Il 25 aprile, nel corso del «corteo web» organizzato da repubblica.it per il 75° della Liberazione, il professor Giovanni De Luna ha espresso un concetto assolutamente non peregrino anche se forse poco indagato, ossia la diversità evolutiva tra la memoria partigiana e il ricordo autocelebrativo dei fascisti sconfitti.
«Il rilievo storiografico maggiore delle testimonianze che avete raccolto è proprio in questa direzione, che è quella di testimoniare di una memoria viva, di una memoria inquieta, di una memoria che si interroga su se stessa, di una memoria complicata; questo confronto tra le memorie forse è una cosa su cui riflettere, perché la memoria dei reduci di Salò non è così: è una memoria monumentale, una memoria ossificata, una memoria congelata nel tempo – “onore e fedeltà al camerata tedesco”, questi sono i princìpi su cui quella memoria si è organizzata. Quando gli dici che “onore e fedeltà al camerata tedesco” voleva dire la complicità con la Shoah, voleva dire apprestare tutta la dimensione logistica della deportazione – “ah, sì, ma noi non lo sapevamo”.»[1]
La memoria della Resistenza, cioè, si evolve dinamicamente assieme al dipanarsi della storia della Repubblica, laddove la tradizione – non posso chiamarla “memoria”, perché è fondata su una menzogna – fascista resta invece fossilizzata alle parole d’ordine del 1943-45.
De Luna, per far intendere agli spettatori questa differenza, ha fatto anche una brevissima – necessariamente – scansione dei vari decenni, arrestandosi agli anni Ottanta.
Poiché quest’anno abbiamo festeggiato un anniversario “tondo” – 75 anni – e al contempo entriamo in un nuovo decennio mi sembra utile riflettere su questa evoluzione passata per poi provare a domandarci verso quale memoria stiamo andando.
Anni 1940
La memoria propriamente detta si riferisce ad un evento che non viene vissuto nel presente, ma che è stato, in passato, vissuto. Proprio per questo motivo la memoria – in senso lato, non soltanto quella del 1945 – è stata tanto più in pericolo negli ultimi anni quanto più la società puntinista si delinea non come un insieme unitario esteso nel tempo ma come una sequenza di fotogrammi adiacenti l’uno all’altro ma fuori dal tempo, nell’ignoranza cioè del precedente (il passato) e del successivo (il futuro).
Anche per questo motivo non credo che negli anni Quaranta si possa parlare fino in fondo di “memoria” della Resistenza, in quanto quel conflitto, quella spinta, si mantenevano molto vivi nelle necessità della Ricostruzione economica e politica e della Costituente.
Questo ci viene mostrato dallo stesso proseguire di fatti di sangue dopo l’aprile 1945, ma, per altro verso, anche dalla continuità operativa dei Comitati di Liberazione Nazionale fino al 1946, dal confermarsi dei governi di unità antifascista fino a maggio 1947, della votazione unitaria sulla Costituzione a dicembre 1947 e del permanere di un orientamento antifascista nella dirigenza democristiana – la quale, ad esempio, proprio per impedire il dilagare dell’estrema destra nel 1950 rinviò di un anno le elezioni amministrative nel Meridione e riuscì a resistere, ancora nel 1952, alle pressioni vaticane per una lista unitaria con il MSI alle elezioni comunali di Roma.
Se per questo decennio non parlerei quindi di memoria, quanto di una continuazione, via via più sfumata, dell’impegno partigiano – in questo vero senso possiamo dire che la nostra Costituzione è «nata dalla Resistenza» – scorgiamo però una chiave di lettura fondamentale in questa sovrapposizione tra costruzione della Repubblica e conclusione della Resistenza. La tradizione fascista non si evolve nella storia della Repubblica perché i fascisti non hanno partecipato alla nascita del nuovo Stato; ma i fascisti non vi hanno partecipato non semplicemente perché erano stati sconfitti militarmente. La radice di questa assenza è più profonda.
Il Regno d’Italia come forma nazionale unitaria è stato imperdonabilmente colluso con il fascismo se non dalla marcia su Roma almeno dal delitto Matteotti. Dopo vent’anni di questa simbiosi, la separazione improvvisa tra i due contraenti, avvenuta tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, ha portato a due conseguenze storiche. La prima e più evidente, il tradimento fascista nei confronti dello Stato italiano, con la scelta di organizzare nel Centro-Nord il regime fantoccio repubblichino e di servire l’occupazione tedesca.
Il secondo, meno evidente rispetto all’indegnità fascista ma più rilevante storicamente, il fatto che il Regno d’Italia fu messo sotto processo dal movimento antifascista, che costituendosi come Comitato di Liberazione Nazionale esprimeva un contropotere, fondato su tutt’altra legittimazione che quella meramente dinastica. Il CLN riesce a processare la monarchia, perché nell’accordo dell’aprile 1944 esso ottiene: l’allontanamento del Re e il passaggio delle sue funzioni al principe Umberto; l’integrazione del CLN nel secondo governo Badoglio; l’impegno di Badoglio a dimettersi una volta liberata Roma per consentire la costituzione di un governo integralmente espressione del CLN; la convocazione a guerra finita di un referendum sulla forma istituzionale dello Stato e di elezioni per dotare l’Italia – Regno o Repubblica – di una nuova Costituzione legittimata dal popolo. Badoglio e la monarchia rispettarono tutti gli impegni, con un’unica fellonia: l’abdicazione del Re a maggio 1946 nel tentativo di risollevare il prestigio dei Savoia in vista del referendum.
