contenere una fuoruscita giovanile a sinistra, in direzione di uno scontro politico violento: proprio nel ’71, infatti, indagini interne al PCI appurarono che in federazioni importanti quali Milano e Reggio Emilia alcuni militanti e talvolta intere sezioni avevano iniziato ad ammassare armi all’insaputa della dirigenza.[13] Con l’appello contro il fatalismo – che in parte riproduceva quello cominternista della “lotta per la pace” a metà degli anni Trenta – Amendola e il PCI avevano infatti inteso colpire l’orientamento opposto: specialmente in alcuni settori provenienti dalla Resistenza si faceva strada l’idea che il colpo di Stato fosse inevitabile e che dunque bisognasse farsi trovare più che mai preparati.[14]
Del resto la necessità di una reazione armata allo squadrismo e al fascismo emergeva anche nelle considerazioni di importantissimi dirigenti anziani, come Luigi Longo («reagire con iniziative adeguate del tipo di quelle della Resistenza in forme nuove che servono talora più del solito sciopero», «un’organizzazione scientifico-militare, enucleata in unità piccole che possano muovere rapidamente e agire») o Umberto Terracini («una giornata di battaglia, dando l’indicazione di mettere a posto i fascisti luogo per luogo, i fascisti e le loro sedi», «grande colpo di scopa che devono dare le masse popolari»).[15]
Al termine del 1971 vi fu una significativa vittoria politica per il fronte di destra. L’elezione del Presidente della Repubblica si protrasse per ventitré scrutini, con un comportamento significativamente diverso dei due fronti in campo. Lo schieramento di sinistra (PCI, PSI, PSIUP, Sinistra indipendente) confermò per ventuno votazioni la candidatura di De Martino, mentre la DC sceglieva di non partecipare al voto dopo aver fallito più volte l’elezione di Fanfani. All’astensione si associavano anche i partiti centristi e quelli di destra, dopo il ritiro delle candidature di bandiera di De Marsanich (MSI-PDIUM), Malagodi (PLI) e Saragat (PSDI), quest’ultimo forse realmente tentato dalla rielezione.
La svolta si ebbe con l’ultimo scrutinio, quando i quattro partiti centristi trovarono l’accordo con fascisti e monarchici per l’elezione di Giovanni Leone. Questo patto, taciuto per la vergogna e che si riteneva sarebbe stato di dominio pubblico solo a cose fatte, si infranse sul quorum il 23 dicembre, quando Leone ottenne 503 voti invece dei 504 richiesti. Nonostante i partiti di centro, nominalmente antifascisti, fossero stati colti «con le mani nel sacco», come giustamente indicato da l’Unità, essi insistettero su Leone una seconda volta e con la medesima maggioranza, riuscendo ad eleggerlo in una prova di forza nella giornata del 24 dicembre. Le sinistre avevano invece sostituito De Martino con Nenni nella speranza di pescare nel bacino repubblicano e socialdemocratico.
Le conseguenze politiche furono immediate: la coalizione di centro-sinistra si spaccò in due, con la sinistra DC e il PSI sdegnati dall’accordo su Leone, mentre la responsabilità di far cadere il governo fu assunta dal PRI che con La Malfa protestò per l’eccessivo aumento della spesa pubblica. Nel corso della crisi si intensificarono le aggressioni fasciste, mentre il PCI abbracciò la linea delle elezioni anticipate se non fosse stato possibile ottenere un governo di rinnovamento. Il tentativo di Andreotti di costituire un monocolore DC con l’appoggio esterno del solo PLI, formando cioè il primo governo di centro-destra dai tempi di Tambroni, non ebbe la maggioranza in Parlamento e provocò il ricorso alle urne.
Le elezioni politiche del 1972 videro il PCI stabile (+0,2%) ma una diminuzione netta del blocco PCI-PSIUP (-2,3%), con quest’ultimo che restò escluso dal Parlamento e, soprattutto, il record di consensi per il MSI-DN, che aumentò del 2,9% sull’aggregato MSI-PDIUM del 1968.
La campagna elettorale fu costellata di incidenti e scontri violenti, con la crescente militarizzazione delle manifestazioni di piazza, specie nella sinistra extraparlamentare.[16]
Dopo le elezioni Andreotti formò il suo secondo governo, modellato su una maggioranza centrista degasperiana, che fu poi avvicendato da un esecutivo Rumor di centro-sinistra dopo che il congresso della DC, a giugno 1973, si fu pronunciato in tal senso.
