Pubblicato per la prima volta il 3 dicembre 2013
Quando si verifica una piena eccezionale, l’acqua di un fiume raccoglie lungo il cammino centinaia di detriti che, abbandonati sulle sponde dal caso, vengono trascinati dalla corrente e talvolta finiscono per accatastarsi in un informe castello di scorie. Un mese fa è successa più o meno la stessa cosa con la vittoria di De Blasio a New York. Il ritorno dei democratici alla guida della metropoli dopo vent’anni di Giuliani e Bloomberg è sicuramente un evento molto significativo. I commenti che, almeno in Italia, si sono sprecati su questo tema assomigliano invece al ricordato castello di scorie. Tralasciamo i facili orgogli nazionali per le origini italiane del nuovo sindaco e andiamo immediatamente al punto politico: De Blasio – o “Bill il rosso” – è stato percepito come l’alfiere di una nuova politica di redistribuzione, equità, giustizia sociale e welfare.
A sinistra, in particolare, si sono avute due reazioni, una di sfogo infantile e una più seria sotto l’aspetto programmatico. La prima ha consistito nel riproporre lo stantio ritornello “addirittura ha proposto di aumentare le tasse ai ricchi! In Italia sarebbe stato un pericoloso comunista!”. La seconda, invece, si è focalizzata sul programma di De Blasio di spendere i nuovi introiti fiscali per investire sugli asili nido. Il passato di De Blasio come sostenitore dei sandinisti, pure talvolta ricordato, ha avuto un posto quantomeno secondario nelle ragioni della sua glorificazione come nuovo vate della sinistra. Evidentemente si tratta di un livello di consapevolezza storica troppo difficile, oppure (a pensar male si fa peccato…) gli esponenti politici preferiscono parlare di una sinistra accettabile per il sistema occidentale.
E proprio questo è l’oggetto della nostra analisi. Ci chiediamo quanti elettori di sinistra galvanizzati per De Blasio sappiano che fra i suoi grandi sostenitori figura – fin da agosto, durante la campagna delle primarie – George Soros, finanziere che, per l’entità e l’importanza dei suoi interessi ed operazioni, potremmo definire “il più grande speculatore del mondo”. In ottobre Soros è diventato anche presidente di Ready for Hillary, un super-comitato dedito alla raccolta di capitali per sostenere la candidatura di Hillary Clinton alle presidenziali del 2016. Come dobbiamo leggere la convergenza dell’area di centrosinistra, ovvero la forza egemone del progressismo occidentale, con forze capitalistiche tra le più equivoche?
Si dirà che i democratici americani non possono essere presi come modello di progressismo, poiché non hanno mai avuto una radice socialista (sebbene, di fatto, abbiano per molti decenni abbracciato un modello di tipo socialdemocratico). Eppure, spostandoci in Europa, la situazione non cambia: il punto è costituito proprio dall’abbandono di qualsiasi prospettiva di superamento del capitalismo.
Volendo rintracciare le origini di questo processo, dobbiamo anzitutto partire dal fatto che la crisi del socialismo reale, il crollo del Muro, la dissoluzione dell’URSS, sembrarono definitivamente spazzare via dalla Storia l’ipotesi comunista. I comunisti occidentali furono chiamati a scegliere tra due alternative: prendere le distanze da questa esperienza (come fatto in Italia) o condannarsi ad un lento ma inevitabile declino (come fatto in Francia).
Chi prese le distanze – chi, dunque, conservò un capitale di influenza politica – divenne, di fatto, socialdemocratico. Il problema era che anche in questo caso ci si inseriva in una tradizione incrinata dall’inflazione degli anni Settanta e dai successi (o percepiti tali) del thatcherismo: già con la svolta di Blair ci si distanziava, infatti, dall’originario compromesso socialdemocratico per attribuirsi un nuovo ruolo: quello dei più sapienti gestori del mercato. La socialdemocrazia, infatti, accetta lo stato di cose capitalistico, ma non in prima battuta: tale accettazione è un compromesso, con il quale il partito dei lavoratori si prende l’impegno di imbrigliare e contenere la combattività operaia in cambio dell’introduzione di correttivi sociali.