Questo passaggio è fondamentale per capire come le vie del fascismo e della Repubblica siano divise fin dall’origine. Perché i fascisti e i loro eredi parlano ancora oggi di «guerra civile»? Perché così essi l’hanno vissuta! Nel momento in cui patrioti italiani rifondavano lo Stato e combattevano per liberare l’Italia dalla Wehrmacht, i fascisti prendevano le armi contro questi patrioti e si opponevano al percorso nazionale.
Anni 1950
La memoria di questo decennio, dice De Luna, è «difensiva, una memoria in cui ci si barrica intorno al “Secondo Risorgimento” perché si è sotto attacco».
La formula del Secondo Risorgimento si riferisce in particolare, in questo contesto, all’elaborazione che, sotto la guida di Togliatti, fu fatta in quegli anni dal Partito Comunista Italiano. In realtà questa elaborazione discende direttamente, da un lato, dalle riflessioni che Gramsci in carcere aveva dedicato al Risorgimento vero e proprio, sottoponendolo a una serrata critica dal quale emergeva l’assenza di un realistico programma con cui la sinistra risorgimentale avrebbe potuto rivolgersi alle masse; dall’altro, dall’uso del termine «secondo Risorgimento» per mano degli ambienti più moderati dell’antifascismo italiano.
Per inquadrare i rapporti tra fascismo e antifascismo nell’Italia degli anni Cinquanta si deve aver presente il risultato consegnato dalle elezioni del 1953, in cui il blocco centrista fermandosi al 49,8% mancò di poco il premio di maggioranza previsto dalla “legge truffa” per chi avesse superato il 50% dei voti, mentre avanzarono sia le forze di sinistra (PCI e PSI aumentarono del 4,7% rispetto al Fronte del 1948) sia quelle di destra (MSI e monarchici guadagnarono complessivamente il 7,9%).
Nel MSI, in particolare, si era affermata la guida “moderata” di Michelini che, con l’intenzione di riportare il partito al potere, era conscio che l’alleanza di governo con la DC sarebbe dovuta passare necessariamente per un lavacro lustrale che lo allontanasse, almeno simbolicamente, dall’eredità del regime. Dietro le quinte vi erano inoltre le forti pressioni di ambienti industriali per l’unificazione tra liberali, monarchici e missini in un unico partito di destra.
A causa dei contrasti interni alla DC l’ottavo governo De Gasperi (luglio 1953) e il primo Fanfani (gennaio 1954) si videro negata la fiducia appena si presentarono alle Camere, mentre il governo Pella di intermezzo ricevette l’appoggio esterno dei monarchici e l’astensione del MSI. I successivi capi di governo, ossia Scelba (febbraio 1954) e Segni (luglio 1955), provenienti entrambi dalla destra DC, ricostituirono la formula centrista e si giovarono della favorevole scissione monarchica per mano di Achille Lauro, ma non riuscirono a contenere lo scontro nella propria coalizione. Specialmente dopo la rottura tra PSI e PCI del 1956, infatti, all’ipotesi di un accordo di destra si contrappose l’avvicinamento dei socialisti al governo, caldeggiato anche dal nuovo Presidente della Repubblica Gronchi. Nel maggio 1957 il senatore Zoli, che aveva formato un governo di carattere istituzionale in vista della conclusione della legislatura, ricevette la fiducia delle Camere con i sì determinati di monarchici e, per la prima volta, dei neofascisti, fatto che lo portò a rassegnare le dimissioni, respinte da Gronchi per evitare il precipitare dello scontro politico. Il redde rationem sarebbe giunto, come è noto, a luglio 1960 nel corso del governo Tambroni.
È dunque nel quadro di queste manovre per il ritorno dei fascisti al governo che si deve inquadrare la memoria resistenziale soprattutto del PCI.