In questi anni il ricordo resistenziale da parte del PCI restò costantemente immerso nell’attualità politica. Il 25 aprile 1972 il tema fu ovviamente quello della campagna elettorale in corso, con ancora Amendola che si incaricò di riconoscere la difficile situazione giovanile («i giovani […] hanno stentato a comprendere l’importanza dei risultati ottenuti dalla lotta antifascista e dalla guerra partigiana»), scagliandosi contro le celebrazioni resistenziali meramente nostalgiche o “imbalsamate” e additando il nemico negli ex fascisti che condizionavano verso destra la politica della DC («Se il fascismo butta alle ortiche la camicia nera e nasconde i suoi gagliardetti, se si presenta travestito, col cinismo del vecchio guitto di mestiere, con la camicia bianca, per indossare l’abito del conservatore moderato; se ricerca l’accordo e la protezione dei gruppi conservatori annidati nella direzione della DC, vuol dire che esso riconosce quanto i segni del regime fascista siano disprezzati ed odiati dal popolo italiano»).[17]
Nel 1973, invece, fu Luigi Longo – avvicendato l’anno precedente da Berlinguer alla segreteria del partito – a fornire un’indicazione che, stante il risultato preoccupante delle elezioni politiche, il ritorno dopo quindici anni a un governo centrista e l’aumento delle violenze fasciste nel Paese, fu necessariamente più combattiva: l’ex capo partigiano riassunse certamente il collegamento tra Resistenza, Costituzione e sviluppo del Paese, ma notando come questo collegamento fosse disconosciuto dalle forze di governo, sedicenti moderate ma oggettive favoreggiatrici del fascismo, concluse con un ammonimento: «Il Partito comunista italiano che durante e dopo la guerra di Liberazione ha dimostrato con i fatti di avere profonda coscienza delle responsabilità nazionali che gli provengono dalla sua grande forza, è pronto a fare quanto è necessario per dare subito l’avvio ad un effettivo mutamento di indirizzo nella direzione del Paese, in modo da garantire nuove conquiste e nuove avanzate nella lotta delle masse lavoratrici».[18]
L’evidenza delle tensioni e dei pericoli in atto si mostrò anche nella pubblicazione o ri-pubblicazione di manuali di resistenza armata e di clandestinità, stilati nel periodo fascista o resistenziale e che si riteneva avrebbero potuto tornare utili in tempi brevi per i militanti di sinistra. Già nel 1969 Feltrinelli aveva pubblicato, con prefazione di Pietro Secchia, La guerriglia in Italia, una raccolta di documenti della Resistenza che descrivevano le tecniche di guerra partigiana. Nell’aprile 1973 fu la casa editrice Napoleone, considerata vicina al PCI, a ripubblicare (con prefazione di Ferruccio Parri) il Manuale per il sabotaggio, riproduzione di un libretto prodotto nel ’43 dai partigiani romani con istruzioni per sabotare l’industria, le linee ferroviarie e la vita urbana.[19]
Un importante mutamento di questa rotta, che andava nella direzione di una crescente conflittualità tra il PCI e le forze di centro, fu apportato da Berlinguer che, un mese dopo il colpo di Stato in Cile dell’11 settembre 1973, propose il «compromesso storico» proprio richiamandosi alla Resistenza, all’elaborazione di Togliatti al momento della svolta di Salerno, e a quella «unità che si estendeva dal proletario, dai contadini, da vasti strati della piccola borghesia fino a gruppi della media borghesia progressiva, a gran parte del movimento cattolico di massa e anche a formazioni e quadri delle forze armate» e che aveva permesso la Liberazione.
Respingendo ancora una volta la teoria dell’inevitabilità del golpe in Italia, Berlinguer affermò: «È vero che neppure l’attuazione coerente di questa linea da parte dell’avanguardia rivoluzionaria esclude l’attacco reazionario aperto. Ma chi può contestare che essa lo rende più difficile e crea comunque le condizioni più favorevoli per respingerlo e stroncarlo sul nascere?».
Alla mobilitazione popolare nel quadro di una vasta unità sociale Berlinguer attribuì non solo la vittoria della Resistenza, ma anche il fallimento della legge truffa nel ’53, la sconfitta del governo Tambroni nel ’60, l’impedimento delle manovre golpiste nel ’64 e della soluzione autoritaria dopo piazza Fontana nel ’69.
Questa linea fu immediatamente osteggiata dal referendum sul divorzio con il quale si cercò di raggiungere due obiettivi: da un lato, la divisione dei lavoratori e dei sindacati tra cattolici e laici; dall’altro, la creazione ancora una volta di un blocco maggioritario di destra clerico-fascista. Il 25 aprile 1974, a diciassette giorni dal voto, fu il Presidente dell’ANPI in persona a legittimare invece la linea di Berlinguer, rivendicando come conquista della Resistenza «il dialogo, la convivenza civile, l’unità popolare» e apprezzando implicitamente «la svolta conciliare» della Chiesa.[20]
Dopo il 1974
La vittoria del No al referendum sul divorzio mostrò che gli italiani, e tra essi anche alcuni conservatori, non sarebbero più stati disposti a vivere sotto un regime fascista di tipo tradizionale. Per questo motivo il 1974 è l’ultimo anno in cui il fascismo cercò di tornare al potere in modo appunto tradizionale, tramite atti golpisti e attentati dinamitardi. Ad ottobre si ebbe l’arresto eccellente del generale Vito Miceli, dietro l’accusa di cospirazione contro lo Stato, mentre il ministro della Difesa Andreotti, che aveva trasmesso alla magistratura i documenti necessari per le indagini, azzerò gli incarichi nei servizi segreti per gli ufficiali sospettati di tentazioni golpiste.