La crisi del 2008, con il collasso di uno sviluppo drogato e insostenibile, ha ricondotto il sistema alle sue condizioni di realtà, e fatto emergere con maggiore chiarezza ciò che negli anni precedenti restava velato da una seppur tenue crescita economica.
Il campo politico euro-atlantico può oggi essere diviso in due grandi settori. Uno di essi è costituito da destre che, sebbene assai diverse tra loro, sono unificate dal comune dato di egoismo, dell’idea cioè che nel mondo non vi sia interdipendenza e sia possibile salvarsi da soli (dove “soli” può significare l’esclusione degli immigrati, dei concittadini, degli altri Paesi comunitari). Per tale orientamento parziale, queste destre – dalla CDU al Tea Party al Movimento 5 Stelle – agiscono come oggettivo fattore di instabilità per il sistema capitalistico stesso (anche se sostenute da eminenti concentrazioni di capitale).
L’altro campo, invece, è formato da forze tendenzialmente di centro-sinistra che trovano la loro fattuale ragione di essere nella gestione oculata del sistema capitalistico. Il volto con cui si presentano al mondo è quello di un Ufficio organizzazione tecnica; i meccanici che fanno marciare il veicolo contro gli egoismi di chi, ad esempio, non vuole spendere per la benzina o per la manutenzione. Lo stato sociale, in questa ottica, non è più il frutto del compromesso: esso viene visto da un’altra prospettiva, ovvero come componente fondamentale per il buon funzionamento del capitalismo (donde il meritato nome di ammortizzatore). Per tali ragioni quest’area politica può essere definita come “neutro-sinistra”, cioè un centro-sinistra il cui operato intende essere neutrale: non, cioè, produrre trasformazioni sociali, ma semplicemente amministrare il funzionamento del sistema (ovviamente ciò non è possibile perché il funzionamento del sistema è definito come il suo accrescimento, cioè come un suo mutamento).
Chi non ha abbandonato l’ideologia socialdemocratica vive una forte scissione, combattuto tra le opposte esigenze di frenare l’estrema destra, articolare un programma di tipo socialista, rispettare i vincoli tecnocratici. Ma neppure i più rossi fra loro sfuggono al gorgo del neutro-sinistra: si vedano le dichiarazioni del leader socialista belga Di Rupo che dice “abbiamo firmato il fiscal compact e lo rispetteremo; crediamo nel rigore ma non nell’austerità”.
In Italia abbiamo forse un osservatorio privilegiato su tutto questo. Il centrosinistra ha formalmente abbandonato l’ideologia socialdemocratica (ciò che l’autore considera un bene), abortendo però gli originari intenti di un nuovo progetto trasformativo e riducendosi così all’essenza del neutro-sinistra: si vedano i ripetuti ed estenuanti richiami del PD al senso di “responsabilità” e la denuncia della corrispondente “irresponsabilità” degli avversari. D’altro canto, le destre italiane, pur divise tra populismo (FI) e fascismo (M5S), propagandano entrambe l’avversione viscerale verso gli organismi finanziari e politici (per convenienza i forzisti, per convinzione i nazigrillini). In questo quadro, anche una figura non di sinistra come Mario Monti è giocoforza inscritta nel campo del neutro-sinistra.
Una differenza tra gli Stati Uniti e l’Europa è però che, se in entrambi i casi il senso del neutro-sinistra è la pura amministrazione, questa richiede un livello di stato sociale che negli USA è assente. Così, neutro-sinistra e lotta per il progresso si identificano, negli Stati Uniti, nel comune obiettivo di espandere le coperture sociali e l’affidabilità del sistema (di evitare, cioè, che il motore dell’automobile disperda troppa energia). In Europa, invece, il senso del neutro-sinistra non si identifica con la lotta per il progresso, bensì si limita a costituirne il nucleo essenziale che ne mantiene in vita la possibilità (giacché dall’instabilità hanno da guadagnare solo i movimenti di estrema destra).
Immagine di Gage Skidmore (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.