I dati sulla natalità in Italia presentati dall’Istat sono davvero fonte di preoccupazione non solo per gli equilibri pensionistici ma anche per la tenuta della società stessa. Questa settimana il Dieci mani proverà a interrogarsi circa questa importante questione.
Leonardo Croatto
Il calo demografico, dovuto ad un numero di nascite sotto il livello di sostituzione, è un fenomeno non nuovo e non solo italiano. Nei paesi industrializzati la natalità è in calo almeno dalla seconda metà degli anni ’70, e ad oggi non risulta alcun paese europeo sopra il livello di sostituzione. La Francia, paese europeo col tasso di fertilità più alto (dati Eurostat 2019), arriva a 1,86, mentre l’Italia si ferma a 1,27 (un po’ più in alto se entrano nel calcolo i figli di madri non UE). Secondo lo stesso set di dati, l’Italia è il paese europeo con l’età media più alta per le madri al primo figlio.
L’orientamento politico-religioso di chi valuta questi dati restituisce di solito analisi differenziate rispetto sia alle cause del fenomeno sia alle possibili soluzioni. Le correlazioni tra fertilità e variabili socioeconomiche sono abbastanza complesse: esistono sostanziali differenze tra diverse regioni e tra città e aree interne (in ogni paese europeo), determinate da diversi livelli di reddito e di accessibilità dei servizi; ma se i paesi più ricchi sono in genere anche quelli in cui si fanno meno figli, è anche vero che la qualità dei servizi, i livelli di reddito e gli strumenti legislativi e contrattuali per la conciliazione vità – lavoro impattano in genere positivamente sulla fertilità; insomma, sembra essere in generale il capitalismo più spinto – quello fatto di alta produttività e bassi diritti – che rende più difficile per una coppia mettere al mondo dei figli.
Ovviamente, il tema della scarsa natalità, nelle analisi, viene immediatamente messo in relazione con la sostenibilità dei sistemi pensionistici e di welfare: il calo delle nascite diminuisce il rapporto tra lavorativi attivi ed inattivi, la bassa natalità viene quindi messa in conflitto con il diritto alla pensione e con la forte presenza statale nei servizi alla persona e alla famiglia, in una spirale – innalzamento dell’età pensionabile e riduzione dei servizi alla persona – che rischia di portare il fenomeno verso un peggioramento. Ci sarà anche una deriva dell’etica, una spinta edonistica, che portano a non fare figli, ma di sicuro precarietà lavorativa, salari da fame, politiche di conciliazione vita lavoro miserabili e assenza di servizi (non a pagamento, s’intende) di sicuro non sono degli ottimi incentivi per la natalità.
Resta inteso, ovviamente, che questo dibattito sulla denatalità ha senso solo se il nostro sguardo è centrato sull’Europa. Ad oggi il tasso di fertilità dell’intera specie umana sul pianeta si colloca intorno al 2,4, e le previsioni dei demografi ci danno a 11 miliardi intorno al 2050; si puo quindi affermare con sicurezza che non c’è pericolo di scomparsa dell’uomo sulla terra (fatte salve catastrofi naturali o artificiali), ma semplicemente che i paesi a capitalismo spinto si stanno facendo da parte per lasciar spazio al sud del mondo, con buona pace delle destre xenofobe.
Piergiorgio Desantis
I dati della natalità italiana che ci giungono da fonte Istat sono molto preoccupanti e sono solo una conferma importante di un declino della società stessa che si sta avvitando in una contrazione anche del numero degli stessi cittadini. Oltre agli equilibri pensionistici è in pericolo la tenuta della stessa società. Un paese con un gran numero di anziani, con un’aspettativa di vita che tende a scendere, e una popolazione lavorativa immersa in problemi epici: la precarietà lavorativa, il ritorno di analfabetismo, l’abbassamento del livello della sanità pubblica (solo per citare, forse, i più importanti). Lo spirito dei tempi, ovvero lo Zeitgeist, impone una revisione delle leggi che regolano l’acquisizione della cittadinanza (dallo ius sanguinis alla ius soli). Ma non basta, è necessaria una ripartenza dell’economia italiana e, con essa, della buona occupazione con un contributo anche importante da parte statale. Siamo molto lontani (per il momento) dal vedere un’inversione di tendenza ma i tempi porranno e riproporrano le necessità di ripensare e ritrovare le radici umanistiche e democratiche della nostra Costituzione italiana.