All’inizio del decennio fu il Presidente della Repubblica, il liberale Luigi Einaudi, a commemorare il primo quinquennio dalla Liberazione inquadrandoli nel «carattere unitario del richiamo a quei comuni ideali che – nel solco della gloriosa tradizione del Risorgimento – il nostro popolo ancora una volta volle e seppe tradurre in cimenti segnati da martirii e sacrifici».[2]
A dicembre 1953, recensendo la «Storia della Resistenza italiana» di Roberto Battaglia, Togliatti scrisse su Rinascita:
«Il termine [“nuovo” o “secondo” Risorgimento] è assai diffuso […]. Ci sembra però che di solito si sfugga al compito di fornire una esatta definizione storica di quel termine. […] Quali sono dunque i rapporti tra il primo e il “secondo”? Questo ripete quello, lo prolunga, lo riproduce in condizioni diverse […], oppure lo corregge, ponendosi e muovendosi, sopra un piano diverso?».[3]
La critica di Togliatti si appuntava contro l’uso prevalentemente idealistico di quel termine, che intendeva cioè cucire il movimento resistenziale alla narrazione agiografica del Risorgimento in cui «i problemi sociali […] e la stessa considerazione delle condizioni di vita e di lavoro, di produzione e di benessere della grande massa dei cittadini, esulavano da qualsiasi considerazione».[4]
Viceversa, l’operazione del PCI fu di collegare in un unico filo la lettura della Resistenza, il testo costituzionale repubblicano e l’attuazione della Costituzione – che fu veramente il programma politico su cui più si batté il partito in quel decennio, in quella lunga marcia nella «democrazia progressiva» che si proponeva di giungere un giorno a ricostituire l’unità antifascista spezzata nel 1947.
Di particolare rilievo, per comprendere meglio l’importanza cardinale dell’attuazione costituzionale, è la battaglia politica riguardo l’elezione dei cinque giudici di nomina parlamentare per la neo-istituita Corte Costituzionale nel 1955. Eletti Ambrosini e Cappi per la DC, Cassandro per il PLI e Bracci per il PSI, il quinto membro restava conteso tra i comunisti e l’asse MSI-PNM. Pur di affermare il diritto del PCI ad eleggere un giudice, Togliatti ritirò la candidatura di Crisafulli sostituendola con quella del conservatore indipendente Jaeger, che fu eletto.[5]
Questo collegamento Resistenza-Costituzione-lotta politica si fondava esplicitamente su un legame di analogia e differenza con il Risorgimento: «La Resistenza italiana parte dal crollo del fascismo [che] è il crollo di una classe dirigente».[6] Il fascismo, a propria volta, aveva col Risorgimento un rapporto altrettanto dialettico: da un lato con il suo avvento «è tutto lo Stato creato col Risorgimento che crolla»; dall’altro, se esso «annientò quel poco di ordinamento democratico che era stato raggiunto […] portò sino a un punto di estrema esasperazione quella politica di conservazione sociale, di “difesa dell’ordine” borghese, che già durante il Risorgimento si può chiaramente individuare».[7]
Perciò «la ricostituzione di uno Stato nazionale e democratico fu e doveva essere opera di altre forze. Fu opera della Resistenza, la quale è giusto chiamare “secondo Risorgimento”» a patto di tenere presente che essa «non ha continuato, ma corretto il Risorgimento», esprimendo cioè le rivendicazioni di direzione politica di quelle classi subalterne che erano state escluse dall’unificazione nazionale.[8]
Così concepita, la Resistenza non era solo la memoria da difendere della lotta partigiana, ma era anzi un fondamento ben radicato della lotta politica contemporanea. Celebrando il decennale della Liberazione, fu ancora Togliatti a dire, insistendo sulla questione della nuova classe dirigente e avendo ben presenti le manovre di avvicinamento del MSI al governo: «La Resistenza non cominciò nel 1943. Era partita da molto più lontano; e poté vincere appunto perché da molto più lontano partiva. Così pure la Resistenza non è finita con la vittoria dell’insurrezione del maggio 1945. La Resistenza deve continuare, continua, continuerà sino a che sussistano minacce a quell’ordine di democrazia e di progresso che essa ha voluto instaurare».[9]
[Continua nei prossimi giorni]
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https://video.repubblica.it/dossier/25-aprile-2020/25aprile2020-il-corteo-web-di-repubblica-a-75-anni-dalla-liberazione-integrale/358991/359545, per esteso tra 1:56:00 e 1:58:50. ↑
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L. Einaudi, Per la celebrazione del 25 aprile, 24 aprile 1950, in https://archivio.quirinale.it/aspr/discorsi/search/result ↑
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P. Togliatti, «Una storia della Resistenza italiana», Rinascita, anno X, n. 12, dicembre 1953, pp. 678-680. ↑
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P. Togliatti, «Le classi popolari nel Risorgimento», Studi storici, anno VI, n. 3, luglio-settembre 1964, pp. 425-448. ↑
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Molto ironicamente, di lì a poco Crisafulli sarebbe passato nel Partito socialdemocratico (e Saragat lo avrebbe nominato Giudice costituzionale nel 1968), facendosi promotore negli anni seguenti di posizioni molto atlantiste e filo-golpiste. ↑
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P. Togliatti, «Una storia della Resistenza italiana», cit. ↑
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P. Togliatti, «Le classi popolari nel Risorgimento», cit. ↑
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Ibidem. ↑
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P. Togliatti, «Il contributo dei comunisti alla Resistenza italiana. Discorso pronunciato al “Vigorelli” di Milano il 17 aprile 1955», Milano, S.A.M.E., 1955, pp. 25-46. ↑
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.