Il mese precedente il fallimento in Portogallo di un tentativo fascista di tornare al potere dopo la Rivoluzione dei garofani di aprile aveva segnato un ulteriore allarme per il timore della penetrazione comunista in Europa occidentale. Il contraccolpo in Italia fu il nuovo tentativo del PSDI di portare ad elezioni anticipate nell’intento di forzare ancora una svolta a destra.
Il 30° della Liberazione fu ricordato dal PCI, ancora una volta impegnato in una campagna elettorale – regionali e amministrative – con accenti unitari e moderati molto diversi da quelli degli anni precedenti. In un appello diffuso il 25 aprile esso invitava infatti: «Per camminare sulla strada aperta dalla Resistenza, bisogna oggi sconfiggere ogni tentativo di spostare a destra la situazione politica del Paese, sventare ogni spinta alla contrapposizione, allo scontro frontale e alla rissa tra le forze democratiche, lavorare per convergenze e intese fra tutte le forze democratiche e antifasciste».[21]
La forte affermazione del PCI alle amministrative del 1975 – una crescita di 6 punti rispetto al 1970, con soli 2 punti di distacco dalla DC – provocò l’affermazione di una linea di sinistra anche nel PSI e il suo successivo ritiro dalla maggioranza, con la convocazione di elezioni anticipate per il giugno 1976.
Il risultato del ’76 segnò il picco storico del PCI, non solo in senso numerico ma anche quanto alla sua influenza politica. Nei due anni che seguirono esso entrò per la prima e unica volta nell’area di maggioranza, seppure in una forma estremamente depotenziata (appoggio esterno a un monocolore guidato dall’odiato Andreotti) e con un’influenza politica che si rivelò limitata e insufficiente per il programma di trasformazione attorno a cui il PCI aveva riunito un consenso assai esteso, dalla classe operaia tradizionale alla media borghesia progressista.
Berlinguer, proprio mentre si distaccava sempre più dal socialismo sovietico, tramite l’eurocomunismo ne riproponeva, se non certamente modalità e tecniche, alcuni principi fondanti, ad esempio invocando di orientare la politica di austerità nella direzione della lotta contro «lo spreco, lo sperpero, l’esaltazione dei particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato»[22], senza analizzare (almeno ufficialmente) la contraddizione tra questi intenti e una società che con la conferma del divorzio aveva dimostrato, nelle parole di Pasolini, che i ceti medi avevano abbracciato i nuovi valori dell’edonismo e del consumismo e che tutto il Paese andava verso «una completa borghesizzazione […] modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante».[23]
L’omicidio di Moro e il rovesciamento interno al PSI con l’emergere della leadership anticomunista di Craxi contribuirono a portare il PCI a riconoscere l’inadeguatezza di una solidarietà nazionale che pure aveva ottenuto progressi importanti come la legalizzazione dell’aborto e l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.
Nell’ultimo 25 aprile del decennio, esaurita la stagione del compromesso storico e in attesa di nuove elezioni politiche, l’anziano Luigi Longo fu costretto ad ammettere che «Soltanto una minoranza di italiani conserva ancora diretta memoria degli avvenimenti che trentaquattro anni fa aprirono una fase storica nuova nella vita del nostro Paese».[24]
[Continua nei prossimi giorni]
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G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi 2009, p. 12. ↑
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G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Laterza 2003, p. 101. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1960/02/05/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1969/07/07/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1969/07/27/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1969/08/01/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1969/12/13/issue_full.pdf ↑
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G. Saragat, Per il XXV anniversario della Liberazione, 25 aprile 1970, in https://archivio.quirinale.it/aspr/discorsi/search/result ↑
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Corriere Milanese, in Corriere della Sera, 26 aprile 1970, p. 8. ↑
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https://avanti.senato.it/avanti/js/pdfjs-dist/web/viewer.html?file=/avanti/files/reader.php?f%3DAvanti%201896-1993%20PDF_OUT/15.%20Avanti%20Ed.%20Nazionale%201969-1976%20OCR/Ocr%20-D-/D-%20dal%201969%20-02%20Gennaio%20pag.%2001%20al%201972%20-02%20Luglio%20pag.%2014/CFI0422392_19700805.74-173_0001_d.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1971/03/18/issue_full.pdf ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1971/03/19/issue_full.pdf ↑
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G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi 2009, p. 198. ↑
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G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Laterza 2003, p. 486. ↑
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G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Laterza 2003, pp. 392-3. ↑
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G. Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Laterza 2003, pp. 393. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1972/04/25/issue_full.pdf ↑
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G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi 2009, p. 263. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1975/04/25/issue_full.pdf ↑
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P.P. Pasolini, «Gli italiani non sono più quelli», Corriere della Sera, 10 giugno 1974. ↑
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https://archivio.unita.news/assets/derived/1979/04/25/issue_full.pdf ↑
Immagine da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.