Dmitrij Palagi
In un eterno presente perché si dovrebbe desiderare di avere figlie o figli? La domanda è interna agli orizzonti di senso delle nostre vite, ritenuti in crisi da molti saggi e studi. In realtà tutto è perennemente “in crisi”, se si guardano i titoli nelle librerie degli ultimi decenni. Esplicative di un problema di analisi sono le risposte reazionarie di una vulgata pseudo-marxista prestata alla difesa della famiglia tradizionale, contro la mercificazione della vita, con deliranti ricostruzioni difficili anche da seguire nelle loro logiche interne.
Sbagliata appare anche la posizione per cui il bisogno di forza lavoro per coprire le pensioni richiederebbe forti flussi migratori, quasi il nostro Paese avesse diritto a “importare manodopera” e l’umanità dipendesse dalla possibilità di “usare” le persone. Dubbia anche la richiesta di incentivare la natalità: diamo soldi alle giovani coppie, così potranno regalare nuovi corpi alla patria?Una discussione complessiva sarebbe necessaria, non (solo) a livello teorico, piuttosto sullo sgretolamento della percezione del futuro. Con uno sguardo globale, che sappia tenere conto del tema della popolazione fra i vari continenti e della correlazione di questo con i cambiamenti climatici.Per unire alcune banalità: nei film d’azione c’è spesso un cattivo pronto a sterminare una parte del pianeta per il problema del sovraffollamento (anche dalle parti della Marvel, a dimensione universale).
La natalità attiene alle scelte individuali ma ha conseguenze sociali. Vale in realtà per quasi tutto quello che ci riguarda. Lì sta la ragione dell’esistenza stessa della politica, a cui si chiede di proporre una visione complessiva dello stato di cose presenti ed una eventuale ipotesi di superamento dello stesso. Ciò implica qualcosa di più di un assegno da passare alle mamme, o di un corridoio umanitario, o della costruzione di qualche nuovo asilo nido (tutte risposte pure necessarie, ma comunque parziali).
Jecopo Vannucchi
L’ipotesi che il confinamento di primavera 2020 potesse consentire un surplus di nascite, aiutando a bilanciare lo squilibrio demografico, a nove mesi di distanza si è rivelata errata. In sé è un bene avere la conferma che non è saltata la pianificazione familiare; tuttavia, in condizioni di contorno negative, questa pianificazione non può che avere anch’essa un esito negativo.I dati sul drastico calo occupazionale, che ha penalizzato in maggior misura giovani e donne, sono di dominio pubblico, come pure il fatto che neppure l’immigrazione di comunità a maggior tasso di natalità è sufficiente a riattivare la crescita di popolazione. Il problema reale però non è la piramide di età, ma il tipo di società da cui una tale piramide deriva. Un’Italia che si qualificasse come esportatrice di materie prime e prodotti agricoli potrebbe forse risolvere la questione demografica anche in assenza di lavori sicuri e dignitosamente retribuiti. Questa era probabilmente l’idea del primo governo Conte, che nella legge di bilancio 2019 assegnò terre pubbliche incolte a famiglie con almeno tre figli. La natalità umana non è un tema soltanto biologico, come può esserlo ad esempio nella zootecnia; né è un tema soltanto familiare, sul quale quindi intervenire con specifiche politiche mirate. Si tratta invece di un indicatore fondamentale della direzione di marcia della società. È necessario curare la malattia per far sparire il sintomo.
Poiché l’urgenza di evitare la catastrofe generazionale è sempre apparsa chiaramente nelle parole di Draghi fin dalla nascita del governo e poiché sul tema del lavoro si sono consumati gli ultimi strali del PD in direzione della Lega, forse un riassestamento della maggioranza di governo potrebbe favorire interventi più decisi in merito.
Immagine da www.picryl.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.